*** Prima Parte ***

Sfide, successi e limiti del Buen Vivir. Una proposta dalle molte potenzialità/1

di Alberto Acosta

Il Buen Vivir/Sumak Kawsay costituisce un passo qualitativo superando il concetto tradizionale di “sviluppo” e i suoi molteplici sinonimi, smantellando la religione del “progresso”, introducendo una visione diversa, tra l’altro molto più ricca di contenuti e più complessa. Il Buen Vivir è un’opportunità per costruire collettivamente una nuova forma di vita. Non è un ricettario plasmato in una serie di articoli costituzionali. Il Buen Vivir, in sostanza, è un processo di vita che nasce dalla matrice comunitaria di popoli che hanno vissuto o vivono tutt'ora in armonia con la Natura. Questi popoli originari non sono premoderni, né arretrati. I loro valori, esperienze e pratiche sintetizzano una civilizzazione viva, capace di affrontare una Modernità sempre coloniale. Con le loro proposte immaginano un futuro diverso, che già alimenta dibattiti globali. Il Buen Vivir, quindi, cerca di raccogliere i principali valori, alcune esperienze e - soprattutto - determinate pratiche, che esistono nelle Ande e in Amazzonia, così come in altri luoghi del pianeta.
 

“…ci sono alcuni chiarimenti sul concetto di Sumak Kawsay (Buen Vivir, NdA). A partire dalle nostre esperienze, possiamo dire che è un concetto che costituisce la spina dorsale del sistema comunitario. È una costruzione collettiva basata sulle forme di convivenza degli esseri umani, ma prima di tutto in co-esistenza con altri elementi vitali, dove si costituiscono le condizioni armoniche tra gli esseri umani, la comunità umana e le altre forme di esistenza in seno a Madre Natura. Secondo la nostra comprensione, la vita è possibile finché esiste la relazione e l’interazione di tutti gli elementi vitali”

                                                                                                                             Luis Macas Ambuludi, leader indigeno ecuadoriano


Introduzione

Quando parliamo di Buen Vivir proponiamo, in prima linea, una ricostruzione partendo dalla visione utopica del futuro di opzioni di vita sostenibili esistenti in diversi popoli originari di Abya-Yala (Nostra America). Questo approccio non nega altri contributi provenienti da varie parti del pianeta, molti dei quali spiritualmente legati nella loro lotta per una trasformazione della civiltà ispirata da visioni che puntano verso l’espansione, la costruzione e la ricostruzione del pluriverso (Kothari et al., 2019).

Il Buen Vivir, proveniente dai popoli nativi di Abya-Yala, emerse con grande forza all'inizio del secolo. In un paio di paesi è stato costituzionalizzato: anche alcune politiche pubbliche furono impostate verso questo obiettivo. E così, in molti casi senza essere adeguatamente comprese, le loro impostazioni si sono diffuse in tutto il pianeta. Essendo un'esperienza, più che un concetto, la sua potenzialità è enorme, nella misura in cui sfugge ai margini imposti dalle epistemologie della Modernità. Ci permette di leggere il mondo da altre prospettive attraverso un prisma diverso e, tra l’altro, molto più complesso. Allo stesso tempo, ci offre strumenti per dare impulso a processi che permettono di trasformare il mondo, non tanto perché sia ​​essenziale costruire società umane e naturalmente sostenibili, ma perché è - forse - una delle poche possibilità che ha l’umanità per sopravvivere nel mezzo dell’attuale collasso sociale ed ecologico.

Deve essere chiaro fin dall’inizio che non si tratta semplicemente di incorporare un concetto/strumento/orizzonte motivante per provare a fare le cose in modo migliore, cercando semplicemente di risolvere i gravi problemi che affliggono il mondo all’interno dell’attuale civiltà, quella del capitale. In sostanza, il Buen Vivir (Acosta, 2013; Hidalgo et al., 2014; Albó, 2009; Oviedo, 2011; Estermann, 2015; Gudynas, 2014; Giraldo, 2014; Cortez, 2019; Houtart, 2011) propone un passo qualitativo trascendentale nel permettere di immaginare una transizione con portata di civilizzazione. E da questa prospettiva il Buen Vivir propone un'alternativa allo “sviluppo” proprio quando mette in discussione l'essenza stessa del “progresso”.

