Strategie femministe per svelare i nuovi strumenti del padrone. L'impostura verde dei giganti delle big tech

di Camila Nobrega e Joana Varon *

Manifesti, video, discorsi. La parola foresta (bosco) era esposta ovunque, accanto a stand igienizzati e a piante uniformemente potate e disposte in modo geometrico che lentamente appassivano sotto la luce artificiale. Erano tentativi di rappresentare la “natura” alla 25a Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP25) all'IFEMA - la Fiera di Madrid - che ha avuto luogo nel dicembre 2019, ed è stata l'ultima edizione in presenza prima della pandemia di Covid-19. L'enorme allestimento sembrava una fiera tecnologica e in effetti, a vari livelli, era presente anche la tecnologia.

Tra le presunte innovazioni per “combattere il cambiamento climatico” c'erano idee iperboliche come specchi giganti per riflettere i raggi del sole o una specie di aspirapolvere che sarebbe stato collocato nello spazio per estrarre l'anidride carbonica dall'atmosfera, tutto questo sotto la parola in voga di “geoingegneria”. Anche molte aziende tecnologiche sono salite sul palco per annunciare come questo campo potrebbe salvare il pianeta. Rebecca Moore, responsabile di Google Earth, Earth Engine e Outreach, ha scritto, per esempio, che l'azienda stava “rendendo possibile a tutti di costruire un mondo più sostenibile”1, in riferimento alla sua partnership con il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente. Quest'ultima annunciata come “una partnership globale che promette di cambiare il modo in cui vediamo il nostro pianeta”2 , posizionando così Google Earth Engine come i nostri nuovi occhi per affinare la nostra visione dell'intero pianeta.

Settimane prima, a fine novembre 2019, avevamo anche ascoltato i rappresentanti di alcune di queste stesse aziende tecnologiche su un altro palcoscenico diplomatico delle Nazioni Unite tenutosi a Berlino, il 14° Internet Governance Forum (IGF), il cui slogan era “Un Mondo. Una rete. Una visione”. Ma la visione di chi? Di nuovo un'ambizione planetaria, questa idea di come dovremmo vedere il mondo e, di nuovo, la tecnologia si situava - o cercava di situarsi - al centro. Gradualmente, i linguaggi e le narrazioni dei governi e dei rappresentanti dell'industria cominciano ad assimilarsi a questi due scenari, incorporando una comprensione delle tecnologie come “strumenti” - a volte come i principali strumenti - per risolvere i problemi umani, dalla povertà alla democrazia, al cambiamento climatico. Un pericoloso mix di “economia verde” e tecnosoluzionismo che insieme stanno trasformando in business le rivendicazioni dei gruppi emarginati.

Questa analisi è il risultato del nostro sforzo congiunto per identificare un ciclo di narrazioni ricorrenti promosse in questi spazi di potere. Sebbene questi forum rappresentano un palcoscenico della politica internazionale, sono anche segnati per la loro distanza dalle persone e dai movimenti che vogliono fare fronte non solo al cambiamento climatico, ma mostrare l'evidenza dell'ingiustizia socioambientale causata dal sistema socioeconomico liberista che stiamo vivendo con nuove forme di relazione coloniale. Movimenti che segnalano la necessità del riconoscimento delle molteplici forme di vita, del loro utilizzo storico e della gestione collettiva dei territori, 3 come il caso delle pratiche dei popoli indigeni o dell'agricoltura familiare. Movimenti che cercano un utilizzo e uno sviluppo più autonomo, orizzontale e includente delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (TIC) per proteggere, e non per minacciare, i diritti umani fondamentali. Anche se la diversità è un principio base per un mondo non monoculturale, le terre e i mezzi di sussistenza vengono sempre più ingoiati da, tra gli altri, discorsi sul tecnosoluzionismo e dalle narrazioni sull'economia verde. E qui chiariamo che non si tratta di negare l'importanza del dibattito climatico e dei forum internazionali, al contrario. La discussione che portiamo è l'approfondimento dei processi democratici e non viceversa, come tentano di fare le correnti di estrema destra appropriandosi del dibattito sul clima e negandolo, rendendo tutto più assurdo e aggravando il razzismo, la xenofobia e le disuguaglianze.

