Uscite dal labirinto della Modernità: il Buen Vivir, un'opzione
Il Buen Vivir - e questo è fondamentale - costituisce un progresso radicale, superando il concetto tradizionale di “sviluppo” e dei suoi molteplici sinonimi, nonché la religione del “progresso”, introducendo una visione diversa, molto più ricca di contenuti e più complessa.
Riassumiamo. Buen Vivir non è un ricettario adattato in alcuni articoli costituzionali. Di certo, la semplice accettazione costituzionale o legale del Buen Vivir supererà il capitalismo, che è in sostanza la civiltà della disuguaglianza e della devastazione. Il Buen Vivir è un’opportunità per costruire collettivamente un nuovo modo di vivere. Si tratta, in sostanza, di un processo vitale che nasce dalla matrice comunitaria di popoli che hanno vissuto o vivono tuttora in armonia con la Natura. Gli indigeni non sono premoderni, né arretrati. I loro valori, esperienze e pratiche sintetizzano una civiltà viva, capace di affrontare una Modernità sempre coloniale. Con le loro proposte immaginano un futuro diverso, che già alimenta dibattiti globali. Il Buen Vivir, quindi, cerca di raccogliere i principali valori, alcune esperienze e, soprattutto, alcune pratiche che esistono nelle Ande e in Amazzonia, così come in altri luoghi del pianeta.
La visione degli emarginati dalla storia – in particolare dei popoli originari – rappresenta un’opportunità per costruire un altro tipo di società basata sulla convivenza nella diversità tra gli esseri umani e in armonia con la Natura, a partire dal riconoscimento dei diversi valori culturali esistenti nel mondo. Si tratta cioè di un buon convivere in comunità e nella Natura, senza negare in alcun modo i contributi scientifici e tecnologici purché siano in sintonia con questo approccio di base.
Sarà possibile – e realistico – tentare un diverso ordine sociale all’interno del capitalismo? Questa è una domanda importante. Pensiamo qui ad un ordine sociale generalizzato con piena e profonda validità dei Diritti Umani e dei Diritti della Natura, ovverosia ispirato ad armonie, equilibri, reciprocità, complementarità e solidarietà. La risposta è semplice: è assolutamente impossibile. Nonostante questa impossibilità, non vediamo l’ora di superare prima il capitalismo e poi di trasformare il Buen Vivir in realtà.
Come è stato dimostrato nel corso dei secoli, nel pieno della colonizzazione permanente, anche in epoca repubblicana, i valori, le esperienze e le molteplici pratiche del Buen Vivir sono presenti. E proprio da questi spazi di accumulazione, con esperienze diverse, si costruiscono alternative di civilizzazione, che iniziano a generare potenti processi trasformativi.
Riconosciamo che sarà necessaria un'indagine sui “casi di successo” del Buen Vivir, soprattutto su quelle pratiche che hanno resistito fino ad oggi o che possono essere recuperate dalla sua storia. Questi casi sono particolarmente importanti poiché sono sopravvissuti a secoli di colonizzazione ed emarginazione. Parallelamente, è opportuno imparare da quelle tragiche storie di culture che sono scomparse per vari motivi. Sia da queste storie che dai processi ancora aperti si possono trarre lezioni innovative per le attuali sfide sociali ed ecologiche.
Ma c'è di più. Il Buen Vivir può aprire opzioni e sintonizzarsi con diverse visioni umanistiche e antiutilitaristiche provenienti da altre latitudini. L’idea è quella di mettere in discussione il fallito impulso verso lo “sviluppo”, come mandato globale e percorso unilineare, proponendo non più “alternative di sviluppo”, ma “alternative allo sviluppo”, come abbiamo affermato fin dall’inizio di queste brevi riflessioni. Vale anche la pena recuperare quelle domande sulle strategie convenzionali che si nutrono di molteplici visioni, esperienze e proposte provenienti da varie parti del pianeta, comprese alcune dalle radici stesse della civiltà occidentale, come l’ecosocialismo.