Nonostante queste osservazioni iniziali sulle sue enormi potenzialità, il Buen Vivir, in Ecuador, o il Vivir Bien, in Bolivia, a volte sembra essere rimasto intrappolato in un complesso labirinto, dove viene trascinato dalla politicheria, il dogmatismo e la paura. Il compito, quindi, è cercare di identificare quelle minacce che cercano di ingabbiarlo e addirittura di “civilizzarlo”, mentre si identificano e promuovono le sue potenzialità.
 

Alcune delle principali minacce al Buen Vivir

Dopo la sua emergenza in campo politico, che ne ha permesso la costituzionalizzazione in Ecuador e Bolivia, il Buen Vivir ha subito diverse interpretazioni, molte manipolazioni, e ha perso parte del suo fascino iniziale. A questa conclusione si può arrivare se leggiamo attentamente l’evoluzione che ha vissuto il Buen Vivir, come questione discussa a livello di politica contingente. Le minacce che cominciavano ad emergere venivano opportunamente segnalate (Acosta, 2012).

Così, già nel dibattito costituente di questi paesi, prevaleva – anche tra i membri dell’Assemblea che ne approvarono l’inserimento nelle rispettive Costituzioni - la non conoscenza, rispetto al cambiamento proposto. Molte persone e perfino organizzazioni che hanno incoraggiato questo cambiamento non hanno avuto ben chiara la portata del passo compiuto a livello costituzionale. Ovviamente il Buen Vivir è stato rifiutato da chi, comprendendo ciò che quell’esperienza sintetizza, non poteva accettare che i propri privilegi fossero messi a rischio. Una visione del mondo dissimile da quella occidentale, che nasce da radici comunitarie non capitaliste, esistenti non solo nel mondo andino e amazzonico, genera conflitti e rotture. Rompe con la logica antropocentrica sia del capitalismo che dei vari socialismi realmente esistenti fino ad oggi. Il Buen Vivir richiede di dissolvere il concetto tradizionale di “progresso”, soprattutto nella sua deriva produttivistica, e di “sviluppo”, inteso come un’unica alternativa. E tutto ciò genera paura.

Non avendo assunto quel potenziale di cambiamento di civilizzazione, sorse una prima grande minaccia. Così, mantenere il Buen Vivir nel terreno del “progresso” e dello “sviluppo” costituiva un’aberrazione. Le definizioni interessate e compiacenti, discorsive nella loro formulazione, rifiutarono e rifiutano tutt'ora la sua emergenza nella prospettiva delle culture ancestrali e, quindi, non capiscono cosa sia realmente in gioco. Questa tendenza generalizzata negli ambiti governativi di Ecuador e Bolivia ha portato addirittura ad una temporanea visione di partito, cioè quasi come un'intestazione che identificasse quei governi. Nella pratica di tale gestione governativa, Buen Vivir o Vivir Bien si è trasformato in un semplice dispositivo di potere e in uno strumento di propaganda, utilizzato per controllare e addomesticare le società (Cortez, 2019). Lungo questo percorso, il Buen Vivir, come è successo in Ecuador, è diventato addirittura un semplice cognome di “sviluppo”: lo “sviluppo del buen vivir” ovvero non si esitava a parlare di “benessere del Buen Vivir”, cercando di mantenerlo nel labirinto della Modernità. Alla fine, nei due paesi in cui il Buen Vivir o Vivir Bien è stato costituzionalizzato, si è registrata una sorta di “vampirizzazione” del suo contenuto profondo, come ha opportunamente notato Maristella Svampa (2016).

Basti vedere la quantità di documenti e programmi ufficiali che annunciavano il Buen Vivir in Ecuador e Vivir Bien in Bolivia, inseriti nelle linee guida pubblicitarie ufficiali dei rispettivi regimi progressisti, lontani da ciò che il concetto rappresenta in realtà. In pratica in quei paesi si manteneva una continuità di forme di consumismo, produttivismo ed estrattivismo: in breve, lo 'sviluppismo', di fatto. La situazione ha assunto aspetti addirittura aberranti quando, come successo nel caso ecuadoriano, l’estrattivismo della mega-estrazione mineraria è andato approfondendosi, presentato apertamente come “Estrazione mineraria per il buen vivir”.