Per svelare le relazioni di potere non dobbiamo separare l'analisi delle azioni da uno sguardo critico sui discorsi che intendono subordinare i nostri corpi e i nostri territori. Silvia Cusicanqui, pensatrice decoloniale aymara, ha applicato il concetto di gattopardismo alla forma in cui i governi rispondono alle necessità delle comunità indigene: “Cambiare perché tutto resti uguale”4. Il gattopardismo è definito come “la filosofia o strategia politica di spingere verso cambiamenti rivoluzionari che, nella pratica, modificano solo superficialmente le strutture di potere esistenti”.5 Guardando le narrazioni e le pratiche delle big tech (le grandi aziende tecnologiche) che si mascherano di “verde”, noi solleviamo la questione di come queste siano espressione della politica del gattopardismo. Cusicanqui ha detto anche: “Non ci può essere nessun discorso di decolonizzazione, nessuna teoria della decolonizzazione, senza una pratica decoloniale”. Questo significa non solo allargare il dibattito su questi temi, ma interrogarsi su chi, in fondo, ha avuto lo spazio per parlare, creare soluzioni e indicare i rischi all'interno del sistema in cui viviamo. Quali organismi hanno il potere di dire no ad alcune delle soluzioni proposte?

Con questa analisi, ispirandoci alle teorie e alle pratiche femministe, speriamo di contribuire alla costruzione di una visione analitica decoloniale dei discorsi che permettono il greenwashing (o inganno verde), e quelli sul tecnosoluzionismo nel dibattito pubblico. Apportiamo due diverse prospettive: una incentrata sulle implicazioni dei diritti umani nello sviluppo e nella diffusione delle tecnologie, l'altra sui discorsi dominanti nei conflitti socio-ambientali e le loro conseguenze sui territori. Entrambe le prospettive usano un approccio femminista per svelare le relazioni di potere. Così, sebbene qui ci concentriamo sulle grandi aziende tecnologiche, il nostro obiettivo è quello di capire i loro legami con altri attori potenti, come i governi e le aziende di altri settori economici.
 

Economia verde: nuovi nomi stessi obiettivi

Tra il 2019 e il 2020, sentendo la pressione delle proteste di consumatori e consumatrici, ma anche dei e delle dipendenti soffocati/e dal fumo degli incendi di San Francisco, sede della Silicon Valley, e approfittando del clamore intorno alla economia verde, le grandi aziende tecnologiche hanno preso una serie di impegni in materia di cambiamento climatico. Google ha promesso che, entro il 2030, funzionerà 24 ore al giorno con energia libera dal carbonio in tutti i suoi data center e campus. Apple ha annunciato che “ogni dispositivo Apple venduto avrà un impatto climatico a zero netto” entro il 2030. Microsoft si è impegnata a essere “carbonio-negativa entro il 2030 e, entro il 2050, a rimuovere dall'ambiente tutto il carbonio che l'azienda abbia immesso”6. Facebook, ignorando il suo stesso intervento pubblico di concentrarsi sulle emissioni di carbonio, ha costruito un sito web ad alto utilizzo di risorse, più sporco del 73% rispetto ai siti web analizzati dal Website Carbon Calculator,7 promettendo, entro il 2030, “zero emissioni nette di gas serra” per la catena del valore dell'azienda.

Inoltre Amazon – non dobbiamo mai dimenticare che stiamo parlando della multinazionale tecnologica con sede a Seatlle, che ha preso il nome dalla più grande foresta del mondo – si è impegnata affinché le emissioni di carbonio prodotte da tutte le sua attività saranno pari a zero entro il 2040. Ha anche annunciato la creazione di un Climate Pledge Fund (Fondo d'impegno per il clima) di migliaia di milioni di dollari per investire in startup che svilupperanno “tecnologie sostenibili e per la decarbonizzazione”. L'iniziativa è stata molto criticata da chi ha sottolineato che, utilizzare il modello del capitale di rischio per finanziare soluzioni, non fa che alimentare lo stesso sistema che sta producendo ingiustizia socio-ambientale.

Il Fondo è stato anche una risposta - e una fuga - a uno scandalo esploso dopo che la società aveva minacciato di licenziare un gruppo di dipendenti che avevano parlato del “ruolo di Amazon nella crisi climatica”. In questo contesto, il CEO Jeff Bezos ha dichiarato: “Noi possiamo salvare la Terra. Ci vorrà uno sforzo collettivo da parte di grandi imprese, piccole imprese, stati nazionali, organizzazioni globali e individui”. Ma chi è esattamente questo “noi”?

