Il labirinto delle false soluzioni
Il progresso delle conoscenze cosmiche
ha richiesto il prezzo di tutta la violenza e gli orrori
che i conquistatori, che si consideravano civili,
hanno diffuso nel continente.
Alexander von Humboldt
L'espansione delle verdi e anche false soluzioni
Alle gravi crisi economiche, sociali e politiche degli ultimi tempi, quando già esistono prove indiscutibili – anche a livello scientifico – dei problemi ambientali causati dal paradigma del progresso tipico della modernità, si è risposto e si risponde con politiche che insistono instancabilmente sulla crescita economica. Non si tratta di ancor più dello stesso, semmai di ancor più del peggio. Quando la disoccupazione, la fame e la disperazione si diffondono, il ricettario tradizionale per raggiungere la crescita rimane immutato, il che aggrava ulteriormente le condizioni esistenti.
Lungi dall’essere un momento per riflettere e promuovere una grande trasformazione, come alternativa per combattere la recessione, i progetti economici che mercificano la natura sono sempre più in espansione. Dai paesi centrali, con accoglienza entusiastica nei paesi periferici, viene promossa la cosiddetta “economia verde”. Il mercato del carbonio si estende ad altri elementi della natura – ad esempio aria o acqua – e anche a processi e funzioni della natura, come i “servizi ambientali”.
Il capitalismo, dimostrando la sua sorprendente ingegnosità nel cercare e trovare nuovi spazi di sfruttamento, colonizza il clima. Questo esercizio di commercializzazione estrema, da cui non si sono distinti neanche i governi progressisti dell’America Latina, trasforma la capacità della Madre Terra in un business per riciclare o fissare il carbonio. E l’atmosfera si trasforma in una nuova merce progettata, regolata e gestita dagli stessi attori che hanno causato la crisi climatica e che oggi ricevono sussidi dai governi attraverso un complesso sistema finanziario e politico. Questo processo di mercificazione del clima è iniziato un paio di decenni fa, soprattutto nell’era neoliberista, promosso dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale, dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) e da altri strumenti complementari, come i trattati di libero commercio (TLC).
In breve, la logica della “economia verde” sta emergendo come continuazione della mercificazione della natura, cioè della sua colonizzazione e dominazione. Sembra addirittura un passo indietro rispetto allo “sviluppo sostenibile”. Con i suoi strumenti non solo non si evita la distruzione ambientale, ma si limitano le azioni volte a promuoverne la riparazione e, soprattutto, il ripristino dei cicli vitali della natura. Nello specifico, rinvia addirittura la soluzione dei problemi. Insomma, garantisce al capitale nuovi meccanismi di accumulazione, mentre aumenta il degrado ambientale. Di fatto, si creano addirittura condizioni perverse per l’accumulazione attraverso la conservazione: seguendo l’ispirazione di questa “economia verde”, i paesi che hanno tratto vantaggio dalla distruzione, ora intendono continuare a trarne profitto con l’alibi di conservare, riparare, mitigare, prevenire, e ora anche realizzare la transizione energetica imprenditoriale (la transizione promossa dal Nord).
La natura sui mercati del capitalismo globale
Il mercato del carbonio, costruito come spazio per elaborare una soluzione ai conflitti causati dai cambiamenti climatici, ha in realtà trasformato il disastro climatico in un business. Per ora le imprese inquinanti e gli intermediari stanno realizzando profitti milionari, senza che si siano fatti progressi sostanziali in questa materia. Finora non è noto, ad esempio, quanta CO2 verrà ridotta. Inoltre, ci sono possibilità di effetti collaterali perversi. Ad esempio, la piantumazione di monocolture forestali, di specie esotiche come pini ed eucalipti, sta provocando una vera tragedia ambientale e tuttavia ottengono crediti di carbonio.
Il mercato volontario del carbonio è ancora più pericoloso di quello del Protocollo di Kyoto, in un certo senso regolamentato perché fissa una quota per un paese e questo a sua volta per le sue imprese. Invece, questi mercati del carbonio sono spazi in cui aziende e individui possono acquistare o vendere certificati che rappresentano emissioni o riduzioni di gas serra: in altre parole, spazi per lucrare. Crescono senza regolazioni, il che diminuisce il potenziale politico di avere limiti vincolanti sulle parti e annulla lo sviluppo di politiche e norme ambientali.