Sempre più persone sono consapevoli dei limiti biofisici esistenti. Di conseguenza, aumentano quegli argomenti prioritari che invitano a non cadere nella trappola di un concetto di sviluppo sostenibile o di capitalismo verde che non incide sulla riconsiderazione del capitale, cioè del capitalismo. Sappiamo bene che il mercantilismo ambientale, esacerbato da decenni, non ha contribuito a migliorare la situazione, è stato solo un maquillage irrilevante e finalizzato a distrarre. Dobbiamo anche prestare attenzione ai rischi derivanti da un’eccessiva fiducia nella scienza e nella tecnologia.
Ecco perché, in pieno 21° secolo, si rafforzano molte diverse risposte di opposizione allo “sviluppo” e al “progresso”, provenienti da altre letture e realtà. Gli allarmi riguardano il deterioramento ambientale causato dai modelli di consumo occidentali e i crescenti segnali di esaurimento ecologico del pianeta causati dal produttivismo e dall’estrattivismo. È ovvio, la Madre Terra non ha la capacità di assorbimento e di resilienza affinché tutti emulino il consumismo e il produttivismo tipici dei paesi industrializzati. Solo da questa prospettiva, i concetti convenzionali di “sviluppo” e “progresso” non forniscono risposte adeguate a queste evoluzioni. Qui emerge un altro punto d’incontro con le cosmovisioni indigene, nelle quali gli esseri umani non solo convivono con la Natura in modo armonioso, ma ne fanno parte, poiché in definitiva sono Natura.
L’urgenza di risposte politiche
La questione sicuramente è e sempre sarà politica. Non possiamo aspirare semplicemente a soluzioni “tecniche”. Il nostro mondo ha bisogno di essere pensato in termini politici come fondamento per poi essere ricreato dalle basi. Dobbiamo quindi promuovere transizioni mosse da nuove utopie, ma sempre affrontando i limiti che impone l’attuale distribuzione del potere.
Ma questa possibilità dipende anche da quanto saremo in grado di comprendere e affrontare gli interessi che cercano di mantenere lo status quo capitalista finalizzato al mantenimento del suo potere, interessi opposti proprio ai cambiamenti urgenti. È evidente, quindi, che non si tratta di fare meglio quanto fatto finora e aspettare che le cose cambino, anche se in meglio. Ciò che si cerca è costruire collettivamente una sorta di grande minga3 democratica, ovverosia nuovi patti di convivenza sociale e ambientale, cosa che richiede la creazione di nuovi spazi di libertà e la rottura di tutti gli steccati che ne impediscono l'effettività. Un simile processo comporta senza dubbio il confronto con molteplici interessi attualmente dominanti.
Quindi, senza assumere lo Stato come unico – o più importante – ambito di azione strategica, è fondamentale ripensarlo in una prospettiva plurinazionale e interculturale, dimensioni da costruire partendo dall'ambito comunitario. Si tratta di un impegno storico. Non si tratta di modernizzare lo Stato attuale incorporando burocraticamente gli indigeni e gli afro, né di favorire spazi, come l’educazione interculturale bilingue, solo per le popolazioni indigene. Un altro Stato (Acosta, 2019) richiede l’assunzione e l’elaborazione dei codici culturali dei popoli e delle nazionalità indigene, nonché dei gruppi popolari tradizionalmente emarginati. Occorre cioè aprire un ampio dibattito al riguardo per andare verso uno Stato libero da vincoli eurocentrici. E da questo processo, che richiede un ripensamento delle strutture e delle istituzioni esistenti, deve emergere un quadro istituzionale che renda l’esercizio orizzontale del potere una realtà. Ciò significa trasformare strutturalmente lo Stato in chiave plurinazionale, come forma attiva di organizzazione sociale e come progetto politico capace di affrontare e addirittura superare la civiltà del capitale. Insomma, la democrazia stessa deve essere radicalmente ripensata e approfondita, abbandonando i canoni della presunta democrazia liberale capitalista in cui il potere non è mai distribuito in maniera orizzontale.
Elementi basilari di tale democrazia radicale si ritrovano nel rapporto armonioso/amorevole con la Madre Terra, nel riconoscimento che tutti gli esseri viventi hanno un valore intrinseco, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno qualche utilità per gli esseri umani, come passo previo a queste risposte biocentriche o ecocentriche.