Gattopardismo? Beh, l'ultima volta che la maggior parte delle grandi aziende tecnologiche ha agito insieme è stato probabilmente quando hanno bloccato tutti gli account dei social media di Trump, tipico caso di una situazione in cui non c'era più nulla da temere, nulla da perdere e nulla da fare, a parte cercare di migliorare la sua reputazione.

Fa parte della strategia mediatica di queste aziende assicurarsi che le loro “azioni verdi” siano ampiamente pubblicizzate nelle campagne di marketing e nei media. (Una cosa da notare: probabilmente non è una coincidenza che Bezos, uno degli uomini più ricchi del mondo, sia diventato l'unico proprietario del Washington Post, una forza potente nel plasmare la politica statunitense). Ma questi impegni, nelle loro stesse dinamiche commerciali, sono ben lontani dalla trasparenza e, più probabilmente, sono utilizzati come strumenti per mantenere lo status quo e la logica della riproduzione capitalista. Non possiamo dimenticare che, anche dopo aver annunciato i suoi obiettivi nel mercato del carbonio, Facebook è stato anche individuato e svergognato per aver tratto profitto da annunci che negano il cambiamento climatico, alcuni dei quali hanno anche definito il cambiamento climatico una bufala. Un rapporto di InfluenceMap 8 ha rivelato “51 annunci di disinformazione sul clima riportati sulle piattaforme di Facebook negli Stati Uniti durante la prima metà del 2020”, che hanno registrato “8 milioni di contatti nel semestre”. Il rapporto ha anche notato che solo uno di questi annunci è stato rimosso da Facebook.

Il Gruppo della Carta di Belém, un raggruppamento brasiliano di attivisti e ricercatori sulla giustizia socio-ambientale, identifica questo tipo di processo come un fenomeno a cui “il capitalismo dà altri nomi per continuare a riprodurre le sue forme di accumulazione”. In altre parole cambiano i nomi, ma la logica dell'estrazione e della distruzione continua.9 Il gruppo sottolinea che l'idea di sviluppo e progresso conosciuta per decenni come “sviluppo sostenibile” ha dato spazio a nuovi progetti per il futuro, tra cui l'economia verde. Tuttavia, l' “economia verde” è direttamente collegata alla finanziarizzazione della natura e alla cosiddetta “gestione verde” di attività come il disboscamento. Questi approcci mantengono lo stesso business, ma sembrano essere verdi e fantastici, sfuggendo così alla responsabilità di rispondere effettivamente ai cambiamenti strutturali. Stiamo assistendo a un'ondata di tecnologia verde e, molto probabilmente, altri frutti come i “dati verdi” sono in arrivo.

Negli ultimi decenni, le aziende sono state sotto pressione affinché pubblicassero dei rapporti ambientali. Gli impegni delle aziende sul cambiamento climatico tendono ad essere accompagnati da pagine di siti web attraenti e cool. Nel frattempo, c'è una quantità significativa di informazioni nascoste in questi rapporti - o omesse da essi -. Così abbiamo deciso di seguire alcune piste...
 

Minerali tecnologici: conflitti sui nostri corpi e territori

Dal 2010, le aziende statunitensi quotate in borsa sono obbligate a controllare, nelle loro catene di approvvigionamento, la presenza di stagno, tungsteno, tantalio e oro (3TG) - i cosiddetti “minerali di [zone in ] conflitto” - per rivelare l'uso di minerali provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo (RDC) o dai paesi vicini.

Nel tentativo di conformarsi ai regolamenti statunitensi, come altre aziende tecnologiche anche la società madre di Google, Alphabet Inc, pubblica annualmente il suo “Rapporto sui minerali di conflitti”. Abbiamo dato un'occhiata al rapporto del 2019, pubblicato nella sezione “relazioni con investitori” del suo sito web. (Di per sé ci ha colpito il fatto che non si rivolge ai consumatori o al pubblico in generale). Nelle sue conclusioni, il rapporto afferma:

Abbiamo ragione di credere che parte del 3TG usato nei nostri prodotti provenga dai Paesi Coperti. Anche se non abbiamo identificato alcun caso di approvvigionamento che sostenga direttamente o indirettamente il conflitto nei Paesi Coperti, non possiamo sostenere che nessuno dei nostri prodotti sia esente da conflitti nella RDC. In alcuni casi, le informazioni fornite dai nostri fornitori non erano verificabili o erano incomplete e quindi non siamo stati in grado di verificare con certezza l'origine e la catena di custodia di tutto il 3TG richiesto nei nostri prodotti.10

Mentre la valutazione dell'azienda si limita alla Repubblica Democratica del Congo e ai Paesi Coperti (i paesi di frontiera con la RDC), i dati del rapporto mostrano che i 3TG utilizzati da Google provengono da diverse parti del mondo, Brasile compreso.