Il problema del degrado ambientale in un’economia di mercato è che nei suoi calcoli non tiene pienamente conto degli effetti esterni e non si avvicina nemmeno lontanamente alla diversità e alle interrelazioni esistenti. Peggio ancora, non affrontando concretamente i problemi alla radice, si tende ad aggravare le difficoltà esistenti e quindi a minare gli interessi delle generazioni future e i diritti delle altre specie. E oltretutto, la metrica del carbonio pretende di farci credere, in linea con la visione predominante, che combattere il cambiamento climatico equivale a ridurre il più possibile le emissioni di CO2.
In sintesi, introdurre nel mercato i servizi ambientali significa trasferire alle loro logiche di funzionamento asimmetriche e incomplete la responsabilità di definire gli aspetti distributivi associati ai loro usi. Ciò genera un processo di concentrazione nell’accesso a queste risorse e una conseguente perdita di sovranità per le popolazioni di questi ecosistemi.
E in questo contesto la tradizionale analisi costi-benefici non è applicabile, poiché tende a valutare zero ciò che non conosce. Abbiamo a portata di mano le sempre più conosciute analisi multicriterio che ci permettono di prendere decisioni più accurate analizzando diverse variabili che non sono omogenee, ma che anche così risultano insufficienti per comprendere l’enorme diversità della vita.
La trappola delle economie colorate
Nella sua forma più elementare, una “economia verde” sarebbe quella che ha basse emissioni di carbonio, utilizza le risorse in modo efficiente ed è socialmente inclusiva. In una “economia verde”, l’aumento del reddito e la creazione di posti di lavoro devono derivare anche (o preferibilmente) da investimenti pubblici e privati volti a ridurre le emissioni di carbonio e l’inquinamento, volti a promuovere l’efficienza nell’uso dell’energia e delle risorse.
Allo stesso modo, la “economia verde” ritiene che le funzioni dell’ecosistema possano essere trattate come merci, e quindi che questi “servizi” debbano essere pagati. Da questa lettura deriva che i beni comuni possono essere valorizzati per la loro dimensione economica. Il ragionamento alla base di questa proposta è che la protezione degli ecosistemi e la biodiversità funzionano meglio se il loro utilizzo costa denaro, cioè se i servizi ambientali fanno parte del sistema dei prezzi. Va notato che i pagamenti generati verrebbero ricevuti dai loro proprietari. Così si garantisce uno dei capisaldi del capitalismo, la proprietà privata.
Da un altro versante, un motore di questa economia risiede nel campo della tecnologia, soprattutto nelle nuove tecnologie sperimentali, gestite e brevettate da nuove reti transnazionali/transettoriali (alimentare, petrolifero, difesa, ecc.), nei campi della biologia sintetica, la nanotecnologia, la genomica e la geoingegneria. Queste tecnologie potrebbero aumentare il saccheggio delle risorse naturali del Sud. Il blockchain, tecnologia basata s'una catena di blocchi di operazioni cibernetiche decentralizzata, genera un database condiviso dai suoi partecipanti, che possono tracciare ogni transazione che abbiano effettuato. È come un grande registro condiviso, che coinvolge un gran numero di computer contemporaneamente. Il rischio reale è che questa tecnologia miri ad espandere in modo esponenziale la mercificazione della natura, cercando di valorizzare e collegare i vari elementi degli ecosistemi in funzione dei loro servizi ambientali con un sistema di controllo centralizzato, emarginando anche le stesse comunità umane.
Un altro punto da considerare è che la “economia verde” non abbandona il rapporto tra “sviluppo” e crescita economica, ma al contrario: cerca di renderlo praticabile. Inoltre, promuove incentivi basati sul mercato per reindirizzare gli investimenti di capitale verso investimenti “verdi”, compresi meccanismi di finanziamento innovativi come la riduzione delle emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado forestale, noti come REDD+. Questo meccanismo mira alla gestione sostenibile delle foreste e alla conservazione, oltre al miglioramento delle riserve di carbonio, il tutto come parte degli sforzi globali per mitigare il cambiamento climatico. Il rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) afferma che il Programma REDD+ delle Nazioni Unite – lanciato nel settembre 2008 dalla FAO, dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) e dall’UNEP – sostiene gli sforzi nazionali volti a ridurre la deforestazione e il degrado forestale e a migliorare le riserve di carbonio delle foreste, e può costituire, insieme ad altri meccanismi del mercato del carbonio, un importante veicolo per favorire la transizione verso una green economy.