La diversità biologica e culturale è alla base di questa forma di democrazia radicale, che non può più puntare sulla uniformazione produttiva, culturale e persino politica. La sostenibilità pensata nella prospettiva delle generazioni future, impone il dare priorità ai beni comuni e alla sussistenza di base, garantendo salute, cibo, istruzione, alloggio ed energia come diritti, non più come merci.
I saperi ancestrali in stretto dialogo con la conoscenza scientifica, devono contribuire a rendere realtà la convivialità nelle relazioni sociali, economiche e politiche. Inclusione e partecipazione sostengono la base di questa altra democrazia proposta in permanente coniugazione dal basso. È necessario valorizzare diritti e doveri dal locale al globale, passando per gli ambiti nazionali e regionali, per globalizzare la pace, l'attenzione verso le fragilità e la solidarietà, invece della logica della competizione e del conflitto che soffocano il pianeta.
Nasce anche la necessità di costruire un’altra economia per un’altra civilizzazione, poiché questo è lo scopo di tutto questo sforzo. Nel contesto di una nuova economia, è evidente la necessità di rafforzare e dare dignità al lavoro, mettendo al bando qualsiasi forma di precarietà lavorativa. Tuttavia, ciò non è sufficiente. L’economia, va ripensata dalle sue radici. Non può essere né la scienza imperiale che subordina le altre scienze sociali, né il fine ultimo. L'essere umano è la ragion d'essere dell'economia e in essa deve avere una posizione di attenzione centrale, ponendolo sempre come parte della Natura, di cui non può essere dominatore.
Pertanto, invece di considerare la Natura come uno stock “infinito” di materie prime e un destinatario “permanente” di rifiuti, un’altra economia dovrebbe considerare la sostenibilità e la solidarietà come obiettivi indiscutibili. È urgente un’altra economia, liberata dalle catene della crescita economica permanente: si arriverà ad essa attraverso la diversità e la pluralità, potenziando la dimensione locale, a partire dai suoi bisogni e richieste, rispettando le logiche comunitarie di organizzazione e presa di decisioni.
Qui emerge un elemento chiave: è indispensabile vedere l'essere umano vivendo in comunità, senza alcun tipo di rapporto di sfruttamento e mediazione con i suoi simili, e sempre in armonia con la Natura. E questo, nell'aprire la porta alla demercificazione della Natura, ci costringe necessariamente a transitare verso quest'altra economia, che dovrà sempre essere subordinata alle esigenze degli esseri umani che vivono in armonia con la Natura (Acosta e Cajas-Guijarro, 2020).
Un aspetto fondamentale: non si tratta di cercare un equilibrio tra economia, società ed ecologia; ancor meno utilizzando il capitale come asse di articolazione palese o nascosto. L’essere umano e i suoi bisogni devono sempre avere la precedenza sul capitale, ma mai in contrapposizione all’armonia e all’equilibrio con la Natura, base fondamentale per la sua esistenza. Dobbiamo capire che la distruzione della Natura rappresenta un rischio enorme per la stessa economia: ciò che viene ordinariamente celebrato come crescita economica viene quasi sempre ottenuto distruggendo gli ecosistemi che rendono possibile la nostra esistenza e addirittura approfondendo le disuguaglianze sociali.
Ciò implica, innanzitutto, la necessità di opporsi totalmente al fatto che il capitale e la sua accumulazione siano la ragion d'essere dell’economia. Inoltre, non è nemmeno più sufficiente – o forse non lo è mai stato – prospettare quella massima della “vita al di sopra del capitale”. Il capitale deve essere bandito da tutte le sfere della vita e sostituito da relazioni sociali di natura postcapitalista. Altrimenti, se non eliminiamo il capitale e non superiamo i limiti dell’economia come la conosciamo (sia ortodossa che eterodossa), continueremo a soffrire a causa di una civiltà che depreda il pianeta, poiché, come affermava con grande chiarezza il filosofo ecuadoriano Bolívar Echeverría (2010):
"la modalità capitalista vive soffocando la vita e il mondo della vita, questo processo è stato portato a un punto tale che la riproduzione del capitale può avvenire solo nella misura in cui cominci a distruggere gli esseri umani così come fa con la Natura."
