*** La Natura sì ha dei diritti/4 ***

Dal promettente incontro di Rio 92 a un sostenuto “ambientalismo superficiale”

di Alberto Acosta, Enrique Viale

Dal promettente incontro di Rio 92 a un sostenuto “ambientalismo superficiale”


"Cessate l’egoismo, cessate l’egemonismo,
cessate l’insensibilità, l’irresponsabilità e l’inganno.
Domani sarà troppo tardi per fare ciò che
avremmo dovuto fare molto tempo fa."

Fidel Castro, Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo, 1992


Le prime fotografie della Terra scattate dallo spazio confermavano qualcosa che diversi scienziati avevano postulato, anche a costo della propria vita: la Terra è rotonda e costituisce un'unità in mezzo allo spazio, che ruota attorno al Sole, una sorta di astronave. Le conclusioni di questa constatazione, ancora messa in discussione dai terrapiattisti, stanno guadagnando sempre più forza.

Pertanto, la necessità di prendersi cura di questo ambiente unico, il nostro “pianeta azzurro”, sta gradualmente diventando un mandato globale. Un messaggio di responsabilità espresso da Yuri Gagarin – il primo essere umano a volare nello spazio, a 315 chilometri di altezza, per 108 minuti – quando ritornò sulla Terra il 12 aprile 1961, quando disse: “Gente del mondo, salvaguardiamo questa bellezza, non distruggiamola”.

La salvaguardia del pianeta diventerebbe una questione di crescente preoccupazione. Lentamente, noi esseri umani stiamo iniziando a capire cosa comporta questa urgenza. A poco a poco stiamo comprendendo che senza natura non esiste vita umana sulla Terra. I primi passi, come sempre, sono stati complessi, non sono stati - e non sono - esenti da letture distorte dai diversi interessi dominanti. Sebbene già si accetta che agire sia un imperativo, la natura viene ancora percepita come un fattore da considerare addizionale e non come la base fondamentale che dovrebbe regolare la vita umana in tutte le sue attività.
È stato un viaggio tortuoso e contraddittorio, a livello internazionale e - ovviamente - anche nell'ambito della Nuestra America.


La farsa dello sviluppo sostenibile

Ricordiamoci dunque che, al di là degli impatti causati dalla corsa allo spazio, negli anni settanta arrivò per il mondo uno specifico messaggio di avvertimento. La natura ha dei limiti, si disse. Nel Rapporto del Club di Roma o Rapporto Meadows, pubblicato nel 1972 e noto come 'I limiti della crescita', il mondo si confrontò con quella indiscutibile realtà: ci sono limiti biofisici che non possiamo superare senza mettere a rischio la vita dell’umanità. Il problema di questo rapporto, commissionato al Massachusetts Institute of Technology (MIT), era che prevedeva l’arrivo di una serie di situazioni critiche causate dalla crescita economica che, non verificandosi nella loro totalità, lo delegittimavano ingiustamente. Ad esempio, una volta constatato che la crescita economica non aveva subito un brusco calo, come mostrava la famosa curva che riassume il rapporto, si è semplicemente ipotizzato che la questione dei limiti non fosse credibile. È evidente che se questi avvertimenti fossero stati presi sul serio a livello politico, l’umanità non sarebbe coinvolta in così tante difficoltà derivanti dal collasso ecologico.

In questa epoca dall’America Latina arrivò una sorta di controrelazione - Catastrofe o nuova società? Modello mondiale latinoamericano –, preparato dalla Fondazione Bariloche (Argentina). In quella fondazione, sotto la direzione di Amílcar Herrera, fu creato tra il 1972 e il 1975 un modello matematico e normativo che in qualche modo rispondeva a quello diretto da Donella Meadows, con la partecipazione di Dennis Meadows e Jørgen Randers: un gruppo di scienziati che erano in prima linea nel team che ha prodotto il modello computazionale 'global-world3' per il Club di Roma, che elaborò I limiti della crescita.
Nel modello argentino si affermava che le conclusioni del Club di Roma non erano necessariamente veritiere, considerando che non era previsto un collasso ecologico e che, estrapolando una conclusione politica, dal Nord del mondo si voleva imporre un modello di dominio giustificato dai limiti biofisici per impedire lo sviluppo del Sud del mondo.
La cosa interessante del Rapporto Bariloche è che sostiene che:

"I problemi più importanti che il mondo moderno deve affrontare non sono fisici ma sociopolitici e si basano sulla distribuzione ineguale del potere, sia a livello internazionale che all’interno dei paesi, in tutto il mondo. Il risultato è una società oppressiva e alienante, basata in gran parte sullo sfruttamento. Il deterioramento dell’ambiente non è una conseguenza inevitabile del progresso umano, ma il risultato di un’organizzazione sociale fondata su valori in gran parte distruttivi. Il modello, nel senso di progetto sociale, si fonda sul presupposto che solo cambiamenti radicali nell'organizzazione sociale e internazionale del mondo odierno possono liberare definitivamente l'uomo dall'arretratezza e dall'oppressione. Si propone, quindi, un cambiamento verso una società fondamentalmente socialista, basata sull’uguaglianza e sulla piena partecipazione di tutti gli esseri umani alle decisioni sociali. Il consumo materiale e la crescita economica sono regolati in modo tale da realizzare una società intrinsecamente compatibile con l'ambiente".

Dai due rapporti emerge chiaramente che la sfida del cambiamento climatico non è solo tecnica ed economica, ma essenzialmente politica: una questione la cui validità rimane immutata fino ai giorni nostri.