È risaputo che l’economia si trova a un bivio estremamente complesso. I problemi che la affliggono e le sfide che deve risolvere stanno diventando sempre più grandi e difficili da affrontare. Ciò che è preoccupante è vedere come l’economia – in quanto macchina 'idiota' progettata e costruita per massimizzare l’accumulazione ad ogni costo – si sia trasformata in una sorta di grande 'totem' al quale si rende omaggio in maniera permanente e sottomessa. Vengono messe in atto azioni per proteggerlo, anche presentandole come alternative per cercare di risolvere proprio i problemi che causa. Così emergono le economie "sostenibili", "circolari" o di colori: siano esse “verdi”, “blu”, “arancioni”, “viola” o come volete chiamarle o dipingerle, ma che, senza ignorare alcune buone intenzioni, non mettono in discussione l’essenza perversa dell’economicismo e ancor meno del capitalismo. In realtà, queste varie strategie di colore aprono nuovi spazi per l’accumulazione di capitale, anche continuando la depredazione attraverso la conservazione!
Contrariamente a queste economie variopinte, ciò che in realtà è necessario sono politiche volte a prevenire la perdita della diversità biologica e dei servizi degli ecosistemi, e cioè impedire che i vari elementi della natura si trasformino sempre più in potenziali oggetti di mercificazione che rendano praticabile l’accumulazione di capitale. Dato che i mercati hanno operato sulla base di carenze informative, dovute all’incapacità di incorporare il costo delle esternalità e di politiche pubbliche inadeguate come i perversi sussidi per l’ambiente, incorporare questi sussidi ed esternalità è un buon primo passo. Poi dovremo attraversare intensi processi di demercificazione della natura, a cominciare dalle sue parti, un esempio per tutte, l'acqua.
La sfida di superare una menzogna sistemica
Nonostante i progressi ancora limitati che potrebbero rendere possibile una grande trasformazione, si può vedere che sempre più gruppi nella società sono consapevoli dei limiti biofisici esistenti. I suoi argomenti prioritari sono un invito a non cadere nella trappola di un concetto di “sviluppo sostenibile”, “economia verde” o “capitalismo verde”. Trappola creata per non incidere sul processo di rivalorizzazione del capitale.
Cominciamo accettando che il mercantilismo ambientale, esacerbato da diversi decenni, non ha contribuito a migliorare la situazione: si è trattato solo di una sorta di maquillage trascurabile, a mò di diversivo.
Conviene anche smascherare l’estrattivismo “responsabile” o “sostenibile” – si pensi alla grande propaganda della “attività mineraria responsabile” o addirittura “sostenibile” – che non modifica affatto l’essenza del problema. Inoltre, la “economia verde”, presentandosi come tale – cioè sostenibile – limita la ricerca di soluzioni reali e concrete. Perciò stesso, dobbiamo essere sempre più attenti ai rischi che comporta un’eccessiva fiducia nella scienza e nella tecnologia.
In conclusione, è urgente individuare ciò che è importante e ciò che è necessario, tenendo a portata di mano la mappa del percorso che non dobbiamo compiere: “Bisogna conoscere le vie dell'inferno, per evitarle!”, raccomandava Niccolò Machiavelli, in una sua classica opera pubblicata più di cinquecento anni fa.
Un tribunale etico per difendere la Madre Terra
Questo Tribunale, come un seme, offre un potenziale per cambiare i nostri percorsi.
Come un processo continuo per riflettere, ridefinire, cambiare i paradigmi.
Perché il percorso attuale è, prevedibilmente, il percorso verso l’estinzione.
Il Tribunale ci permette di riflettere su altre possibilità di sopravvivenza umana su questo pianeta.
Vandana Shiva, prima sessione del Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura, 2014
“Nessuno scenda dai veicoli, siete in arresto”. Quel grido del tutto inaspettato sorprese i membri di una commissione del Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura, di cui facevano parte gli autori di questo libro. Erano le dieci del mattino di domenica 19 agosto 2018. Quel giorno i membri della commissione, insieme ad altre venti persone di una delegazione ad hoc, furono intercettati nell'Amazzonia boliviana vicino al ponte Isinuta, sulla strada per Cochabamba a Santísima Trinidad, all'ingresso del cosiddetto Polígono 7, una regione di Tipnis: Territorio Indigeno Parco Nazionale Isiboro Sécure.
Un gruppo di persone legate ai cocaleros arrestò (eufemismo di “sequestrò”) la commissione. La strada fu bloccata in entrambe le direzioni. E dopo poco arrivarono le urla e le minacce. "Niente foto, chiamate, video o messaggi", urlavano i capibanda. Erano momenti di inquietudine e angoscia. Il caldo era opprimente. Nessuno poteva scendere dai veicoli. La tensione cresceva. Il blocco fu rinforzato sul ponte con rami e pezzi di ferro per ostruire completamente il passaggio. Dietro, una fila di minibus formava una barriera per impedire ogni possibilità di fuga. Non potevamo andare né avanti né indietro. Nel frattempo, coloro che bloccavano si moltiplicavano in maniera intimidatoria con il passare delle ore. I coordinatori della commissione cercavano di spiegare loro che erano stati invitati dai loro dirigenti e che la loro intenzione era quella di raggiungere la comunità Santísima Trinidad per ascoltare in situ i membri della comunità.