Un altro punto risiede nel non comprendere adeguatamente le sue origini. È vero che è difficile tradurre come Buen Vivir quelle nozioni indigene di sumak kawsay, suma qamaña, teko porã o ñandareko, per citare solo un paio di denominazioni nelle diverse lingue dei popoli nativi della nostra regione.1 Una traduzione semplicistica e un'appropriazione di ciò che realmente significa buen vivir, conduce alla deformazione del suo spirito, il che incoraggia la perdita del suo potenziale di trasformazione. Per questo risulta riprovevole anche solo immaginare il Buen Vivir a partire da visioni “teoriche” ispirate da illusioni o utopie personali. Ciò può riprodurre deliri civilizzatori e persino colonizzatori. Che ci piaccia o meno, anche le utopie a cui possiamo pensare senza addentrarci nell'essenza del Buen Vivir, trascinano difetti della società in cui oggi viviamo. Ciò di cui c'è bisogno è la sintonizzazione con quello che potremmo considerare il mondo della 'indigenità', come lo intendeva Aníbal Quijano (2014).

Anche le letture eurocentriche, provenienti dalle epistemologie della Modernità, producono ostacoli all’accettazione del Buen Vivir. Ricordiamo le varie critiche al Buen Vivir – anche ai Diritti della Natura – provenienti da settori tradizionalmente conservatori o anche dalla sinistra eurocentrica, nella quale si avventurano accademici ancora intrappolati nelle grinfie della Modernità. Non accettano il Buen Vivir, poiché non si adatta alle loro esigenze e condizioni modernizzatrici. Queste critiche tentano di minimizzare e perfino di marginalizzare quelli che potrebbero essere considerati saperi subalterni, invocando la superiorità delle letture della Modernità. Da una lunghissima lista di produzioni critiche su questo stile, si possono consultare - come esempio specifico - gli articoli di José Sánchez Parga (2011), per l'Ecuador o di Felipe Mancilla (2011), per la Bolivia: testi che hanno dato luogo a un'interessante dibattito da cui si può estrarre la forte risposta e conclusione di Eduardo Gudynas (2013, p.204):

"Non ha senso criticare posizioni parzialmente riviste, senza entrare nei dettagli della loro diversità interna o invocando convenzionali contesti di giudizio. A volte prevale il disagio dei 'modernisti', con reazioni a volte affettive, che rifiutano il Buen Vivir per le sfide che impone al pensiero convenzionale. Per uscire da questo disagio manca ancora, soprattutto da parte dell’Occidente, l’umiltà di comprendere di cosa si discute nel Sud americano."

Non c’è dubbio che il colonialismo della conoscenza ha il suo peso, e che peso. Anche il sincretismo è rischioso, poiché potrebbe creare ibridi inservibili anziché nuove opzioni di vita. L’assimilazione del Buen Vivir, ignorando la sua essenza come proposta di cambiamento di civilizzazione, non solo è stata registrata a livello governativo nei due paesi sopra menzionati, ma è servita per campagne opportunistiche e per azioni semplicistiche. Ciò è stato sperimentato, ad esempio, quando si è tentato di incorporare elementi del buen vivir nella costruzione di indicatori della felicità. Un altro esempio: con le Nazioni Unite si è cercato di incorporare il Buen Vivir nella logica della green economy, per ora uno degli ultimi slogan con cui viene commercializzato il capitalismo (UNEP, 2013). In Germania, per citare un caso paradigmatico, il governo di Angela Merkel, negli anni 2014 e 2015, si è promosso un gran dialogo cittadino volto a discutere del Buen Vivir (Gutes Leben), come tentativo volto a rinnovare l’idea di benessere, garantendo, come affermò la stessa cancelliera Merkel, che “la Germania continui ad essere quella che era”. Ma non tutto comporta un carico preoccupante: parallelamente a questa campagna di governo, in questo paese europeo, da diverse istanze della società civile si sono registrati e si registrano ancora vari e interessanti processi per pensare il Buen Vivir cercando di recuperarne gli elementi profondi adattandoli alle proprie realtà.