Da quanto sopra consegue che è urgente superare il divorzio tra Natura ed essere umano. Scrivere questo cambiamento storico è la sfida più grande dell'umanità se non vogliamo mettere a rischio l’esistenza stessa dell’essere umano. Insomma, il rapporto con la Natura è un aspetto fondamentale nella costruzione del Buen Vivir. Riconoscere la Natura come soggetto di diritti significa assumere una posizione biocentrica – che potrebbe estendersi a una posizione priva di qualsiasi centro –, fondata su un’etica alternativa, accettando i valori intrinseci di questo ambito. Tutti gli esseri, anche se non sono identici, hanno un valore ontologico anche quando non sono utili agli umani. E da questa prospettiva, quando incorporiamo i diritti della natura, al di là del ristretto quadro giuridico, stiamo aprendo la porta a un grande cambiamento di civiltà, una svolta copernicana. Se accettiamo che noi umani non siamo al margine della Natura, che siamo Natura e che in essa non c'è nessuna specie superiore, siamo costretti a comprendere che – e questo è fondamentale – è la Natura a darci diritto alla nostra esistenza. Da ciò deriva un mandato globale che ci chiama a promuovere un'altra economia, altre forme di fare politica, altri modi di costruire società e, certamente, profondi cambiamenti culturali indispensabili per un'altra civilizzazione, in cui una vita dignitosa per tutti gli esseri umani e non sia sempre al centro.
È inevitabile anche il superamento di tutti i tipi di disuguaglianze e ingiustizie. Il Buen Vivir non può ammettere una società divisa in classi sociali. Fondamentali per la sua costruzione sono anche la decolonizzazione e il superamento del razzismo, profondamente radicato in molte delle nostre società, così come la depatriarcalizzazione. In questo sforzo di profondi cambiamenti strutturali, le questioni culturali e territoriali richiedono un’attenzione urgente.
Insomma, la lotta è di carattere civilizzatorio, accettando l’esistenza di molte decine di dimensioni a cui fare attenzione con lo stesso zelo. Così, oggi più che mai, in mezzo alle gravi e molteplici difficoltà globali – aspetti della crisi di civiltà che incombe sull’umanità – è essenziale costruire altri modi di vita, che non siano regolati dall’accumulazione di capitale. Il Buen Vivir – senza essere una proposta unica o indiscutibile – serve a questo scopo, anche per il suo valore politico di trasformazione e mobilitazione. Sostenendo l'essenza del Buen Vivir si può voltare pagina.
Si tratta di un impegno per un futuro diverso, irraggiungibile con discorsi radicali che però sono carenti di proposte. Queste proposte devono avere come principio di base la costruzione di rapporti di produzione, intercambio e cooperazione che promuovano la sufficienza (più che la semplice efficienza), sostenuta dalla solidarietà.
In conclusione, il Buen Vivir - come filosofia di vita - ricerca un progetto liberatorio e tollerante, senza pregiudizi né dogmi. È un progetto che raccoglie tante storie di lotte di resistenza e proposte di cambiamento, che attinge ad esperienze esistenti in molte parti del pianeta, come punto di partenza per costruire democraticamente società democratiche.
Pertanto, il Buen Vivir richiede la costruzione di una vita di autosufficienza e autogestione tra esseri umani che vivono in comunità, garantendo il potere di autogenerazione della Natura. Tutto questo potenziando il locale e la propria dimensione: stati diversi, rinnovati spazi locali, nazionali e regionali di presa di decisioni, nonché un’orizzontalità del potere per costruire spazi globali democratici, creando nuove mappe territoriali e concettuali.
Urge anche individuare ciò che è importante e ciò che è necessario, avendo a portata di mano la mappa della rotta che non conviene percorrere:
"bisogna conoscere il cammino per l'inferno, per evitarlo!"
raccomandava Nicolás Machiavelli nel suo classico libro pubblicato più di 500 anni fa. Intendiamo tutto questo, quando parliamo di Buen Vivir.