Fortunatamente fu possibile inviare un paio di messaggi tramite cellulare. I primi a reagire furono i referenti come Maristella Svampa e Fernando “Pino” Solanas, che immediatamente comunicarono quanto stava accadendo sui social network e lanciarono appelli disperati ai rappresentanti dei diritti umani del continente. Da diversi luoghi vennero presi contatti con membri del governo boliviano. Vennero chieste garanzie per la commissione, le stesse che erano state offerte dal ministro degli Interni prima dell'arrivo sull'altopiano. Dopo sei lunghe ore, soprattutto grazie alle pressioni internazionali e al trambusto sui social network, si riuscì ad aprire la porta per il dialogo. I responsabili del coordinamento dimostrarono con la documentazione di essere stati formalmente invitati dai dirigenti dei cocaleros del Polígono 7. Ciò disattivò il blocco tra i rimbrotti degli autori del blocco.
L' “arrresto” era finito. Sebbene non ci fossero stati abusi fisici – al di là delle minacce, alcuni insulti e privazioni della libertà – era evidente che intercedere per i diritti della Pacha Mama era pericoloso, anche in un Paese che si vanta di rispettarli.
Facciamo notare che questa Commissione si era recata in Bolivia su richiesta dei rappresentanti delle comunità che formavano la cosiddetta Subcentrale Tipnis, che avevano presentato il caso alla quarta sessione del Tribunale Internazionale sui Diritti della Natura tenutasi a Bonn, in Germania, nel Novembre 2017. In quella occasione denunciarono la costruzione di una strada che avrebbe diviso in due il Parco (con il conseguente danno ambientale, ma anche sociale, dovuto all'apertura a possibili maggiori colonizzazioni, soprattutto interessati a coltivazioni di coca). Adempiendo alla missione assegnata, il percorso portò i membri della Commissione nel cuore dell'Amazzonia boliviana, a Trinidacito, prima dell'incidente di Isinuta.
Dopo la visita sul campo, le conversazioni con diversi gruppi della società e anche con le autorità ministeriali del governo dell’allora presidente Evo Morales, le interviste con i residenti e i leader locali, i lunghi incontri con esperti esperti del problema e lo studio di un gran numero di documenti, la La Commissione si pronunciò in seno al Tribunale. Sulla base delle ampie informazioni raccolte durante la sua visita, la Commissione esortò il Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura a sanzionare il governo dello Stato Plurinazionale della Bolivia per le sue ripetute violazioni dei diritti stabiliti nella Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra, emessa a Tiquipaya, Cochabamba, Bolivia, nel 2010, e ad altri organismi giuridici che la riconoscono come soggetto di diritti, come la vigente Costituzione dell'Ecuador.
Il rapporto di 44 pagine della Commissione segnalava che la costruzione dell'autostrada era e avrebbe continuato a ledere i seguenti diritti della Madre Terra: il diritto alla vita e all'esistenza; diritto ad essere rispettata; diritto all'acqua come fonte di vita; diritto alla rigenerazione della sua biocapacità e alla continuazione dei suoi cicli e processi vitali liberi da alterazioni umane, nonché il diritto a mantenere la loro identità e integrità come esseri differenziati, autoregolati e interrelazionati. La Commissione aveva anche riscontrato che erano stati violati i diritti delle popolazioni indigene e i diritti dei difensori della natura.
Un tribunale contro il silenzio
L’idea di un tribunale internazionale per promuovere il rispetto e la garanzia dei diritti della Madre Terra nacque proprio dal governo boliviano. Basta rivedere la dichiarazione approvata dalla Conferenza mondiale dei popoli sul cambiamento climatico e i diritti della Madre Terra, riunitasi a Cochabamba dal 19 al 22 aprile 2010. A quella conferenza erano rappresentati 142 paesi con diverse delegazioni, gruppi e movimenti sociali. Questa dichiarazione è forse il primo strumento internazionale che considera espressamente la natura come soggetto di diritti, superando il paradigma antropocentrico della “protezione”. In quell’occasione lo stesso presidente Morales sollevò la necessità di istituire un tribunale internazionale che sanzionasse i crimini contro la Madre Terra, in sintonia con la necessità di esigere giustizia climatica e anche con il riconoscimento del debito ecologico a livello mondiale, sollevato anni prima da diversi ambiti internazionali, da movimenti sociali, indigeni, ecologisti e delle donne.