La cosa grave è che, alla fine, potrebbe anche succedere che, quando il Buen Vivir diventa inafferrabile perché mal concepito, finiamo per dargli dei cognomi: Buen Vivir sostenibile, Buen Vivir con parità di genere, Buen Vivir endogeno, Buen Vivir umano, ecc. Lo abbiamo già fatto con lo “sviluppo”, nella nostra permanente desolazione nel vedere che le molteplici teorie costruite per differenziarlo da ciò che ci metteva a disagio non funzionavano: un esercizio che in definitiva risulta inutile finché si trascura l’analisi approfondita del concetto stesso di “sviluppo”. Altrettanto dannoso è cercare di definire dogmaticamente cosa significhi Buen Vivir e sostenere questa posizione partendo da letture ortodosse. Questo problema non è minore. Abbiamo visto come si sia tentato di creare rinnovati purismi. Pertanto è fondamentale chiudere la porta a posizioni dogmatiche e intolleranti. Non possono esserci “commissari politici” del XXI secolo incaricati di prendersi cura della purezza di un dogma. E molto meno credere che invocando il Buen Vivir come se fosse un 'abracadabra', i problemi si risolveranno. Minacce e rischi sono sempre inevitabili. Riconoscendo questa realtà, le critiche saranno sempre benvenute. Solo così eviteremo di assumere il ruolo di meri applicatori di procedimenti e ricette, impedendo allo stesso tempo l’emergere di caudillos e avanguardie illuminate che si autoinvestano come promotori del Buen Vivir, insomma interpreti della volontà politica collettiva e delle soluzioni necessarie. Con grande umiltà e grande responsabilità dobbiamo assumerci il compito di comprendere l'essenza del Buen Vivir.
 

Come recuperare l'essenza trasformatrice del Buen Vivir?

Senza aver esaurito l’analisi delle minacce che cercano di intrappolare il Buen Vivir nel complesso labirinto della Modernità, si tratta di non arrendersi e non cedere questo concetto a coloro che lo utilizzano come strumento di potere a proprio vantaggio, oltre a non dare per scontato che la sua validità sarebbe scaduta a causa delle manipolazioni subite. Un primo passo sta nel recuperare il Buen Vivir nella chiave di una diversità che apra le porte a molteplici proposte provenienti da realtà diverse. Quindi, per evitare un concetto unico e indiscutibile, sarebbe meglio parlare anche di 'buenos vivires' o di 'buonos convivires'. Cioè, buona convivenza degli esseri umani in comunità, buona convivenza di comunità con altre comunità, buona convivenza di individui e comunità nella e con la Natura. Per salvare ciò che realmente implica il Buen Vivir, che non può essere semplicisticamente associato al “benessere occidentale”, dobbiamo sapere da dove viene il Buen Vivir. Ciò implica recuperare i saperi e le culture dei popoli originari, senza negare altri contributi che assicurino la cristallizzazione dei 'buenos convivires'.

Ricordiamo che il Buen Vivir sintetizza realtà concrete e anche visioni utopistiche del futuro: siamo di fronte a un processo permanente di costruzione e ricostruzione. Ciò permette di chiarire un malinteso comune con il Buen Vivir, quando lo si disdegna o minimizza come mera aspirazione di ritorno al passato o misticismo indigenista (un rischio latente, peraltro). Accettiamo che il Buen Vivir esprime esperienze e costruzioni che esistono da molto tempo e che sono ancora in marcia proprio in questo momento, dove saperi e sensibilità interagiscono, si mescolano e si ibridano. Azioni e pratiche di vita che condividono approcci simili, come la critica pratica allo “sviluppo” o la ricerca di altre relazionate con la Natura.

Tutto ciò implica di certo il dare adeguato valore ai saperi considerati ancestrali, assumendo la complessità di definirne l’ancestralità. Per fare ciò è necessario costruire un ponte di relazione rispettoso tra saperi e conoscenza. Tutto ciò ci invita a decolonizzare la storia, così come a superare gli stupidi sensi comuni e le immagini fuorvianti della Modernità. Rompere le sue numerose e diverse camicie di forza, sia reali che simboliche, è un compito urgente. Dobbiamo anche recuperare il passato come parte di una continuità storica con una proiezione del futuro, come un processo legato alle lotte di resistenza e di riesistenza di fronte agli infiniti processi di conquista e colonizzazione. In breve, ciò che conta è recuperare, senza idealizzazioni, il progetto collettivo di futuro di quelle comunità intrinsecamente legate alla vita, in particolare le comunità indigene con la loro chiara continuità rispetto dal loro passato futuristico. E lo faremo promuovendo tutti i dialoghi della conoscenza possibili e necessari.