Sebbene la legislazione statunitense si riferisca solo alla RDC e ai paesi limitrofi, la Guida sul Dovere di Diligenza dell'OCSE per le Catene di Approvvigionamento Responsabile di Minerali in aree di conflitti o ad alto rischio11, ha ampliato la definizione delle aree da prendere in considerazione:

Le aree ad alto rischio possono includere aree di instabilità politica o con presenza di repressione, debolezza istituzionale, insicurezza, collasso delle infrastrutture civili e violenza diffusa. Queste aree sono spesso caratterizzate da diffusi abusi dei diritti umani e violazioni del diritto nazionale o internazionale.

Allineata a questa definizione dell'OCSE, la normativa europea12, firmata nel 2017 e in vigore dal gennaio 2021, va oltre la richiesta di un rapporto e di dovuta diligenza e “esige che le aziende dell'UE nella catena di approvvigionamento si assicurino di importare questi minerali e metalli solo da fonti responsabili e senza conflitti”.

Secondo l'Atlante dei confitti socio-territoriali Pan-Amazzonico,13 tra il 2017 e il 2018 il Brasile è stato il campo di battaglia di 995 conflitti socio-ambientali nella regione amazzonica, il numero più alto tra i paesi vicini. Questo numero è poi aumentato con lo smantellamento delle politiche ambientali da parte della presidenza di Jair Bolsonaro, una minaccia ricorrente che ha ripetutamente fatto notizia a livello internazionale. Sotto l'attuale governo federale, circa 3.000 richieste di permessi minerari su terre indigene nella “Amazzonia legale” del Brasile, sono in corso di elaborazione da parte dell'Agenzia Nazionale delle Miniere. Almeno 58 sono già stati autorizzati, nonostante si trovino in territori indigeni. Questo scenario dipinge un quadro di “debolezza istituzionale”, “insicurezza”, “violenza diffusa” e “abusi dei diritti umani” che potrebbe facilmente qualificare molti territori, in cui l'estrazione mineraria viene impiegata nella regione amazzonica, come “aree ad alto rischio di conflitto”.

Dato che siamo entrambe di originari brasiliane, abbiamo deciso di scoprire quali aziende con sede in Brasile sono apparse nel “Rapporto sui minerali di conflitto” di Google. Abbiamo scoperto che 13 fonderie brasiliane forniscono ad Alphabet i quattro tipi di minerali elencati nel rapporto. Queste aziende sono: AngloGold Ashanti Corrego do Sitio Mineracao, Marsam Metals, Umicore Brasil Ltda., LSM Brasil S.A., Mineração Taboca S.A., Resind Indústria e Comércio Ltda., Estanho de Rondônia S.A., Magnu's Minerais Metais e Ligas Ltda., Melt Metais e Ligas S.A., Soft Metais Ltda., Super Ligas, White Solder Metalurgia e Mineracao Ltda. y ACL Metais Eireli.14

Una ricerca appena agli inizi ha dimostrato che conflitti socio-ambientali sono già presenti in queste zone. Per esempio, il fornitore Mineração Taboca gestisce la miniera di Pitinga nel comune di presidente Figueredo. Si tratta di una fonte di tantalio e anche uno dei maggiori depositi al mondo di cassiterite, principale fonte di stagno. Secondo un atlante indipendente sui conflitti sociali e ambientali, curato dall'Università Autonoma di Barcellona (Atlas Global de Justicia Ambiental - EJATLAS), il complesso minerario di Pitinga è “l'emblema della storica ingiustizia del Brasile contro la popolazione indigena e della sistematica minimizzazione dell'inquinamento ambientale e dei rischi associati alle dighe di contenimento degli sterili”.15

Il progetto EJATLAS aggiunge: “La miniera ospita grandi depositi di niobite (minerale di niobio) e tantalite (minerale di tantalio), la cui estrazione è diventata nell'ultimo ventennio sempre più importante con l'aumento dell'industria elettronica, stessa cosa vale per l'uranio. Il tantalio è un materiale chiave per l'industria elettronica e il Brasile ha il 61% dei depositi mondiali di tantalio. Alcuni di questi si trovano sotto le foreste, su terre indigene, come la miniera di Pitinga. “Pitinga Mine” si può vedere su Google Earth, in un'immagine di chilometri di devastazione in mezzo alla foresta amazzonica.