Il messaggio di Cochabamba, che ha trovato nella Costituzione di Montecristi (Ecuador) un punto vitale per la sua cristallizzazione, ha dato i suoi frutti. Un gruppo di persone provenienti da tutti i continenti, tra cui gli autori di questo libro, decisero di istituire, venerdì 17 gennaio 2014, il Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura. La sua sessione inaugurale si è tenuta a Quito, in Ecuador.
Questa Corte ha un carattere etico. Non fa parte di alcun organismo internazionale (come le Nazioni Unite) né dipende da alcun accordo tra Stati. Questo, che sembra un grave limite, è invece il suo più grande punto di forza. Come dichiarò Bertrand Russell a Londra, domenica 13 novembre 1966, in occasione del primo incontro preparatorio per istituire un tribunale internazionale per sanzionare i crimini di guerra degli USA in Indocina (tribunale che poi porterà il suo nome), le decisioni di questi tribunali etici e anche i loro membri, sono libere perché non vincolate ad impegni con alcun potere, né politico, né economico.
Jean-Paul Sartre si espresse nella stessa direzione, a Stoccolma, domenica 7 maggio 1967, quando inaugurò come presidente il primo Tribunale Russell, noto anche come Tribunale Internazionale sui Crimini di Guerra. In quella occasione ricordò il Tribunale Internazionale di Norimberga, che giudicò i crimini contro l'umanità durante il regime nazista. Senza metterne in discussione l'importanza, ne ha sottolineato anche i limiti poiché agiva in funzione delle potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale e non era stato uno spazio internazionale indipendente.
Pertanto, il potere di questo tipo di tribunale risiede, da un lato, nella sua indipendenza e, dall'altro, nella qualità dei suoi giudici. Nel caso del Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura, si tratta, secondo le parole di Russell, di persone “eminenti, non per il loro potere, ma in virtù del loro contributo intellettuale e morale a ciò che è stato concordato di chiamare, in maniera ottimista, la civilizzazione umana”. E se aggiorniamo le ultime righe del discorso inaugurale di Sartre, possiamo concludere che i giudici del Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura sono – in senso figurato – ovunque: sono i popoli e la natura stessa.
In questa prospettiva, questo Tribunale chiede la creazione di strumenti vincolanti per punire le violazioni contro la natura, cosa che richiede una Dichiarazione Universale dei Diritti della Natura, che si muova verso una Dichiarazione Universale dei Diritti Esistenziali, che includa i diritti umani e i diritti della natura. Un obiettivo che sarà raggiunto soprattutto con un processo dal basso, unendo alleanze tra paesi che incorporino nelle loro legislazioni i diritti della Madre Terra.
Valori promossi dal Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura
- Che gli interessi degli esseri non umani hanno la stessa importanza degli interessi umani.
- Che gli esseri umani, come società, hanno bisogno di un cambiamento di paradigma fondamentale nel nostro modo di relazionarci con la natura.
- Che la nostra sopravvivenza come specie dipende dalla nostra capacità di cambiamento in questo momento fondamentale della storia.
- Che le idee che promuoviamo sono uno strumento in grado di migliorare le prospettive dell’umanità.
- Che il processo fornisca una piattaforma per l’analisi legale informata di diversi casi basati sui diritti della natura e sulla giurisprudenza della Terra.
Questo Tribunale, quindi, è composto da giudici di riconosciuta autorità etica e impegno, nominati da difensori della Madre Terra provenienti da diverse parti del mondo, in particolare dalle comunità che sono in prima linea nella lotta per difendere i loro territori. È un organismo della società civile, legato all’Alleanza Globale per i Diritti della Natura (GARN), con rappresentanti di tutti i continenti. Con la partecipazione di filosofi e scienziati, leader e attivisti indigeni, avvocati ed economisti, vogliamo creare una efficace giurisprudenza che integri la natura come soggetto di diritti e inserisca negli ambiti più diversi delle società umane l’urgenza di riconnettersi con la Madre Terra.
L’iniziativa, in sintesi, è nata dall’azione coordinata di un ampio insieme di movimenti sociali e organizzazioni provenienti da diversi angoli del pianeta, tutti mobilitati dalla volontà di far eco alle grida della Terra di fronte alle aggressioni che Madre Natura sta subendo in nome del “progresso”. Questo Tribunale, pioniero nella ricerca della costruzione di percorsi di giustizia globale che affronti i crimini contro la Vita, è stata istituita come piattaforma permanente per ascoltare e giudicare i casi di violazione dei diritti della Madre Terra in tutto il mondo.