Conclusione del modello mondiale latinoamericano

Nel controrapporto argentino del 1975 si concludeva che, come si è tentato di dimostrare, sebbene non sussitano ragioni scientifiche per ipotizzare una catastrofe ecologica o una grave carenza di risorse naturali nel prossimo futuro, ciò non significa in alcun modo che sia lecito trascurare questi problemi. L'ipotesi che non vi sia alcun pericolo apprezzabile nell'orizzonte temporale considerato è un presupposto ragionevole che si basa sull'esperienza passata, sulle informazioni scientifiche e tecniche disponibili e sul fatto che la tecnologia ha avuto finora un tasso di crescita ancora più elevato di quello del consumo. Tali ipotesi, visto che si riferiscono in parte a fattori naturali non perfettamente conosciuti, implicano un certo grado inevitabile di rischio, anche se minimo.
La posizione del modello, rispetto a questi problemi, testimonia che la preservazione delle risorse naturali e dell'ambiente dipende più dal tipo di società proposta che da specifiche misure di controllo. In questo senso il modello cerca di descrivere una società che, nelle sue caratteristiche essenziali, è intrinsecamente compatibile con l’ambiente.
La compatibilità dipende innanzitutto dall’esistenza di un sistema economico che produca beni di base e culturali di cui gli esseri umani hanno realmente bisogno, evitando l’uso distruttivo delle risorse. Inoltre, anche se la crescita economica consente la continua espansione delle opzioni culturali, è sufficientemente lenta da consentire lo sviluppo di nuove risorse, non appena diventano necessarie, e da facilitare la previsione degli effetti nocivi dell’inquinamento al fine di adottare misure con sufficiente anticipo.
Nel modello quindi, una volta soddisfatti i bisogni fondamentali, l’attività economica viene ridotta, così che il suo tasso di crescita diminuisce ad un livello tale che, mentre le possibili opzioni sociali continuano ad espandersi, viene ridotto al minimo l’impatto sulle risorse e l'ambiente. Questa riduzione implica un aumento del tempo libero, che di per sé rappresenta una possibilità di aumentare le opzioni culturali, con un impatto minimo sull'apparato produttivo.
In secondo luogo, l’adattamento di una società al suo ambiente e alle risorse disponibili, dipende in gran parte dal tipo di tecnologia utilizzata nella produzione. Nei paesi sviluppati, una crescita economica moderata faciliterebbe una graduale inversione della tendenza controecologica del sistema produttivo finora prevalente.
Per i Paesi del Terzo Mondo il problema consiste essenzialmente nel trovare nuove vie di sviluppo, evitando i pericoli che oggi devono affrontare i paesi più industrializzati. Il concetto sempre più accettato di “ecosviluppo”, fornisce un buon quadro di riferimento generale
.

Fonte: Catastrofe o nuova società? Modello mondiale latinoamericano, Fondazione Bariloche, 1977.


Ricordiamo che in quel periodo, nel pieno della Guerra Fredda, nella nostra regione ci trovavamo di fronte a condizioni geopolitiche molto complesse. I nostri paesi erano visti come pedine sullo scacchiere globale. Le ancora vigorose teorie della dipendenza promuovevano percorsi diversi da quelli del mondo capitalista, pur aderendo alle idee di “progresso” e “sviluppo”, cioè erano situate all'interno del paradigma antropocentrico.
In ogni caso, la questione ambientale ha prosperato.
Nel 1987, la Commissione per l’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite presentò lo studio 'Il nostro futuro comune' (noto anche come Rapporto Brundtland dal cognome del suo coordinatore: Gro Harlem Brundtland, ex primo ministro norvegese). Da allora, acquistò popolarità l’idea che fosse possibile raggiungere uno “sviluppo sostenibile”.
Pochi anni dopo, nel 1992, si tenne a Rio de Janeiro la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo, che può essere considerata il punto di partenza delle azioni globali degli esseri umani preoccupati per il deterioramento della Terra.
In quella occasione si proponeva di assumere la sfida ambientale come parte sostanziale della ricerca dello sviluppo. Due dei suoi principi sono molto rilevanti. Il principio n. 3 della Dichiarazione di Rio sostiene che “il diritto allo sviluppo deve essere esercitato in modo da rispondere equamente ai bisogni di sviluppo e ambientali delle generazioni presenti e future”. Il Principio n. 4 afferma che “per realizzare uno sviluppo sostenibile, la tutela dell’ambiente deve essere parte integrante del processo di sviluppo e non può essere considerata isolatamente”.

Da allora, diversi convegni internazionali si sono occupati della questione e hanno anche cercato di unificare le diverse visioni concorrenti riguardo alle questioni ambientali. In questo quadro, anche quando erano evidenti i segnali dei limiti biofisici della Terra e alcuni argomenti invitavano a riflettere sulle cause dei crescenti problemi socio-ambientali, si consolidava ulteriormente la validità del paradigma che li copre e li spiega: il “progresso”, base dello “sviluppo”, assunto come mandato globale da realizzare attraverso una crescita economica permanente. Senza comprendere e ancor meno mettere in discussione l’essenza di quel paradigma, si è ceduto il passo a una nuova formulazione dello stesso concetto: lo “sviluppo sostenibile”. E di certo, considerando le riflessioni ambientali, la rivendicazione del “diritto allo sviluppo” si è consolidata, nel mondo impoverito.

A quel tempo, non prosperarono altre visioni e proposte già esistenti e più orientate verso le sfide profonde della Terra, sopraffatta - questa - dall’azione degli esseri umani abituati a uno stile di vita essenzialmente predatorio.
Ciò significa che non sono state adottate le idee e le proposte sviluppate da coloro che provengono soprattutto dall’ecologia profonda, né sono stati adottati i valori, le esperienze e le pratiche in sintonia con la vita armonica e la vita in pienezza dei popoli nativi, esistenti in varie parti del pianeta, praticamente ignorati nei dibattiti internazionali.

Inoltre i gruppi di potere hanno frenato i cambiamenti minori nella dimensione lessicale. Dopo la Conferenza di Stoccolma, il consulente ambientale delle Nazioni Unite, Ignacy Sachs, ha proposto la parola “ecosviluppo” come termine di equilibrio. Una personaggio potente come Henry Kissinger, capo della diplomazia americana, si è subito occupato di prendere le misure necessarie per porre il veto al suo utilizzo nelle sedi internazionali. E, parola più parola meno, l’umanità ha continuato la sua folle corsa alla ricerca dello “sviluppo”.