La storia della deforestazione, dell'occupazione delle terre indigene e della corruzione che circonda la miniera di Pitinga è stata riportata16 da Amazonia Real, un'agenzia di notizie indipendente e investigativa gestita da donne. Più precisamente sulla Mineração Taboca, un rapporto dell'Istitituto Socio-ambientale (ISA)17 ha rivelato che l'impresa realizza attività minerarie nelle terre indigene dei Waimiri-Atroari per estrarre cassiterite (stagno).

E' molto probabile che quello della Mineracão Taboca sia solo un ulteriore esempio di una situazione ricorrente. La lista di fonderie nel rapporto di Google mostra che molte di esse si trovano a Rondônia, uno degli stati più deforestati della regione amazzonica, dove l'attività mineraria gioca un ruolo importante.

Nel 2019, 34 comuni di questo stato sono stati registrati presso l'Agenzia Nazionale delle Miniere. Nel frattempo, i dati del 2019 di un progetto chiamato Latentes, coordinato dall'agenzia di giornalismo indipendente Livre.jor, hanno anche mappato 126 conflitti socio-ambientali legati alle miniere presenti a Rondônia.18 Inoltre, secondo EJATLAS, AngloGold Ashanti, un'altra impresa presente nella lista, è coinvolta in almeno 22 conflitti a livello mondiale.

Quante miniere si stanno aprendo nella selva o quante sono sfruttate per fornire metalli alle imprese big tech? E quali altri megaprogetti che implicano l'estrazione dei beni comuni sono legati alla produzione di tecnologia da parte delle grandi corporazioni? È chiaro che la semplice presentazione di numeri magici sul mercato del carbonio è ben lontana da qualsiasi approccio tangibile verso la giustizia socio-ambientale, per non parlare di qualsiasi approccio decoloniale alle tecnologie.



Dall'estrattivismo al colonialismo dei dati: la AI (non) salverà il mondo

Oltre a trasformare le richieste di giustizia socio-ambientale in obiettivi del mercato del carbonio, le big tech si sono affrettare ad entrare nel dibattito, non solo promuovendo una nuova “economia verde” ma anche affrettandosi a suggerire la possibilità di un “nuovo mondo” o “nuova Terra”. Naturalmente, uno pieno di tecnologia. Nelle sue narrazioni, l'intelligenza artificiale (AI), i sensori, i satelliti, le applicazioni, le reti sociali e i molti dati possono sempre salvare, sia noi che il nostro pianeta, dal cambiamento climatico. Dimostrano una capacità impressionante nel passare dall'essere la causa del problema ad essere i salvatori del futuro: un futuro più monitorato e controllato.

Ma come disse una volta l'accademica e attivista Audre Lorde, una femminista lesbica nera dichiaratasi pubblicamente: “Cosa significa che si utilizzano gli strumenti di un patriarcato razzista per esaminare i frutti di quello stesso patriarcato? Significa che solo i perimetri più stretti del cambiamento sono possibili e ammissibili”. Prendiamo in prestito questo pensiero dal saggio “Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone” per riutilizzarlo in questo scenario: cosa significa che gli strumenti delle corporazioni monopolistiche che estraggono dati vengono utilizzate per risolvere problemi che esse stesse hanno causato?

Quando si naviga nella montatura pubblicitaria dell'AI, non è raro vedere le big tech presentarsi come fornitrici di strumenti per salvare il pianeta. Google dice che sta entrando nella “lotta contro la deforestazione illegale con TensorFlow”19 (una sua piattaforma open source per l'apprendimento automatico). L'idea è quella di distribuire sensori dell'Internet delle Cose (IoT) nella foresta amazzonica per alimentare i dati sonori geolocalizzati in un programma AI che può riconoscere, per esempio, il suono delle motoseghe. Da un lato l'azienda estrae i minerali che causano la deforestazione, minacciano le terre e i mezzi di sussistenza degli indigeni; dall'altro, offre l'AI per connettersi a quello che alcuni hanno maldestramente chiamato “Internet degli alberi”. Cosa può andare storto?

Google a parte, praticamente tutte le grandi imprese tecnologiche hanno un'iniziativa AI centrata sulle questioni ambientali. Microsoft ha la sua “AI per la terra” che alimenta i suoi servizi di cloud computing con la piattaforma Azure; anche IBM sta dando priorità a “soluzioni per proteggere l'ambiente” tramite data center; Amazon sta finanziando startup con il suo Climate Pledge Fund. E la lista continua.