Ciò invita ad assumere, tra le altre questioni fondamentali, anche la discussione sul potenziale delle tecnologie, della scienza e della conoscenza, mettendole al servizio della vita e non dell’accumulazione del capitale. Sia chiaro, non è in gioco alcuna proposta di tipo luddista, cioè contraria ai progressi della conoscenza umana. Qui incorporiamo un altro elemento chiave. Le popolazioni indigene di Abya-Yala non sono le uniche portatrici di queste proposte. Il Buen Vivir – la sua essenza – è stato conosciuto e praticato in diversi periodi e regioni della Madre Terra, anche se con nomi diversi. Pertanto, il Buen Vivir può essere visto come parte di una lunga ricerca di alternative di vita, forgiate nel calore delle lotte dell'umanità per la sostenibilità ambientale e anche per rendere la reciprocità sociale una realtà. L'importante è riconoscere che nel mondo esistono memorie, esperienze e pratiche di soggetti comunitari che praticano stili di vita non ispirati al tradizionale concetto di “progresso”. È urgente, quindi, recuperare queste pratiche ed esperienze, molte delle quali provenienti dall’indigeneità, assumendole così come sono, senza romanticizzazioni. Ciò ci porta a evidenziare che questo tipo di approcci e proposte sono simili in molti aspetti, ma non necessariamente uguali in tutto. Si tratta di valori, esperienze e, soprattutto, pratiche esistenti in diversi periodi e regioni della Madre Terra. Vale la pena evidenziare il comunitarismo dello zapatismo, dell'ubuntu (senso comunitario: una persona è tale solo attraverso altre persone e altri esseri viventi) in Africa o swaraj (democrazia ecologica radicale) in India. Ecco che emergono i kyosei anche in Giappone o addirittura le cooperative di marca (Markgenossenchaften) degli antichi germanici: un tema che interessò Karl Marx negli ultimi anni della sua vita (Saito, 2022). Allo stesso modo, si potrebbero incorporare le potenti riflessioni sull’autosufficienza degli svadeshi, che comprendono gran parte del pensiero di Gandhi (1990). Si potrebbero citare anche le proposte di convivialità di Ivan Illich (1973). Tra i tanti altri approcci al tema ricordiamo anche la sobrietà felice di Pierre Rahbi (2013). Sebbene possa essere considerato un pilastro della discussa civilizzazione occidentale, in questo sforzo collettivo di ricostruire/costruire un rompicapo di elementi a supporto di nuovi modi di organizzare la vita, si potrebbero anche recuperare alcuni elementi della “buona vita” di Aristotele. Il compito sarebbe quello di costruire ponti tra loro.

Facendo un ulteriore passo avanti, non è solo cruciale mettere in discussione il significato storico del processo emerso dall’idea di “sviluppo”. Si devono radere al suolo gli obiettivi, le politiche e gli strumenti con cui si è cercato invano il benessere di tutti, tanto promesso dallo “sviluppo”. È inoltre necessario riconoscere che i concetti e gli strumenti a disposizione per analizzare lo “sviluppo” non sono più utili. Sono conoscenze e strumenti che mirano a convincere che il modello di civilizzazione legato allo “sviluppo” e al “progresso” è naturale e inevitabile. Una grande falsità. È importante tenere presente che il benessere dei paesi che si presuppongono “sviluppati” si spiega con la logica della “società dell’esternalizzazione”, cioè che ai livelli di benessere di pochi abitanti del pianeta si arriva a prezzo della povertà di altri paesi e della distruzione della Terra: “Avere tutto e volere ancora di più, preservare il proprio benessere a costo di negarlo agli altri: questa è la massima delle società sviluppate, anche se  nell'ambito pubblico si cerca di dissimulare tutto ciò” (Lessenich, 2019).