In ogni caso, queste conferenze e il modello di “sviluppo sostenibile” richiedevano la creazione di una nuova ingegneria giuridica. La priorità è stata data dall’ordine delle parole che davano il nome al modello: lo “sviluppo” inteso innanzitutto come crescita economica che, una volta assicurata, inizierà ad affrontare la questione ambientale e i diritti delle generazioni future.
L'ordine dei termini non è irrilevante. Si è imposto nuovamente lo “sviluppo”, con predominanza dell'economico, con il quale ha preso il sopravvento la valutazione economica delle cose e delle relazioni. La valutazione economica si trasformò definitivamente nel riferimento primario. Il valore di scambio s'impose sul valore d’uso. La mercificazione della natura continuò la sua marcia accelerata. Non c’era spazio per assumere i valori intrinseci della natura, indipendenti dall’utilità che avrebbero potuto avere per l’essere umano. E, parallelamente, la ricerca della crescita è diventata il grande obiettivo degli Stati nazionali, senza che le strutture di dominio e subordinazione fossero state modificate dopo l’emergere della questione ambientale.
Insieme al dogma della crescita economica, si è rafforzata la fiducia nella scienza e nella tecnologia come strumenti in grado di fornire tutte le risposte richieste dalla Terra minacciata e danneggiata dall’uomo.

Parallelamente, sulla spinta delle proposte e delle azioni derivate dal vertice di Rio e all’ombra dei diritti umani, in una delle sue nuove generazioni – la quarta – è emerso il diritto ambientale. Un diritto concepito e costruito sotto l’idea di “ordine e progresso”, che nel secondo dopoguerra è stato aggiornato nel concetto, da allora onnipresente, di “sviluppo”. Quindi, una volta inserita la questione ambientale nell’agenda internazionale, l’obiettivo della civiltà ha continuato a essere lo “sviluppo”, che a sua volta doveva essere reso “sostenibile”: da lì è emerso con forza lo “sviluppo sostenibile”. E l'aggettivo “sostenibile”, assumeva quello di “ambientale”. Così, in pratica, al di là delle buone intenzioni e dei discorsi eloquenti, la natura restava subordinata allo sviluppo.

In ogni caso, la protezione della natura divenne una questione importante, al punto che gli esseri umani iniziarono ad essere vittime delle proprie azioni contro la Terra e presero coscienza di questa situazione. Ma ciò non ha alterato sostanzialmente la funzione assegnata alla natura di garantire una crescita economica permanente come soluzione delle necessità umane, viste – a torto – come infinite e illimitate. Restava immutata l’idea che l’accumulazione materiale meccanicistica e infinita di beni, basata sull’uso indiscriminato e crescente della natura, fosse la via indiscutibile per raggiungere lo “sviluppo”, una conquista a cui tutti gli esseri umani avevano diritto. Ovviamente, tenendo come faro di orientamento lo stile di vita delle nazioni industrializzate: le metropoli capitaliste, ovverosia - da questa prospettiva - le nazioni “sviluppate”. 


I limiti di Rio+20… o semplicemente Rio–20

Durante la Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, tenutasi sempre a Rio de Janeiro, questa volta nel 2012, gli Stati concordarono un documento finale: Il futuro che vogliamo. Vi si afferma che l'“economia verde”, nel contesto dello “sviluppo sostenibile” e dello sradicamento della povertà, è uno degli strumenti più importanti per raggiungere lo sviluppo. Si afferma che possa offrire alternative in termini di formulazione delle politiche, ma non dovrebbe consistere in un insieme di regole rigide. L'“economia verde”, in breve, deve promuovere una crescita economica duratura e inclusiva.
Nel documento finale del Summit Rio+20, non sono state individuate le radici storiche e strutturali della povertà, della fame, dell’insostenibilità e della disuguaglianza. Se non viene diagnosticato chi ne è portatore o a cosa sia dovuta questa responsabilità, è inevitabile concludere che qualsiasi soluzione proposta sarà insufficiente di fronte alle gravi sfide della crisi di civiltà che ci troviamo ad affrontare.

Inoltre, il rapporto non riconosce che la crescita economica infinita è impossibile in un mondo finito. Concettualizza il capitale naturale come una “risorsa economica fondamentale”, aprendo ulteriormente le porte alla mercificazione della natura, attraverso il cosiddetto “capitalismo verde”. Non rifiuta il consumismo sfrenato. Al contrario, pone grande enfasi sui meccanismi di mercato, sulla tecnologia e su una migliore gestione per realizzare i cambiamenti politici, economici e sociali richiesti dal mondo. Tutto ciò, com'è ovvio, non dà e non darà i frutti sperati.

Così come nella conferenza di Rio ’92 trionfò il modello di “sviluppo sostenibile” su altri modi di concepire il rapporto tra l’umanità e la natura, in quella Rio+20 gli Stati nazionali raggiunsero un accordo sull'“economia verde”.

In questi negoziati è stato raggiunto un solo punto interessante: nel paragrafo 39 del documento, si riconosce che il pianeta Terra e i suoi ecosistemi sono la nostra casa e “Madre Terra” è un’espressione comune in molti paesi e regioni, e osserviamo che alcuni paesi riconoscono i diritti della natura nel contesto della promozione dello sviluppo sostenibile.
Questo paragrafo suscita perplessità quando incorpora i diritti della natura come parte del modello di sviluppo sostenibile, dato che entrambi corrispondono a paradigmi assolutamente opposti. Anche se forse non dovremmo sorprenderci se notiamo che le organizzazioni delle Nazioni Unite assumono il 'Buen vivir' – in sostanza, un’alternativa allo “sviluppo” e al “progresso” – come parte dell'“economia verde”. Una pratica tipica di una sorta di estrattivismo intellettuale che avviene attraverso l’usurpazione dei termini da parte delle autorità, che porta poi a una sorta di svuotamento e “vampirizzazione” dei suoi contenuti, come nota chiaramente Maristella Svampa.
E alla fine, dato l’evidente fallimento di questo tanto atteso vertice, a vent’anni dal primo incontro di Rio, la conferenza mondiale chiamata Rio+20 divenne nota come Rio–20.