Non è un caso che, mentre “l'ambiente” è diventato uno dei quattro assi tematici dell'IGF 2020, la sessione principale di tale asse ha anche posizionato le tecnologie digitali come “catalizzatori per lo sviluppo sostenibile”, sottolineando il loro “ruolo critico nella protezione del pianeta”. Un'altra sessione chiamata “Tecnologia per il pianeta” si basa sulla comprensione che “per fare progressi su alcune di queste grandi questioni ambientali, abbiamo bisogno di dati, molti e molti dati”, come ha detto il direttore generale di una società britannica che utilizza Azure di Microsoft.

Non è che non ci piacciano i dati e la scienza dei dati, ma è preoccupante vedere, ancora una volta, la promessa secondo cui i “big data” avranno il ruolo di salvare il pianeta. Ancora una volta si tratta di aziende monopolistiche che hanno già estratto molte risorse dai nostri territori e dati sulle nostre menti e i nostri corpi, aziende che si presentano in grado di riempire il vuoto lasciato dai governi nel monitorare e agire contro la deforestazione e di altri fattori che contribuiscono al cambiamento climatico, mentre usano le loro ultime tecnologie all'avanguardia per estrarre e possedere sempre più dati geopolitici.

I ricavi e il valore di mercato di Amazon, Alphabet, Apple e Microsoft sono ormai comparabili a quelli delle più grandi compagnie petrolifere. Questi giganti non ci hanno pensato due volte a dare un morso ai profitti delle industrie dei combustibili fossili, impegnandosi con loro utilizzando la narrazione della sostenibilità ambientale, presentando le loro tecnologie, di nuovo, come salvatrici del futuro. Dal big data, al big oil. Un rapporto di Greenpeace20 mostra che almeno Google, Microsoft e Amazon hanno servito industrie di combustibili fossili come Shell, BP, Chevron, ExxonMobil con il cloud computing e l'AI che le aiuterebbe a scoprire, estrarre, raffinare, distribuire e commercializzare petrolio e gas. Nel 2018 Google è arrivata al punto di assumere Darryl Willis, ex presidente e direttore generale di BP Angola, come vicepresidente del suo nuovo dipartimento: Petrolio, Gas e Energia per Google Cloud. Ma l'ipocrisia di rispettare quei contratti era troppo palese, persino per loro: dopo il rapporto, alcuni hanno dichiarato che avrebbero smesso di produrre strumenti di AI per il petrolio e il gas. (Willis ora lavora alla Microsoft, come vicepresidente globale per l'energia). Ma nulla è stato detto, per esempio, su queste aziende che sviluppano l'AI per gli agribusiness che disboscano l'Amazzonia per piantare soia da distribuire a livello globale.

E' preoccupante l'attuale paradigma di utilizzare i dati come strumento per concentrare potere e guadagni. Come ha detto una volta Silvia Federici in una conversazione radiofonica online con Silvia Cusianqui21 “Gli strumenti digitale alimentano i mercati estrattivi ed espropriano i beni comuni della terra”. I dati, nella narrazione dell'economia verde, stanno aprendo lo spazio a un maggiore estrattivismo dei dati e di un business basato dai dati. È ancora gattopardesco. Cambiare in modo che nulla cambi.

La ricercatrice ecuadoriana Paola Ricaurte ha sottolineato come questi approcci estrattivi di dati sui problemi umani siano una forma di neocolonialismo: “Le economie centrate sui dati favoriscono modelli estrattivi di sfruttamento delle risorse, violazioni dei diritti umani, esclusione culturale ed ecocidio. L'estrattivismo dei dati presuppone che tutto sia una fonte di dati. Da questo punto di vista, la vita stessa non è altro che un flusso continuo di dati”.22

Per decenni le narrazioni ricorrenti delle grandi compagnie tecnologiche sono state quelle di presentarsi come “i campioni della libertà in internet” per “salvare le democrazie”. Il risultato: ora viviamo in un'era di capitalismo della sorveglianza, che alimenta la disinformazione, l'odio, la polarizzazione, la manipolazione e - in definitiva - un sacco di profitti. Ora, stanno per salvare l'intero pianeta... con i dati.