Come ha sottolineato Russell, il compito massimo di questi tribunali è quello di “prevenire il crimine del silenzio” di fronte ai gravi affronti all’umanità e alla natura causati dalla voracità del capitale e del potere.
Il giusto processo nel Tribunale
La Corte esaminerà le minacce o le violazioni ai diritti della natura che provengono dal grande diritto, il diritto della Terra e i diritti riconosciuti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra e da altri strumenti nazionali e internazionali che hanno come obiettivo riconoscere e tutelare i diritti della natura.
Il Tribunale rispetterà i principi del giusto processo. D'ufficio o su istanza di parte, il Tribunale potrà prendere conoscenza di minacce o presunte violazioni dei diritti della natura. Nel trattare la causa, il Tribunale, se vi sono fondamenti, dichiarerà ammesso il caso e ne darà comunicazione alle parti coinvolte affinché possano presentare prove. Il Tribunale può indagare per ottenere informazioni sufficienti per poter arrivare a risoluzione. A tal fine, il Tribunale può accogliere versioni, ricevere prove tecniche, effettuare visite 'in situ', ricevere documentazione in qualsiasi formato, richiedere informazioni alle autorità competenti degli Stati o delle imprese, convocare udienze speciali e utilizzare tutti gli altri mezzi a sua disposizione.
Il Tribunale può tenere udienze pubbliche di prove o di risoluzioni, nelle quali ascolterà tutte le parti interessate e porrà tutte le domande che ritiene necessarie. Allo stesso modo, il Tribunale trasmetterà agli imputati le denunce, le prove e i capi d'accusa contro di loro affinché, entro un termine di trenta giorni, possano esercitare il loro diritto di replica e difesa. Quando ritiene che sussista una minaccia o una violazione dei diritti della natura, il Tribunale emetterà una sentenza nella quale dichiarerà la violazione dei diritti, stabilirà le responsabilità e suggerirà misure per il ripristino/ricomposizione integrale della natura e la riparazione delle comunità colpite. Le sentenze saranno pubblicate e diffuse a livello internazionale.
Il Tribunale disporrà misure precauzionali contro qualsiasi atto od omissione di autorità pubbliche o di privati che in forma immediata o imminente lesionino, limitino, alterino o minaccino i diritti umani e l’integrità fisica dei difensori della natura in qualsiasi Paese. Il Tribunale può tenere udienze d'appello. Una volta eseguita la sentenza, il Tribunale archivierà il caso.
Di nuovo dall'Ecuador al mondo
Vandana Shiva – nota fisica, ecofemminista e attivista ambientale indiana, autrice di innumerevoli pubblicazioni – ha presieduto il primo Tribunale in Ecuador, insieme ad altri nove giudici provenienti da sette paesi e cinque continenti, compresi gli autori di questo libro. Risulta assai coerente che il Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura sia nato in Ecuador, il primo paese a riconoscere questi diritti nella sua Costituzione. La Corte esaminò nove casi importanti che sollecitavano l'ammissione a causa di violazioni della Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra, adottata da 35.000 persone alla Conferenza Mondiale di Tiquipaya. Per quanto riguarda i casi dell'Ecuador, i relatori evidenziarono anche le violazioni della Costituzione del Paese: va notato che l’universalità dei diritti della natura, come accade con i diritti umani, permette di recuperare i diritti della Costituzione ecuadoriana per proiettarli su tutto il pianeta.
Il procuratore speciale della Terra in Ecuador, Ramiro Ávila Santamaría, diede inizio a questo Tribunale inaugurale chiedendo la testimonianza di due esperti indigeni sull'importanza dei diritti della natura: Casey Camp-Horinek, dell'Oklahoma, Stati Uniti, e Patricia Gualinga, rappresentante del popolo quecha Sarayaku dell'Amazzonia ecuadoriana, un popolo che non solo resiste agli attacchi delle compagnie petrolifere e dello Stato, ma che ha proposto la sua visione del mondo: 'Kawsak Sacha', Selva Vivente, come potente proposta trasformatrice oltre le proprie frontiere. Le loro argomentazioni ratificano la necessità del ricongiungimento dell'essere umano con la natura a partire dalle esperienze e dalle pratiche delle comunità indigene, che quotidianamente assumono la propria appartenenza con e nella natura.