Portata e limiti dell'“Accordo di Parigi” e sua continuità

Come ben sappiamo, gli sforzi compiuti dopo l'approvazione della Convenzione di Kyoto nel 1997 non hanno portato a risultati incoraggianti. Inoltre, il fallimento della Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici-COP 15, tenutasi nel 2009 a Copenaghen, ha costituito un duro precedente. Il malcontento e la disperazione hanno preso il sopravvento nell'ambito d'azione delle Nazioni Unite. E da questo punto di vista, quando ci si aspettava poca cosa, l’accordo globale raggiunto alla COP 21 di Parigi nel dicembre 2015, si è rivelato un successo. In quella città, scossa poco prima da un brutale attacco terroristico, i 95 paesi membri della Convenzione delle Nazioni Unite Contro i Cambiamenti Climatici, più l'Unione Europea, considerata uno  Stato in più, raggiunsero un accordo contro il riscaldamento globale che coinvolge quasi tutto il pianeta.

Se ci chiediamo quale sia lo stato delle risoluzioni globali per affrontare le sfide del cambiamento climatico, con un focus sulla COP 21, la prima conclusione è che, sebbene ciò che è stato raggiunto sia significativo rispetto ai fallimenti precedenti, si traduce in ben poco o sicuramente nulla in relazione a ciò che questa sfida globale richiede. Inoltre: a Parigi non furono posti limiti alla civilizzazione petrolifera, una delle maggiori cause del disastro ambientale: non risultano neanche citati alcuni concetti chiave come “combustibili fossili”, “petrolio” e “carbone”. Lo stesso si potrebbe dire di fronte alla riluttanza da parte di Cina e Stati Uniti, i principali responsabili delle emissioni di gas serra, ad accettare soluzioni di fondo, anche se va riconosciuto che questi due paesi finalmente si posero d'accordo su alcuni punti relativi al clima globale.

Nel testo centrale dell'accordo, sono stati tolti i riferimenti ai diritti umani e alle popolazioni indigene (menzioni relegate nel preambolo). I paesi potenti e le grandi multinazionali hanno fatto in modo che nessun documento o decisione incidesse sui loro interessi od ostacolasse la logica dell’accumulazione di capitale. Né è stato riconosciuto il debito climatico (sarebbe meglio parlare di debito ecologico) che storicamente i paesi industrializzati hanno nei confronti del mondo sottosviluppato. Inoltre, le grandi potenze – Stati Uniti e Unione Europea – non solo ignorano questo debito, ma fanno tutto il possibile per non accettare le loro responsabilità passate e attuali per la scomparsa dei ghiacciai, per l’innalzamento del livello del mare e per gli eventi climatici estremi, oltre alle distruzioni causate dagli estrattivismi che incoraggiano - oltretutto - numerosi e importanti disastri.

Alla COP di Parigi si è parlato di ottenere risorse per finanziare gli sforzi di mitigazione e riparazione. Si propose un fondo di 100 miliardi di dollari all’anno, a partire dal 2020: una cifra esigua rispetto all’importo globale dei sussidi ai combustibili, che a livello mondiale supera gli 8 trilioni di dollari. Una cifra irrisoria anche se paragonata ai profitti multimilionari di alcune aziende farmaceutiche transnazionali a seguito della pandemia del covid-19: una somma di denaro ridicola se confrontata con le incalcolabili risorse economiche destinate alla produzione di armi.

Inoltre, sappiamo che questo fondo, così come concepito, manca di prevedibilità e trasparenza. Tanto che ad oggi l'importo promesso non è stato mantenuto. E, a proposito, il rigore degli impegni cambia a seconda che si tratti di paesi “sviluppati”, emergenti o “in via di sviluppo” (un eufemismo usato per riferirsi a paesi impoveriti dal sistema capitalista e dalla sua impraticabile proposta di sviluppo): ad esempio, la Cina, uno dei paesi più inquinanti del pianeta, riceve lo stesso trattamento di qualsiasi paese povero, il che le consente di continuare a inquinare in modo massiccio.


Di COP in COP, la distanza tra proclami e fatti

Senza soffermarci ad analizzare ciascuna COP, prenderemo come riferimento quelle più recenti. È vero che a Glasgow, alla COP 26 del 2021, in piena pandemia, la questione delle energie fossili è stata timidamente incorporata nell’accordo ufficiale. Ma l’anno successivo, la COP 27, in Egitto, si concluse senza affrontare la questione dei combustibili fossili, anche se è noto che quasi il 90% delle emissioni globali di CO2 sono causate da questi combustibili. La stessa cosa è accaduta alla COP 28, nel 2023, che si è svolta a Dubai, paese petrolifero per eccellenza. È evidente che il potere delle multinazionali degli idrocarburi e delle miniere, insieme ad altre, come le aziende automobilistiche, in complicità con molti governi, hanno un potere enorme.

Alla COP 27 è stato introdotto un altro concetto che comincia ad essere massivamente diffuso e sicuramente manipolato: la transizione energetica. Proprio lì si è deciso infatti di accelerare l'impiego, l'implementazione e la diffusione di tecnologie, nonché l'adozione di politiche volte a operare una transizione verso un sistema basato su energia a basse emissioni. La decarbonizzazione sembra essere la grande soluzione da cercare. I mezzi sono chiari: produzione di elettricità pulita, efficienza energetica, abbandono progressivo dell’elettricità generata soprattutto con il carbone ed eliminazione dei sussidi considerati inefficienti per i combustibili fossili.

Transitare verso la decarbonizzazione affrontando gli impatti del cambiamento climatico suona bene. Però questo, come ben sappiamo, non è sufficiente. Sebbene sia tecnicamente fattibile trasformare la matrice energetica, fin dall’inizio ciò pone una sfida fondamentale: non è che qualsiasi transizione è accettabile. La questione diventa molto più complessa se non si dà il via alla sostituzione dei combustibili fossili.

Maristella Svampa e Breno M. Bringel lo affermano chiaramente:

"il colonialismo energetico è il fulcro del “Decarbonization Consensus”: un nuovo accordo capitalista globale che si impegna a cambiare la matrice energetica basata sui combustibili fossili in una senza (o con ridotte) emissioni di carbonio, basata su energie rinnovabili che condanna i paesi periferici a essere zone di sacrificio, senza modificare il profilo metabolico della società o il rapporto predatorio con la natura".