Ma, come dice saggiamente Shoshana Zuboff, il nostro obiettivo analitico non sarà “una critica esaustiva di queste imprese in quanto tali”. Ciò che vuole dire è che le imprese fanno parte di un panorama più ampio che bisogna comprendere. In tal senso Zuboff aggiunge:

Invece, [dovremmo] considerarle come le piastre di Petri in cui si esamina meglio il DNA del capitalismo della sorveglianza. Proprio come la civiltà industriale ha prosperato a spese della natura e ora minaccia di costarci la Terra, una civiltà dell'informazione plasmata dal capitalismo della sorveglianza e dal suo nuovo potere strumentale prospererà a spese della natura umana e minaccia di costarci la nostra umanità.23

Pur essendo d'accordo con Zuboff, non concepiamo questa divisione tra natura e umanità. Questi due elementi sono stati sempre inseparabili. L'estrazione dei beni comuni si è spesso prodotta in parallelo al controllo e alla “estrazione” dei nostri corpi. Il capitalismo della sorveglianza esaspera questo potenziale di estrarre dati sui nostri corpi e sui nostri territori.
 

Conclusioni

Soprattutto nel contesto della nuova pandemia di coronavirus, la tecnologia sta invadendo sempre più aspetti della nostra vita, il che significa più consumo di energia, che richiede più larghezza di banda, centri dati, dispositivi e minerali. La narrazione superficiale della “nuvola” è astratta, ma la realtà è abbastanza concreta. Si tratta della rapida invasione dei territori da cui le persone dipendono per il loro sostentamento, il tentativo di manipolare le nostre menti e i nostri corpi mentre ci chiamano utenti e ci vogliono assuefare alle piattaforme di estrazione dei dati. Estrazione di beni comuni, di immaginari, di preferenze - tutto per generare più profitto. Amazon, Google, Facebook hanno riportato un aumento delle entrate fino al 2020, mentre l'economia globale entrava in crisi a causa della pandemia.

Invece di attaccare i problemi causati dal sistema in cui viviamo, si moltiplicano false soluzioni, guidate dalla stessa logica estrattivista responsabile della maggior parte dei problemi.

Mentre i movimenti sociali e le iniziative in varie parti del mondo lottano per costruire reti che colleghino le persone a partire dai contesti locali, rendendo visibili le differenze che i nostri corpi affrontano a seconda di chi siamo, le soluzioni dall'alto guadagnano un enorme spazio di dibattito e proiezione. Il rafforzamento dei monopoli e la concentrazione del potere è stata la tendenza. Di conseguenza, le disuguaglianze si stanno aggravando in tutto il mondo.

Attraverso approcci femministi, abbiamo cercato alcune delle radici del problema e tentato di aiutare a riorientare il percorso della critica. Invece di fare calcoli sugli alberi piantati come un modo per compensare gli impatti ambientali, vogliamo un altro percorso. Vogliamo arrivare fin dove si connettono le catene di produzione, identificare i territori, le relazioni, i beni comuni e gli immaginari che influenzano. Che dinamiche ci sono dietro la produzione e l'uso della tecnologia? Quali disuguaglianze si rafforzano? Alcune di queste tematiche sono già state presentate in questa ricerca, ma c'è ancora molta strada da fare.

 

* - Camila Nobrega è una giornalista e sviluppa il progetto Beyond the Green. E' candidata al dottorato in Scienze Politica presso l'Università Libera di Berlino – Divisione di Genere e membro del collettivo Intervozes Brasile. @camila__nobrega; medium.com/nobregacamila; https://intervozes.org.br
 - Joana Varon è ricercatrice in tecnologia e diritti umani presso il Carr Center della Harvard Kennedy School e fondatrice/direttrice di Coding Rights. @joana_varon; medium.com/codingrights

** Traduzione di Marina Zenobio per Ecor.Network


Articolo tratto dalla rivista America Latina en Movimiento, n. 554, novembre 2021, pp. 2/6.
Il numero è intitolato "Tecnologia e Medio Ambiente. Respuestas desde el Sur".