Successivamente, Il Tribunale ha affrontato sei casi emblematici: la contaminazione della Chevron-Texaco (Ecuador); lo sversamento della British Petroleum (BP) sulla piattaforma Deep Horizon (Stati Uniti); il progetto di estrazione petrolifera a Yasuní-ITT (Ecuador); la minaccia alla Grande Barriera Corallina dovuta all'estrazione del carbone (Australia); estrazione di metalli a cielo aperto nella catena montuosa del Cóndor, giacimento di Mirador (Ecuador) e il fracking idraulico (Stati Uniti). Sono stati ammessi anche due casi su scala globale che rappresentano violazioni sistemiche dei diritti della Madre Terra: la minaccia degli organismi geneticamente modificati o transgenici e il cambiamento climatico.
Pablo Solón, direttore esecutivo di Focus on the Global South, che ha presentato magistralmente il caso del cambiamento climatico globale, ha sottolineato che esso colpisce praticamente tutti gli ambiti della vita del pianeta e che è necessario avviare un processo contro i principali responsabili. Solón ha insistito per portare in giudizio i governi dei paesi industrializzati, le grandi multinazionali e perfino le Nazioni Unite, che in quanto rappresentanti del capitalismo dovranno, prima o poi, sedersi sul banco degli imputati. Allo stesso modo è diventata nota la persecuzione contro i difensori della natura in Ecuador, un caso preoccupante anche in altre parti del pianeta.
Terminate le presentazioni, il procuratore Ramiro Ávila Santamaría ha ricordato che i sistemi viventi della Terra, compresa l'umanità, stanno attraversando molteplici crisi testimoniate dal crescente cambiamento climatico, l'estinzione di massa delle specie, la deforestazione, la desertificazione, il collasso della pesca, gli inquinanti tossici, con conseguenze tragiche che colpiscono tutte le forme di vita. Cambiamenti attribuibili, come dimostrato dal Panel del Cambiamento Climatico, all’azione degli esseri umani, soprattutto quelli organizzati all’interno della civiltà capitalista. In conclusione, Ávila Santamaría ha chiesto alla Corte di ammettere questi casi a nome degli ecosistemi colpiti, così come dei popoli che da essi dipendono.
Dopo la prima sessione di Quito, alla fine dello stesso anno, Il Tribunale si riunì a Lima, in Perù. Nel 2015 le sessioni sono state convocate a Parigi, in Francia. Successivamente, alla fine del 2017, parallelamente alla Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP 23), il Tribunale si è riunito a Bonn, in Germania. Il quinto Tribunale si è svolto nella città di Santiago, in Cile, nel dicembre 2019. Il sesto Tribunale si è tenuto nel novembre 2021 a Glasgow, parallelamente alla COP 26 organizzata dalla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC).
Oltre a questi tribunali internazionali, si sono svolte udienze regionali e locali, tra cui: due udienze a Quito per il caso Yasuní, una nella Baia di San Francisco, la prima contro la compagnia petrolifera Chevron, e un'altra a Brisbane, in Australia, sulla Grande Barriera Corallina. Il Tribunale Europeo per i Diritti degli Ecosistemi Acquatici si è riunito per analizzare e sanzionare diversi casi di violazione di questi diritti. Un tribunale speciale si è pronunciato contro il governo messicano per la costruzione del Tren Maya, che viola i diritti delle comunità e della natura. Allo stesso modo, sono state effettuate due missioni nel caso di Tipnis in Bolivia (già menzionato sopra) e di Vaca Muerta in Argentina.
La lista dei temi affrontati è ampio, sia nel Sud che nel Nord del mondo. Altrettanto lungo è l'elenco degli imputati: governi, multinazionali, organizzazioni internazionali che fanno parte dell'ambito delle Nazioni Unite, tra cui la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.
Da questa rapida rassegna delle sessioni svolte da questo Tribunale, è facile vedere come le richieste aumentano senza che il Tribunale abbia la capacità necessaria per affrontare tutte le denunce. Ciò non ne diminuisce il significato. Al contrario. Con il suo lavoro, superando ogni tipo di limitazione ed emarginazione da parte del potere, il Tribunale dimostra quanto sia urgente disporre di un'istanza internazionale per sanzionare chi commette crimini contro la natura e chi la difende.
Camminare verso la piena validità dei diritti della natura, avendo come punto di partenza l'accettazione che la natura ci dà il diritto all'esistenza, è un compito complesso. Richiede la costruzione di transizioni globali e molteplici al fine di visualizzare e cristallizzare una regolamentazione ambientale globale, incentrata sulla garanzia della qualità della vita di tutti gli esseri, umani e non umani, superando la civiltà della merce e del profitto, così come la civiltà dei rifiuti, come analizzato approfonditamente dall'economista peruviano Jürgen Schuldt. Dobbiamo agire anche per ragioni di sopravvivenza, cioè per un egoismo illuminato, accettando che se distruggiamo la natura distruggiamo le basi della nostra esistenza.