Ciò che interessa è smantellare il concetto stesso di “sviluppo”, una entelechia 2 che regola e governa la vita di gran parte dell’Umanità, al quale perversamente è impossibile arrivare ad una realizzazione. E non solo questo. In questo impegno per "svilupparsi", si è sacrificato notevolmente la possibilità di seguire strade proprie, diverse dalla Modernizzazione e dal “progresso”, causa di tante violazioni della vita, adottato nel mondo quasi come una religione. Pertanto, il Buen Vivir non può essere analizzato con gli strumenti e la logica dell’analisi tradizionale. Lo abbiamo già detto, questo è un altro degli argomenti utilizzati per negare l'esistenza del Buen Vivir, perché non può essere spiegato o misurato con questi strumenti, oppure perché si presume che la dimensione comunitaria nel mondo indigeno sia scomparsa. Questa sarebbe un’altra forma di razzismo intellettuale, oltretutto. Allo stesso modo, sarebbe quanto meno sbagliato che queste riflessioni sul Buen Vivir, per quanto buone possano essere le intenzioni, venissero assunte come ricette indiscutibili o applicabili in ogni momento e luogo. Non ci sono ricette. Non ci sono modelli. Le buone intenzioni non bastano. Il Buen Vivir non può essere copiato e riprodotto meccanicamente in ogni tempo e luogo. È essenziale, quindi, discutere quale tipo di indicatori richiede il Buen Vivir. Questo compito è rischioso, soprattutto inutile e perfino dannoso, senza prima precisare i fondamenti del Buen Vivir. Il volontarismo potrebbe creare nuovi tecnicismi. Allo stesso modo, sarebbe pericoloso e inutile parlare di Buen Vivir senza poter identificare/valutare/misurare i progressi o gli arretramenti. Per essere coerenti, questi possibili indicatori dovrebbero rispondere al mondo delle buone convivenze, cioè dovrebbero essere diversi e molteplici, specifici per ogni realtà. Si tratta di un compito non secondario, poiché può condurci su terreni instabili, che finiscono per renderci impossibile l'uscita dalla trappola concettuale della Modernità.

Ovviamente il concetto di Buen Vivir non va confuso con quello di 'vivere meglio', poiché quest’ultimo implica un progresso materiale illimitato. Il 'vivere meglio' ci spinge a una permanente competizione con gli altri – con i quali confrontiamo la nostra vita – per produrre sempre di più, in un processo di accumulazione materiale senza fine. Questo 'vivere meglio' incoraggia la competizione, non l’armonia o l’equilibrio. Ricordiamoci che, affinché alcuni possano vivere meglio, milioni di persone hanno dovuto e devono vivere male, mentre la Natura viene sistematicamente distrutta. Il Buen Vivir non implica la ripetizione di un simile processo di esponenziale e permanente accumulazione materiale. Inoltre, per comprendere il Buen Vivir, che non può essere semplicisticamente associato al benessere occidentale, dobbiamo recuperare altre cosmovisioni, che non possono essere semplicemente copiate e trasformate in nuovi dogmi. Il compito non è facile. Non è possibile ripetere modi di vita socialmente ed ecologicamente insostenibili. Dobbiamo cercare e praticare opzioni di vita degne e sostenibili che non rappresentino la riedizione – spesso caricaturale – dello stile di vita imperiale (Brand e Wissen, 2021) che si diffonde nel mondo dai centri del capitalismo metropolitano e che si riproducono, deteriorando continuamente le condizioni di vita della maggioranza della popolazione e distruggendo la Natura.

Sono necessarie risposte politiche che rendano possibile un’evoluzione guidata dalla vigenza della cultura dello stare in armonia e non della civilizzazione del vivere meglio (Oviedo, 2011). Si tratta di costruire società solidali e sostenibili, nel quadro di istituzioni che garantiscano una vita dignitosa. Il Buen Vivir punta a un’etica del 'sufficiente' per tutta la comunità e non solo per i singoli individui.
Detto questo, facciamo un ulteriore passo avanti.
 

Avanzare verso cambiamenti strutturali e profondi

Qui c’è una consapevolezza sempre più generalizzata della necessità di cambiamenti concettuali strutturali in tutte le dimensioni della vita. Per raggiungere questo obiettivo, i processi sociali dovrebbero muoversi verso visioni biocentriche, ecocentriche o socio-biocentriche, anche se in realtà si tratterebbe di una rete di relazioni armoniose prive di qualsiasi centro. Ciò implicherebbe che l’economia, la politica, la cultura, ecc., debbano essere orientate verso e mediante pratiche comunitarie, non solo individualiste. Si tratta, quindi, di proposte basate sulla pluralità e sulla diversità, non unidimensionali o monoculturali. Questa transizione dovrà essere costruita soprattutto dal basso – dai quartieri e dalle comunità – come spazio di trasformazione effettiva, perché è da lì che dobbiamo non solo fare pressione sugli Stati, ma è da lì che ci sarà da trasformare strutturalmente gli Stati. 