Il punto di partenza: la critica al regime energetico fossile implica anche una critica al capitalismo. Quindi, per cominciare, il problema non è solo la limitatezza delle riserve di combustibili fossili, ma i limiti ambientali e sociali del loro uso eccessivo, distruttivo, concentratore ed escludente. Ma bisogna andare oltre: non si tratta di produrre sempre più energia autenticamente pulita per soddisfare una domanda “infinita”. Di conseguenza, non è sufficiente sostituire solo le risorse energetiche fossili e non rinnovabili con energie rinnovabili sempre più pulite ed efficienti. Sono necessarie trasformazioni energetiche che rendano possibile la costruzione di altre strutture economiche e sociali, che sostituiscano cioè i combustibili fossili con energie “pulite” che introducano cambiamenti profondi nelle strutture produttive e di consumo, nei sistemi e nei modelli del commercio globale e, soprattutto, nella struttura e nella logica delle città.
Insomma, se non si adottano misure drastiche che limitino e addirittura riducano l’offerta di combustibili fossili, nonché misure che arrestino la deforestazione, la temperatura continuerà a salire, contrariamente a quanto proclamato nelle COP. Di fatto, non esistono impegni vincolanti di riduzione delle emissioni di gas serra.

Teniamo presente che l'obiettivo a lungo termine è che la temperatura del pianeta non superi i 2°C di aumento alla fine di questo secolo.  Addirittura si aspira a un obiettivo più ambizioso di 1,5°C che, come abbiamo già notato, non sarà raggiunto entro i termini previsti. Tanto che, con gli impegni volontari di riduzione delle emissioni di gas serra presentati da diversi paesi, la temperatura arriverebbe a superare i 3°C. E in queste circostanze, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera continuerà ad aumentare con impatti sempre più devastanti.

Stando così le cose, questi accordi tanto pubblicizzati aprono ulteriormente le porte alla promozione di false soluzioni nel quadro dell'“economia verde”. Così che, al fine di raggiungere un equilibrio nelle emissioni di origine antropica, i paesi potranno compensare le proprie emissioni attraverso meccanismi di mercato che coinvolgono foreste o oceani, oppure incoraggiare una serie di misure tra cui possiamo evidenziare la geoingegneria, i metodi di cattura e stoccaggio del carbonio, gli specchi spaziali, lo sbiancamento delle superfici, l’iniezione stratosferica di aerosol: tutte misure di dubbio consenso scientifico e che seguono la logica della crescita illimitata. Di fatto, con questi meccanismi si rende agibile una pratica in forte espansione: “io pago per poter inquinare” o anche “io innovo per continuare a crescere economicamente”.

La grande sfida nei prossimi vertici sul clima è quella di incorporare i temi riguardanti le conseguenze, ormai innegabili, del modello produttivo/estrattivista consolidato in gran parte del globo. Qualsiasi politica ambientale o climatica che tentasse di essere attuata senza discutere le molteplici implicazioni del modello di cattivo sviluppo oggi vigente, sarà una toppa, un taglio parziale, addirittura un “ambientalismo superficiale” (come afferma l’enciclica Laudato Si), piuttosto piuttosto che una proposta di discussione integrale sulle sue conseguenze socio-ambientali, socio-sanitarie, economiche, culturali e politiche.

È quindi urgente andare oltre e rivedere tutti i fatti per stabilire le loro interrelazioni, le loro cause e i responsabili, che ci sono eccome.
Oltre al carattere globale del collasso ecologico – non solo climatico – che approfondisce e moltiplica i fenomeni climatici estremi, esistono cause locali legate all’espansione di un modello di cattivo sviluppo, incompatibile con i cicli della natura. Quale paese può essere preparato al cambiamento climatico, o generare vere strategie di adattamento, se le sue politiche pubbliche promuovono ciecamente la deforestazione, la distruzione delle zone umide e delle saline, delle mangrovie e dei 'paramos', l’aumento dell’estrazione di combustibili fossili o la megaestrazione mineraria?

Allo stesso modo, i modelli di consumo devono essere profondamente modificati. Ora sappiamo che lo “sviluppo”, in quanto riedizione degli stili di vita dei paesi centrali, risulta irripetibile a livello globale: ci vorrebbero circa cinque o sei pianeti per far sì che tutti gli abitanti del mondo abbiano un livello di consumo di un cittadino medio statunitense.


Un cambiamento affinché nulla cambi: il gattopardismo rinnovato

Il Decarbonization Consensus, nei termini proposti da Maristella Svampa e Breno M. Bringel, non cambia affatto l’essenza della divisione del lavoro. L’America Latina e altre regioni povere del pianeta stanno consolidando la loro posizione di esportatori di natura. I paesi industrializzati centrali continuano ad essere importatori di natura, ruolo assunto anche da alcune grandi economie emergenti come Cina e India. I paesi del Sud del mondo sopportano il peso dei passivi socio-ambientali nel conseguimento delle materie prime, quelli del Nord del mondo in gran parte lo risparmiano. In ogni caso, tutte queste regioni, in un modo o nell’altro e con diversi gradi di responsabilità, contribuiscono a deteriorare sempre più le condizioni di stabilità e sostenibilità della vita nel pianeta.

A dimostrazione di tutto ciò, nell'ambito dell’estrattivismo i volumi di distruzione e inquinamento continuano a crescere a livelli mostruosi. Ad esempio, per estrarre circa 5,8 milioni di tonnellate di rame in Cile nel 2015, sono state rimosse tra 700 e 800 milioni di tonnellate di residui e scarti altamente contaminati. Ricordiamo che il rame si “ottiene” attraverso processi chimici che lasciano conseguenze molto nocive. Questa quantità inimmaginabile di rifiuti viene gettata in grandi montagne di macerie – cumuli di scorie – o in enormi bacini di rifiuti inquinanti – dighe di recupero – molti dei quali senza “proprietario”, cioè senza responsabilità per le aziende che smaltiscono i rifiuti la cui zavorra peserà sui paesi estrattivisti per decine o centinaia di anni. Ciò che si vive nella provincia di Neuquén, in Argentina, con lo sfruttamento del petrolio tramite il fracking è un chiaro esempio di questa dura realtà.