In definitiva, riconosciamo che, se la natura include l’umanità o, ancora più chiaramente, l’umanità è natura, i suoi diritti non possono essere visti separatamente dai diritti dell’essere umano, anche se non dovrebbero nemmeno essere ridotti ad essi. Al contrario, anche i diritti umani come il diritto al lavoro, all’abitazione o alla salute devono essere intesi in termini ecologici. Ciò richiede di sviluppare una riconcettualizzazione ecologica profonda e trasversale dei diritti umani, poiché alla fine la distruzione della natura nega l’esistenza umana e, quindi, tutti i diritti umani sarebbero impossibili da soddisfare.
Abbiamo bisogno di un mondo incantato attorno alla vita, che apra dialoghi e riunioni tra gli esseri umani, come individui e comunità, e di tutti con la natura, comprendendo che ne siamo parte: in breve, parlare della natura è parlare di noi stessi. Ed è ciò che propone questo Tribunale, formato dalla società civile di tutti i continenti, trasformato in una sorta di rivendicazione civilizzatrice nei confronti di tutti i poteri del pianeta, incapaci di fornire risposte strutturali alla distruzione della vita che il capitalismo favorisce.
Il Patto Ecosociale Interculturale del Sud
L’elenco delle alternative concrete nel mondo è enorme. Una di queste, di cui gli autori di questo libro sono soci fondatori, è il Patto Ecosociale e Interculturale del Sud. Questa iniziativa è nata nel 2020, nel pieno della pandemia del covid-19, guidata da un gruppo di persone e organizzazioni provenienti da diversi paesi latinoamericani. Motivato dall’urgenza di valorizzare e, se necessario, costruire dinamiche sociali capaci di rispondere e contrastare il riassetto capitalista, la massiccia povertà, l’inarrestabile concentrazione della ricchezza e la crescente distruzione degli ecosistemi che caratterizzano la crisi di civilizzazione, questo gruppo si è proposto di valorizzare tutte le alternative immaginabili per costruire futuri dignitosi.
Fin dalla sua nascita, il Patto si è posizionato attraverso la creazione di diversi capitoli nazionali (Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Messico, Perù, Venezuela). Allo stesso modo, ha lavorato congiuntamente, su temi specifici, con altri attori del Sud del mondo, nonché con alleati del Nord del mondo.
La scommessa è quella di contribuire alla costruzione di agende regionali e globali, orientate verso transizioni veramente giuste, che richiedono la partecipazione e l'immaginazione popolare, nonché l’intersezionalità tra le lotte di diversi gruppi sociali e interculturali, femministi e ambientalisti, sindacalisti e contadini. Ciò implica senza dubbio non solo l’approfondimento e il dibattito su tutte le questioni, ma anche la costruzione di dialoghi politici permanenti Nord-Sud e Sud-Sud, su altre basi geopolitiche, a partire da una nuova ridefinizione del multilateralismo.
Il Patto si ispira ai principi di uguaglianza ed equità, giustizia e redistribuzione sociale, cura e sostenibilità, interdipendenza e autonomia, corrispondenza e reciprocità, democrazia e autodeterminazione, plurinazionalità e interculturalità.
Il Patto promuove proteste e proposte, critiche e alternative, resistenza e ri-esistenza in chiave di pluriverso. Per fare ciò, riprende le narrazioni relazionali e i concetti di orizzonte che sono stati forgiati negli ultimi decenni nel calore delle lotte, salvando con forza il potenziale che hanno i diritti della natura.
(5. Continua)
-> Economista ecuadoriano e giurista ambientalista argentino, coautori del libro "La Naturaleza sì tiene derechos. Aunque algunos no lo crean". Giudici del Tribunal Internacional de los Derechos de la Naturaleza. Membri del Pacto Ecosocial, Intercultural del Sur.
* Il concetto di 'minga', proprio della cultura ecuadoriana, non esiste nella cultura occidentale, e si riferisce al lavoro condiviso che non beneficia un individuo o un singolo gruppo, bensì tutta la società, quindi motivato da un forte spirito di solidarietà e reciprocità.
** Traduzione Giorgio Tinelli per Ecor.Network
Tratto da:
La naturaleza sí tiene derechos. Aunque algunos no lo crean
Alberto Acosta, Enrique Viale
Siglo Veintiuno Editores, Argentina, 09/2024 - 208 pp.