La complessità di questo sforzo è evidente. Dopo le esperienze vissute in Bolivia ed Ecuador, dove la manipolazione del Buen Vivir da parte dei governi “progressisti” è stata molto evidente, risulta molto difficile immaginare una strategia promossa principalmente dall’alto, dallo Stato. Accettiamo che lo Stato – quello che conosciamo – sia incapace di affrontare questioni veramente fondamentali, come ripensare il mondo del lavoro dalle sue radici, dando il via alla sua distribuzione nel passaggio ad un altro tipo di società, dove il tempo libero creativo sia un diritto e non un business. In realtà, nel mondo del Buen Vivir, il lavoro e l'ozio/tempo libero, come li conosciamo, devono scomparire e confluire in altre relazioni, anche di celebrazione della vita degna (Acosta, 2024). Anche riprendendo Karl Marx dai Grundrisse (1857-1861) possiamo affermare che “una nazione è veramente ricca quando invece di dodici ore si lavora sei ore”, poiché non è “il tempo di lavoro a essere la misura della ricchezza, ma il tempo libero".

In sintesi, Il Buen Vivir è una proposta di civilizzazione che propone un orizzonte di uscita dal capitalismo, la civilizzazione dominante. Tuttavia, ribadiamo che bisogna accettare che le visioni dell’indigenità non sintetizzano l’unica ispirazione per promuovere il Buen Vivir. Questa (ri)costruzione di alternative di civiltà può essere supportata anche da altri principi filosofici, che potrebbero essere aggiornati purché questi approcci superino le visioni antropocentriche dominanti e accettino, in particolare, che debba esserci una vita dignitosa per tutti gli esseri umani e non umani. Qui, senza entrare nei dettagli, ciò che salviamo è la possibilità di assumere il Buen Vivir come un concetto aperto, riconoscendo le sue profonde radici indigene, a partire dalle quali possiamo costruire altri mondi, senza chiuderci di fronte a un dibattito ampio e arricchente e di fronte a un dialogo con altri saperi e conoscenze. A questo punto si possono inserire tutti i dibattiti post-sviluppo, post-estrattivisti e non solo, quello della decrescita (che mette in discussione con ampia ragione la crescita economica), determinati a superare la Modernità. 

Con il Buen Vivir e la sua visione di molteplici armonie ed equilibri non si propone un’opzione millenarista, carente di conflitti. In realtà, propone una società che ricerchi armonie ed equilibri, che non esasperi i conflitti, come accade con la civiltà del capitale, basata sull’avidità, sull’accumulazione infinita, sulla concorrenza permanente tra individui che agiscono gli uni contro gli altri. Pertanto, per uscire dal labirinto della Modernità sarà necessario costruire o ricostruire tante utopie quante saranno necessarie. La sua possibilità e fattibilità dovranno essere possibili, dando il via a processi di transizione coerenti con gli obiettivi proposti. Il compito, in breve, è inquadrato nel post-capitalismo come orizzonte, per cui non è sufficiente un orizzonte post-neoliberista.


(1. Continua)

 Alberto Acosta è un economista e professore universitario ecuadoriano, docente di “teorie dello sviluppo” in diverse università dell'Ecuador e di altri paesi. Giudice del Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura (dal 2014). Ministro dell'Energia e delle Miniere (2007), presidente dell'Assemblea Costituente (2007-2008), candidato alla Presidenza della Repubblica (2012-2013). Compagno nelle lotte dei movimenti sociali dentro e fuori il suo Paese. Autore di diversi libri.
** Originale in spagnolo  su Revista Wirapuru, 9, año 5, Primer semestre 2024, pp.1-17
*** Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network


Note: 

1) Le espressioni più note di Buen Vivir o Vivir Bien si riferiscono a concetti esistenti nelle lingue indigene dell'America Latina, tradizionalmente emarginate, ma non scomparse: sumak kawsay o hay kawsay (in Kichwa), suma qamaña (in Aymara), ñande reko o teko porã (in guaraní), pénker pujústin (Shuar), shiir waras (Ashuar) tra le altre. Nozioni simili esistono in altri popoli indigeni, ad esempio: Mapuche del Cile, Kyme Mogen; Kuna di Panama, balu wala; Miskitos in Nicaragua, laman laka; così come altri concetti correlati nella tradizione Maya del Guatemala e del Chiapas del Messico.

2) Nella filosofia aristotelica, lo stato di perfetta attuazione raggiunto dalla sostanza [NdT].


Riferimenti bibliografici:

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05 settembre 2024 (pubblicato qui il 23 settembre 2024)