Se a questa dinamica aggiungiamo i processi di scambio ineguale attuali nel commercio internazionale, vedremo che la combinazione della crescita dei centri e dell'estrattivismo nella periferia provoca una doppia estrazione: i centri “assorbono” tanto valore economico dalla periferia (attraverso i processi convenzionali di sfruttamento capitalista) poiché “assorbono” natura (considerando anche lo sfruttamento capitalista). In questa prospettiva, i paesi capitalisti dipendenti subiscono un’estrazione di valore economico quando i prodotti trattati dal commercio internazionale vengono venduti a prezzi che non incorporano il loro costo reale, ad esempio, non calcolano il vero contributo del lavoro, la distruzione di comunità e culture, e neanche gli elementi nutrienti o le esternalità ambientali.

In modo analogo alle proposte originali di scambio ineguale che caratterizzano gli schemi di dominio tipici della divisione internazionale del lavoro, queste prospettive sull'estrazione di biomassa e minerali fanno sì che nel commercio internazionale non solo esista uno scambio economicamente ineguale ma anche uno scambio ecologicamente ineguale, che danneggia anche la periferia e avvantaggia i centri capitalisti.

E c'è di più. I cambiamenti tecnologici in atto stanno aprendo una fase di sfruttamento non convenzionale delle risorse naturali, una forma esacerbata di utilizzo e sfruttamento del lavoro umano. In questa linea spiccano la tecnica del fracking e dello sfruttamento degli idrocarburi a profondità sempre maggiori, l’estrazione mineraria su larga scala, le piantagioni “intelligenti” e quelle transgeniche, la nanotecnologia, la geoingegneria e la bioingegneria (spesso legata alla biopirateria, che altro non è che il furto nascosto di conoscenze ancestrali), oltre ai mercati del carbonio e a varie forme di flessibilità del lavoro.

Un fatto rilevante. Oggi, la questione delle risorse naturali “rinnovabili” deve essere affrontata alla luce di una realtà in cambiamento. Molte “risorse rinnovabili”, ad esempio la silvicoltura, la fertilità del suolo o la pesca, diventano non rinnovabili, poiché vanno perdute, in quanto il loro tasso di estrazione è molto più elevato del tasso di rinnovamento. Quindi, all’attuale tasso di estrazione, i problemi delle risorse naturali non rinnovabili potrebbero essere dannose allo stesso modo delle risorse rinnovabili. E molte delle proposte di transizione energetica attuate nel Nord del mondo finiranno per aggravare i problemi del Sud senza dare il via alle trasformazioni tanto promosse.


Le minacce della transizione energetica imprenditoriale

Nell’ambito di un processo di transizione energetica – di natura imprenditoriale – nella misura in cui si avanza verso il superamento dei combustibili fossili, come ad esempio il petrolio, si aumentano e si accelerano pericolosamente altri processi che non sono né sostenibili né puliti. E così la stessa “transizione energetica” è diventata un nuovo altare per il sacrificio dei territori del Sud. Ad esempio, sta crescendo la domanda di litio e altri elementi delle “terre rare” – 17 elementi chimici: scandio, ittrio e i 15 elementi del gruppo dei lantanidi – per produrre le auto elettriche, ampliando gli impatti nocivi dell’attività mineraria, ovvero causando una crescente devastazione, spostamenti di popolazione e disuguaglianze. Il cosiddetto “triangolo del litio” (Argentina, Cile e Bolivia), una delle aree con più riserve di litio al mondo, è diventato un’area di accumulo per le grandi imprese a scapito degli ecosistemi e delle comunità locali.

Insomma, l’economia moderna – dipinta di “verde” o di “azzurro” o di “arancione” – richiede sempre più minerali, nonché territori sacrificali per estrarre cobalto e litio per la produzione di batterie ad alta tecnologia (per le auto Tesla di Elon Musk, per esempio) e legno di balsa per le turbine eoliche: assegna vaste aree di terreno per enormi schiere di pannelli solari e nuove infrastrutture per megaprogetti sull’idrogeno. La maggior parte delle tanto lodate energie rinnovabili – solare o eolica, per esempio – dipendono da risorse limitate.

Se ampliamo l'esempio della crescente domanda di legno di balsa per costruire i rotori delle pale che trasformano il vento in elettricità, vediamo che questo sfruttamento provoca la massiccia distruzione di vaste aree di foreste primarie, con il conseguente impatto sulle comunità indigene e contadine. In Ecuador, uno dei paesi con il maggior potenziale di produzione di legno di balsa, sono state due le fonti di approvvigionamento di questo prodotto: le piantagioni forestali, che riducono i territori che producono alimenti e - soprattutto - l’estrazione delle foreste di balsa, che accelera la deforestazione. Con la domanda internazionale, che supera di gran lunga la velocità di crescita di questi alberi, si verifica un'espansione accelerata della frontiera di questo legno, che porta alla creazione di nuove piantagioni e provoca una crescente distruzione delle zone selvatiche, con i conseguenti impatti nocivi sulle comunità.


A livello nazionale: una maledizione che oscilla tra il neoliberista e il progressista

Pertanto, al di là di ogni discorso emancipatore dei governi “progressisti” del subcontinente, la regione continua ad essere un territorio strategico per il capitalismo globale. Non solo: teniamo presente che anche il “progressismo” stesso ha dato nuove spinte al consolidamento dell’estrattivismo, una questione che è ovviamente molto presente nei paesi con governi neoliberisti. In entrambi i casi, l’espansione dell’estrattivismo è stata ed è all’ordine del giorno.