Conclusioni: la vita è adesso, vale la pena viverla
Il pensiero dominante tipico della globalizzazione capitalista ci porta a credere che sia impossibile immaginare una società che non sia classista, un’economia che non promuova la crescita economica e lo “sviluppo”, ed è addirittura quasi inconcepibile una democrazia che vada oltre la dimensione elettorale. Allo stesso modo, dalla stessa prospettiva dominante, un mondo senza sfruttamento massiccio della Natura è considerato impensabile. Ed è proprio quel mondo, carico di molteplici resti e fardelli di patriarcato e colonialismo, ciò che dobbiamo superare.
Uscire da quel mondo è il grande compito del nostro tempo. Dobbiamo liberarci dai legami concettuali di “progresso” e “sviluppo”, che possono sfociare in una debacle socio-ambientale globale dalle conseguenze imprevedibili, una realtà che sta già cominciando a manifestarsi con gravi collassi ecologici localizzati: inondazioni, siccità, incendi, tornado, etc.
Ricordiamoci che i suoi concetti, tipici della Modernità, sono in crisi. Furono presentate come idee-forza al fine di mobilitare l’umanità verso lo “sviluppo”, ma hanno finito per dimostrare che lo “sviluppo” è un fantasma. Il benessere delle nazioni arricchite, a scapito dello sfruttamento di altre società e della Natura, è irraggiungibile per le società sfruttate e impoverite del mondo capitalista almeno finché le società arricchite affogano nel loro cattivo sviluppo. Pertanto, il superamento di tali categorie rappresenta un passaggio qualitativo cruciale.
Questa sfida mette alla prova tutta la capacità di pensiero critico, così come l’inventiva e la creatività, soprattutto delle organizzazioni sociali e politiche. Per superare la prova, dobbiamo radicalizzare la democrazia in maniera permanente. Il che implica individuare, definire e difendere i punti centrali del dibattito, come passo essenziale per agire. La critica e l’autocritica sono, allo stesso modo, compagne inseparabili di questo cambiamento. Chiudere la porta a questa forma di agire, significherebbe chiudere la porta alla democrazia stessa.
Le alternative –al plurale–, sempre che siano assunte attivamente dalle società in movimento, raccogliendo sempre più contributi da diverse regioni del pianeta, si proiettano con forza a molte latitudini: il pluriverso è una realtà.
Insistiamo fino alla nausea: non si tratta di promuovere “alternative di sviluppo”, ma piuttosto “alternative allo sviluppo”. Ed è lì che emerge il Buen Vivir come stile di vita che può diventare realtà da ora in comunità e territori concreti, dove è necessario partire da una profonda distribuzione della ricchezza, nonché muoversi verso pratiche di produzione e consumo sostenibili, costruendo scenari di presa di decisioni orizzontali.
Tale proposta non è un salto nel vuoto, ma è portatrice di molteplici esperienze. Questo sforzo di molteplici trasformazioni deve focalizzarsi sulle "sostanze”, per dirlo con Ana Esther Ceceña, prima che nelle forme, siano esse istituzioni o normative. Questa è, in definitiva, una grande sfida per l’Umanità perché, secondo le parole di questa intellettuale messicana:
"All’interno del capitalismo non esiste una soluzione per la vita: al di fuori del capitalismo c’è incertezza, ma tutto è possibilità. Nulla può essere peggio della certezza dell’estinzione. È tempo di inventare, è tempo di essere liberi, è tempo di vivere bene."
Si tratta, quindi, di promuovere alternative praticabili purché il Buen Vivir – in chiave di pluriverso – sia concepito a partire da un approccio libero da pregiudizi, assunto come proposta esistente e in costruzione, che consenta l'articolazione di elementi di dignità nella vita anche in queste fasi così complesse.
Un punto cruciale. Non c’è altra via, se l’Umanità vuole uscire dalla trappola in cui si trova, che ripensare il suo rapporto con la Natura. Gli esseri umani non possono sostenersi da soli
‒in senso figurato‒ ai margini della Natura e su di essa, tanto meno continuare nel vano tentativo di dominarla. Dobbiamo incontrarci con lei. E quindi occorre urgentemente fermare il suo sfruttamento senza freni. Il nostro rapporto con la Madre Terra esige rispetto, responsabilità e reciprocità, a partire dal principio base della vita, la relazionalità: tutto è in relazione con tutto. Insomma, questo compito, riconoscendo che l’Umanità è Natura, ci richiede il recupero e la costruzione di rapporti di armonia ed equilibrio con la Natura, che sempre hanno ragione di essere.
Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo cambiare la storia dell’Umanità, quella storia del dominio dell’uomo – sì, al maschile – sulla Natura. Per secoli il rapporto tra società e ambiente è stato improntato all’utilitarismo e allo sfruttamento delle risorse. I tentativi di subordinare la Natura – rafforzati dalle idee di progresso e “sviluppo” tipiche della Modernità – sono ciò che alla fine hanno generato tutti i tipi di pandemie che puntano verso una terribile catastrofe socio-ambientale.
Tuttavia, come spiegato nelle pagine precedenti, non si può attendere il superamento del capitalismo per rendere il Buen Vivir una realtà. La sfida è trasformare la lotta per superarlo in un esercizio dello stesso Buen Vivir, caricandolo di soddisfazione e di gioia nella sua realizzazione, riempiendolo di tutti gli elementi comunitari, creativi e ricreativi possibili. Parallelamente saranno necessarie l’autosufficienza, l’autodeterminazione e l’interdipendenza dei processi sociali, composti da molteplici interazioni e logiche complesse che si retroalimentano in forma permanente.
Abbiamo bisogno di società in cui le idee di avidità, profitto e proprietà perdano significato: società il cui fine supremo è una vita piena, degna e giusta. E ciò richiede la tessitura di reti di strategie quanto più ampie possibili, di costruzioni di alternative e lotte di resistenza, intendendo che dobbiamo affrontare simultaneamente il patriarcato/machismo, la colonialità/razzismo, così come lo sfruttamento del lavoro e della Natura, affrontando tutte le ingiustizie e le disuguaglianze esistenti. Tale compito, lo segnaliamo categoricamente, esige l'apertura di tutti i dialoghi e gli intercambi possibili, senza cadere nella trappola di inutili romanticismi o di volgari e impossibili imitazioni, nonché di posizioni dogmatiche a bloccare il dialogo e la costruzione di alternative.
Il Buen Vivir, dunque, senza dimenticare o manipolare le sue origini ancestrali e le sue potenzialità comunitarie, può essere una piattaforma per discutere, concertare e persino rispondere agli effetti devastanti del collasso climatico e della crescente emarginazione e violenza sociale nel mondo. Questa possibilità sorge nel mezzo di una crisi multifacetica – sociale, economica, ecologica, politica, sanitaria, insomma di civiltà – che colpisce sia gli esseri umani che quelli non umani.
Cercare di risolvere questo enigma non sarà facile. Per cominciare, bisogna riscoprire “la dimensione utopica del futuro”, come proponeva negli anni ottanta del XX secolo il peruviano Alberto Flores Galindo (1989). Tale dimensione utopica deve rafforzare sia gli approcci e le valorizzazioni concettuali di una vita comunitaria, sia i valori fondamentali della democrazia, in chiave radicale. E tutto ciò, come è stato più volte sottolineato, implica un ricongiungimento politico-culturale con la Natura.
In breve, il Buen Vivir apre le porte alla costruzione di progetti di emancipazione, dove si pone fine a ogni tipo di sfruttamento, sia degli esseri umani che della Natura. Progetti che, sommando tante storie di lotte di resistenza e di proposte di cambiamento, attingendo soprattutto ad esperienze locali, a cui vanno aggiunti contributi provenienti da diverse latitudini, si posizionano come punto di partenza e processi di azione per costruire democraticamente società sostenibili in tutti gli ambiti.
(2. Fine)
* Alberto Acosta è un economista e professore universitario ecuadoriano, docente di “teorie dello sviluppo” in diverse università dell'Ecuador e di altri paesi. Giudice del Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura (dal 2014). Ministro dell'Energia e delle Miniere (2007), presidente dell'Assemblea Costituente (2007-2008), candidato alla Presidenza della Repubblica (2012-2013). Compagno nelle lotte dei movimenti sociali dentro e fuori il suo Paese. Autore di diversi libri.
** Originale in spagnolo su Revista Wirapuru, 9, año 5, Primer semestre 2024, pp.1-17
*** Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network
Note:
3) Lavoro collettivo a fini di utilità sociale e di carattere reciproco [NdT].
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