NOTE:

1 Moore, R. (2019, 10 dicembre). Come potenziare intuizioni e azioni sul clima. Google. https://blog.google/products/earth/powering-climate-insights-and-action

2 UN Environment. (2018, 16 julio). UN Environment e Google annunciano una partnership innovativa per proteggere il nostro pianeta. https://www.unenvironment.org/news-and-stories/press-release/un-environment-and-google-announce-ground-breaking-partnership

3 I movimenti femministi e delle donne in America Latina – soprattutto le donne indigene e quelle che si definiscono femministe comunitarie – hanno sviluppato una comprensione dei territori non come sinonimo di terra ma come una nozione più complessa che sfida la concezione accademica occidentale. “La relazione che abbiamo con il territorio non è una relazione con la terra come materia, è una relazione ancestrale del territorio come corpo e spirito”, dice Célia Nunes Correa – Célia Xakriabà nel suo nome indigeno – nella sua tesi magistrale del 2015 intitolata “Il fango, il genipapo e il gesso nel lavoro epistemologico dell'autorità Xakriabá: Riattivazione della memoria attraverso un'educazione territorializzata”.

4 Rivera Cusicanqui, S. (2012). Ch’ixinakax utxiwa: Una riflessione sulle pratiche e i discorsi della decolonizzazione. Trimestrale del Sud Atlantico, 111(1), 95-109.

5 https://en.wiktionary.org/wiki/gatopardismo

6 https://en.wiktionary.org/wiki/gatopardismo

7 https://www.websitecarbon.com

8 InfluenceMap. (2020). Cambiamento climatico e pubblicità digitale: Disinformazione sulla scienza del clima nella pubblicità su Facebook. https://influencemap.org/report/Climate-Change-and-Digital-Advertising-86222daed29c6f49ab2da76b0df15f76

9 Gruppo Carta di Belem. (2020). Territori: Resistenze, diritti e buon vivere. https://www.cartadebelem.org.br/wp-content/uploads/2020/12/AT_02-Livro-15x21cm-Vers%C3%A3o-06-WEB.pdf

10 Alphabet Inc. (2019). Rapporto annuale sui minerali di conflitto, conclusosi il 31 dicembre 2019. https://abc.xyz/investor/static/pdf/alphabet-2019-conflict-minerals-report.pdf

11 OECD. (2016). Linee guida dell'OCSE sulla dovuta diligenza per catene di approvvigionamento responsabili di minerali provenienti da aree di conflitto e ad alto rischio. Terza edizione. Editoria OCSE. https://dx.doi.org/10.1787/9789264252479-en (2a edizione in spagnolo)

12 https://ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/conflict-minerals-regulation/regulation-explained

13 Comissão Pastoral da Terra. (2020). Atlante dei conflitti socio-territoriali panamazzonici. https://www.cptnacional.org.br/component/jdownloads/summary/76-publicacoes-amazonia/14207-pt-atlas-de-conflitos-socioterritoriais-pan-amazonico

14 Fonte: https://abc.xyz/investor/static/pdf/alphabet-2019-conflict-minerals-report.pdf

15 https://ejatlas.org/conflict/pitinga-mine-amazonas-brazil

16 Albuquerque, R. (2016, 6 giugno). Miniera di Pitinga, 35 anni di polemiche e niente da festeggiare. Amazzonia reale. https://amazoniareal.com.br/mina-do-pitinga-35-anos-de-controversias-e-nada-a-comemora

17 Rolla, A., & Ricardo, F. (2013). Miniere nelle terre indigene dell'Amazzonia brasiliana. Istituto Sociale e Ambientale (ISA). https://www.socioambiental.org/sites/blog.socioambiental.org/files/publicacoes/mineracao2013_v6.pdf

18 Lázaro, J. (2019, 4 Aprile). Nuova vittima delle dighe, Rondônia ha 126 conflitti sociali e ambientali legati all'estrazione mineraria. Livre.jor. https://livre.jor.br/nova-vitima-das-barragens-rondonia-tem-126-conflitos-socioambientais-ligados-a-mineracao

19 White, T. (2018, 21 marzo). La lotta alla deforestazione illegale con TensorFlow. Google. https://blog.google/technology/ai/fight-against-illegal-deforestation-tensorflow

20 Donaghy, T., Henderson, C., & Jardim, E. (2020). Oil in the Cloud. Greenpeace. https://www.greenpeace.org/usa/reports/oil-in-the-cloud

21 https://reboot.fm/2020/06/04/silvia-rivera-cusicanqui-silvia-federici-in-discussion

22 Ricaurte, P. (2019). Epistemologie dei dati, colonialità del potere e resistenza. Television & New Media, 20(4), 350-365. https://doi.org/10.1177/1527476419831640

23 Zuboff, S. (2019). L'era del capitalismo della sorveglianza: la lotta per un futuro umano alla nuova frontiera del potere. Public Affairs

 

13 dicembre 2021 (pubblicato qui il 16 dicembre 2021)