Osserviamo cosa succede nel campo delle infrastrutture, dove ci sono importanti investimenti che cercano di ridurre costi e tempi per l'estrazione o il trasporto delle materie prime. Un esempio sono le grandi dighe idroelettriche la cui energia è destinata principalmente a soddisfare la domanda di progetti estrattivisti, in particolare minerari e petroliferi, all'interno o all'esterno dei vari paesi: ad esempio, Bolivia, Paraguay e Perù appaiono come fornitori di elettricità per espandere la frontiera estrattivista e persino l’indebolita industrializzazione del Brasile.

Vediamo cosa è successo in Bolivia. Parole forti e piene di speranza sono emerse dagli altopiani boliviani con la Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra di Tiquipaya, approvata nell'aprile 2010, mandato incorporato nei regolamenti interni attraverso la Legge 071; della Legge 300, che collega i diritti al vivere bene (in Ecuador si parla di Buen Vivir) con quelli della natura; così come attraverso i trattati internazionali ratificati dallo Stato boliviano. Ma presto quelle parole e azioni si diluirono di fronte alle realtà promosse dall’estrattivismo, come la costruzione di una strada che attraversa il territorio indigeno del Parco Nazionale Isiboro Sécure (Tipnis). Come diceva saggiamente Don Chisciotte della Mancia: “Bisogna dare credito alle opere, non alle parole”.
Ciò che vale la pena sottolineare è che i governi “progressisti”, e anche quelli neoliberisti, mantengono la loro fede nel mito del “progresso” nella sua deriva produttivistica e nel mito dello “sviluppo” come unica direzione.

Dal lato neoliberista c’è chi predica una sorta di fatalismo: ai paesi tropicali, esportatori primari, ancor peggio se non hanno accesso al mare, sarebbe vietato lo sviluppo (a meno che non applichino le loro ricette, ovviamente). E ciò che colpisce è la fiducia quasi illimitata dei governanti neoliberisti, ma anche dei “progressisti”, nei benefici dell’estrattivismo, così da arrivare ​​ad affermare che l’estrattivismo è solo un sistema tecnico di trasformazione della natura, come ha affermato nel 2012 Álvaro García Linera, vicepresidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia.

In questo contesto la questione è estremamente complessa. Da un lato, l’accettazione e l’attuazione dei limitati sistemi giuridici ambientali risulta insufficiente. Oppure, e la cosa è ancora più grave, i vari governi, per complicità o per incapacità, non applicano nemmeno i principi del diritto ambientale, per quanto essi siano già limitati. Per ottenere i minerali o il petrolio, o anche prodotti agricoli provenienti dall’agrobusiness, si dà via libera all’espropriazione di territori e comunità. L’appropriazione massiccia delle risorse naturali estratte con la violenza, viola brutalmente e irreversibilmente tutti i diritti umani, collettivi e ambientali, civili e politici. Per il resto, deve essere chiaro che la violenza non è conseguenza di un tipo di estrazione, ma piuttosto “è una condizione necessaria per poter realizzare l’appropriazione delle risorse naturali”, come nota giustamente Eduardo Gudynas.

Un saccheggio così violento non è una novità. Precisamente, quando Marx affronta il tema dell’accumulazione originaria – nel volume I del Capitale –, scopre che la sua origine si trova in forme violente di appropriazione:

"La scoperta delle regioni aurifere e argentifere in America, lo sterminio, la riduzione in schiavitù e la sepoltura nelle miniere delle popolazioni aborigene, la conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell'Africa in un luogo riservato alla caccia commerciale delle pelli nere, caratterizzano gli albori dell’era della produzione capitalistica. Questi processi idilliaci costituiscono fattori fondamentali dell’accumulazione originaria."

D’altra parte, questa massiccia esportazione della natura richiede che i sistemi legali favoriscano l’estrattivismo. In nome dell’auspicato “sviluppo” tutto è permesso. Dobbiamo fare sacrifici e cercare di seguire la stessa strada di “successo” delle nazioni considerate sviluppate. Per raggiungere questo obiettivo, le norme legali vengono modificate o rese più flessibili, le frontiere finanziarie vengono liberate, gli oneri fiscali vengono ridotti, le conquiste sociali e ambientali vengono minimizzate o addirittura annullate, vengono concessi sussidi di ogni tipo alle attività estrattive (ad esempio, nella fornitura di energia elettrica), e la protesta sociale viene repressa e criminalizzata.
 

Parliamo di debito ecologico

Papa Francesco I è categorico nel chiedere ai paesi arricchiti di

"perdonare i debiti dei paesi che non saranno mai in grado di ripagarli. Più che di magnanimità, si tratta di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui abbiamo preso coscienza: perché esiste un vero e proprio “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, relazionato agli squilibri commerciali con conseguenze nell'ambito ecologico, nonché con l'uso sproporzionato delle risorse naturali storicamente portato a capo da alcuni paesi" [arricchiti, è bene sottolinearlo ancora].

Questa conclusione è formulata nella Bolla di convocazione del Giubileo ordinario del 2025, pubblicata il 9 maggio 2024. Essa riassume la richiesta di cancellare il debito estero, in sintonia con il significato del Giubileo che le chiese cristiane hanno promosso già da un quarto di secolo, la cui urgenza si manitiene nell'attualità, recuperando ancora una volta il segno della speranza. E come ha affermato lo stesso Papa Francesco I, il 5 giugno 2024 – Giornata Mondiale dell’Ambiente –, in udienza privata ai partecipanti al convegno “Crisi del debito nel Sud del mondo”, promosso dal Vaticano, è necessario costruire “una nuova architettura finanziaria internazionale, audace e creativa”, tenendo conto che il debito estero e il debito ecologico sono “due facce della stessa medaglia che ipoteca il futuro”.

Quando parliamo di debito ecologico, non ci riferiamo solo al debito climatico, legato agli impatti derivanti dai cambiamenti climatici in cui la responsabilità maggiore ricade sulle nazioni arricchite. Il debito ecologico è molto più complesso, con una storia lunga e - allo stesso tempo - attualissima. Trova le sue origini nel saccheggio coloniale, che non è stato assunto e continua inarrestabile ai nostri giorni.

Questo debito cresce parallelamente alla domanda di risorse naturali da parte dei diversi capitalismi metropolitani. Le pressioni sulla natura attraverso le esportazioni di risorse naturali dal Sud del mondo, (quasi) sempre mal pagate, non presuppongono la perdita di elementi nutrienti e di biodiversità, né considerano la distruzione delle comunità e ancor meno le molteplici violenze che da queste derivano. Sappiamo bene che si tratta di esportazioni esacerbate dalle crescenti esigenze derivanti dalla proposta aperturista ad oltranza, tipica degli accordi di libero scambio, che non solo sono liberi né solo di commercio: trattati che sempre più cercano un'unica cosa: garantire l’approvvigionamento di risorse naturali per i propri processi di transizione energetica imprenditoriale (con la domanda di litio, rame, terre rare, per esempio).

In questo, hanno un impatto uguale le condizionalità per sostenere il pagamento dei debiti esteri, costringendo alle esportazioni, soprattutto di beni primari (e allo stesso tempo al sovrasfruttamento della manodopera). Su questo influisce anche la crescente finanziarizzazione di vari processi economici. Non dimentichiamo che il capitale, quando non riesce ad accumulare producendo, estraendo o commercializzando, accumula speculando, alla bisogna anche con l'estrattivismo: basti guardare ai futuri mercati del petrolio, dei minerali o dei cereali. Da qui deriva anche la crescente ingordigia contemporanea per un numero sempre maggiore di risorse naturali che vengono mercificate ancor prima di essere estratte o piantate, il tutto per cristallizzare l’accumulazione. Questo è uno scenario dove regna la speculazione e dove la finanziarizzazione dei processi produttivi ed estrattivi è sempre più presente, con una partecipazione attiva e crescente dei capitali della criminalità organizzata.

Tutto ciò provoca una maggiore distruzione della natura e effetti profondi sulle comunità, soprattutto vicine ai luoghi di sfruttamento, colpendo tutti gli ambiti della vita nei paesi del Sud del mondo, prigionieri delle (impossibili) promesse della modernità. I suoi governanti e le sue élite, lo abbiamo visto fino alla nausea, sono disposti a continuare su questa strada alla ricerca di uno sviluppo sempre sfuggente.

In questo contesto, se allarghiamo la visione, il debito ecologico si proietta non solo nello scambio ecologicamente ineguale, ma anche nell’occupazione gratuita dello spazio naturale dei paesi impoveriti a causa dello stile di vita predatorio dei paesi industrializzati. Pertanto, questo debito cresce, da un altro versante interrelazionato al precedente, nella misura in cui i paesi più ricchi hanno ampiamente superato i loro bilanci ambientali, trasferendo direttamente o indirettamente la contaminazione (rifiuti o emissioni) ad altre regioni senza assumersi alcun pagamento.

Basta vedere cosa succede con l’emissione di gas serra, che sono emessi in modo sproporzionato dai paesi del Nord del mondo, ma le cui conseguenze ricadono sull’intero pianeta e, in misura maggiore, sui paesi del Sud, le cui infrastrutture sono più precarie nell'affrontare gli eventi climatici estremi.

A tutto ciò va aggiunta la già citata biopirateria, promossa da diverse multinazionali, le quali, inoltre, brevettano nei loro paesi di origine una serie di piante e conoscenze delle popolazioni indigene, beneficiando così di conoscenze curative ancestrali. In questa linea di riflessione rientrano anche i danni arrecati alla natura e alle comunità, soprattutto contadine, con l’introduzione di sementi geneticamente modificate, che comportano un impatto sulla sovranità alimentare. E queste nazioni arricchite, grazie al saccheggio di altri popoli e della natura, sono anche corresponsabili dell’espansione in tutto il mondo dei loro modelli di consumo e produzione profondamente predatori.

Ecco perché confermiamo che non solo esiste uno scambio commerciale e finanziario ineguale, ma esiste anche uno scambio ecologicamente squilibrato e che genera disequilibrio. Entrambi comportano impatti culturali complessi e persino predatori.

Un primo passo verso la giustizia globale è, senza dubbio, affrontare la questione del debito nella sua complessità. Pertanto, è essenziale ripensare la logica di approccio alla questione, comprendendo che i paesi indebitati con debiti finanziari sono i creditori di questi altri debiti. Inoltre, è urgente la disobbedienza contro il debito estero. La cancellazione dei debiti esteri, come chiede Papa Francesco I, deve essere senza condizioni.

Allo stesso tempo, è necessario organizzarsi per esigere la riscossione del debito ecologico e del debito coloniale. Non si tratta solo di mobilitare grandi flussi di denaro dal Nord al Sud, o da un paese all’altro, o verso comunità o individui. Dobbiamo andare molto oltre, tenendo presente la giustizia globale, sia sociale che ecologica.

È importante introdurre nel dibattito le nozioni di restituzione e di riparazione, che mirano a riconsiderare il mondo dal principio della già citata giustizia globale: in altri termini, con altre regole del gioco e con altre strutture, al fine di creare un ordine politico completamente nuovo, caratterizzato dall'autodeterminazione e dalla solidarietà, piuttosto che dalla dominazione e dalla gerarchizzazione. 

(4. Continua)


-> Economista ecuadoriano e giurista ambientalista argentino, coautori del libro "La Naturaleza sì tiene derechos. Aunque algunos no lo crean". Giudici del Tribunal Internacional de los Derechos de la Naturaleza. Membri del Pacto Ecosocial, Intercultural del Sur.
* Il concetto di 'minga', proprio della cultura ecuadoriana, non esiste nella cultura occidentale, e si riferisce al lavoro condiviso che non beneficia un individuo o un singolo gruppo, bensì tutta la società, quindi motivato da un forte spirito di solidarietà e reciprocità. 
** Traduzione Giorgio Tinelli per Ecor.Network

 


Tratto da:

La naturaleza sí tiene derechos. Aunque algunos no lo crean
Alberto Acosta, Enrique Viale
Siglo Veintiuno Editores, Argentina, 09/2024 - 208 pp.
 


 

 

 

05 dicembre 2024 (pubblicato qui il 07 dicembre 2024)