

Gli economisti ortodossi si sono preoccupati molto
di fare esposizioni eleganti di problemi minori,
che distolgono l’attenzione dei loro discepoli
dalle realtà spiacevoli del mondo moderno,
e (quindi) lo sviluppo di argomentazioni astratte
è andato oltre la possibile verifica empirica.
Joan Robinson
Sebbene nessuna forma di vita – tanto meno quella umana – possa considerarsi al di fuori – o ai margini – della natura, le “scienze economiche” hanno assegnato al mondo naturale il ruolo unico e passivo di fornire “beni” utilizzabili come materie prime e altri mezzi di produzione utili alla valorizzazione del capitale. Inoltre, quella stessa natura è il luogo designato a depositare i rifiuti del “progresso”. Tale passività imposta alla natura dalle “scienze economiche” – sia ortodosse che eterodosse, e anche molte legate a correnti “critiche”, con eccezioni molto onorevoli – dà carta bianca affinché il mondo naturale venga banalizzato e il suo dominio venga perpetuato.
A tal proposito, vale la pena ricordare che la logica perversa della mercificazione della natura è antecedente al capitalismo. Ciò è visibile sia nella mercificazione dei beni naturali che degli stessi esseri umani, che non solo ha preceduto l’ascesa della civiltà del capitale, ma l’ha resa possibile. In ogni caso, nel capitalismo questa mercificazione avviene su scala ampliata a causa della crescita economico-materiale permanentemente guidata dal desiderio insaziabile di accumulazione di capitale.
Questa civiltà delle merci deve cambiare e quel cambiamento richiede un’altra economia.
Alcune riflessioni antropocentriche per costruire un’altra economia
Già negli anni settanta del secolo scorso Herman Daly parlava della mania della crescita
economica. Questo stesso economista, in linea con il pensiero di Nicholas Georgescu-Roegen, di origine rumena, grande pioniere dell’economia ecologica, anticipò le minacce incombenti. Daly ha concluso che è necessario pensare alla decrescita, poiché la crescita costituisce una sorta di 'harakiri' per l’umanità.
Kenneth Boulding, un economista che vedeva la Terra come un’astronave, anch’egli in sintonia con Georgescu-Roegen, ha il merito di aver affermato che “chiunque creda che la crescita esponenziale possa durare per sempre in un mondo finito è un pazzo o un economista”. Un’affermazione che porta con sé una grande verità: nessuna economia può crescere in modo permanente violando i limiti biofisici e ancor meno violando la vita degli esseri umani.
Questo punto è centrale: Georgescu-Roegen e Daly hanno introdotto nella discussione gli aspetti ecologici, intendendo l’economia come un sottoinsieme dell’ecosistema. Lo stesso Daly ha evidenziato l’irrazionalità dell’economia convenzionale, che funziona come 'una macchina idiota' che metabolizza le risorse naturali, le trasforma e le esaurisce, spreca e inquina, e deve estrarre sempre più risorse per continuare a funzionare. Questa è la logica dei modelli di accumulazione antropocentrici.
Daly ha individuato anche il punto di saturazione assoluto in termini di consumi. John Maynard Keynes aveva già affrontato questo tema nel 1930: assicurava che il limite assoluto di saturazione sarebbe stato raggiunto nel 2030. La cosa grave è che il potere ha molta forza per sostenere l’idea che con una crescita economica permanente si possa soddisfare modelli di consumo incentrati su bisogni infiniti, senza dubbio una delle promesse – irrealizzabili! – della modernità.
Arricchire questo dibattito con tutte le opzioni aperte è essenziale. Anche dalla critica allo sviluppo è possibile riscattare alcune letture efficaci. Per citare solo un contributo, Manfred Max Neef, Antonio Elizalde e Martín Hopenhayn notano chiaramente che “sviluppo” si riferisce alle persone, non agli oggetti. Pertanto, l’obiettivo dello “sviluppo” è soddisfare i bisogni fondamentali. Ritengono che questa soddisfazione presenti simultaneità, complementarità, compensazioni e che i bisogni siano sempre gli stessi in ogni momento e luogo, oltre ad essere limitati, classificabili e finiti. Nessun bisogno conta più di un altro né esiste un ordine di precedenza fisso tra di loro. I bisogni non sono solo carenze (tipico dell’economicismo). I bisogni impegnano, motivano e mobilitano, quindi sono anche potenzialità e possono anche essere risorse (ad esempio, il bisogno di partecipare è potenziale di partecipazione). La società dovrebbe privilegiare le soddisfazioni sinergiche che comprendano diversi bisogni allo stesso tempo, che non solo nutrano un bisogno particolare, come l’allattamento materno, che non solo garantisce la sussistenza, ma stimola anche l’affetto, l’identità e la protezione del neonato.
Ciò significa che occorrono beni e progetti che coprano i bisogni esistenziali dell’essere, avere, fare e stare, ma anche i bisogni assiologici di sussistenza, protezione, affetto, comprensione, partecipazione, creazione, identità e libertà, senza mai perdere di vista il tempo libero, come noteremo alla fine di questo capitolo.
A questo punto emerge con forza anche la questione del consumo. È necessario prendere “consapevolezza del tempo che dedichiamo al consumo di beni materiali a scapito dei beni relazionali e del tempo che dedichiamo allo svago e al divertimento”, come raccomanda Jürgen Schuldt. Si tratta di “beni relazionali” nella misura in cui contribuiscono al benessere perché suppongono il fare “con altre persone”.
Parallelamente alle riflessioni precedenti, è necessario recuperare la conoscenza della 'indigeneità', per ampliare le questioni dello “sviluppo” e aprire la porta al post-sviluppo e alle alternative ecologiche, nonché a proposte che partano dal paradigma della 'cura', molte in sintonia con la visione delle armonie con la natura che caratterizzano il Buen Vivir.
Di fatto, parallelamente al posizionamento del Buen Vivir, nel campo della discussione politica è maturata ancora di più le critiche accumulate allo “sviluppo”. Tali proposte di origine andino-amazzonica hanno acquisito una forza insolita all’inizio di questo millennio, quando sono entrate nei dibattiti nazionali – in particolare in Bolivia ed Ecuador – in un momento di crisi generalizzata dello Stato-nazione, oligarchico e con radici coloniali. È notevole l’emergere di movimenti indigeni, potenti soggetti politici portatori di una propria visione della vita (anche quando, sfortunatamente, le loro proposte non hanno ispirato le politiche dei governi di quei paesi).
Contro la civiltà del profitto e a favore del pluriverso
Se accettiamo che l’essere umano e i suoi bisogni debbano sempre avere la precedenza – a maggior ragione sul capitale – ma senza mai opporsi all’armonia della natura, base fondamentale di ogni esistenza, siamo destinati a superare ogni civiltà antropocentrica – come quella capitalista – muovendoci verso orizzonti biocentrici. Una nuova civiltà non sorgerà per generazione spontanea né sarà il risultato della gestione di un gruppo di illuminati. Si tratta di una costruzione e ricostruzione paziente e determinata, soprattutto da parte degli ambiti comunitari, che smantellerà diversi feticci, a cominciare da quelli del denaro, del profitto e della crescita economica, tra i tanti considerati verità indiscutibili. Solo così si potranno realizzare cambiamenti radicali, che scaturiranno soprattutto dalle esperienze già esistenti.
Non c’è posto per le “avanguardie” che assumono una leadership privilegiata. Né è un compito che può essere risolto esclusivamente nello spazio nazionale o locale. La conclusione è ovvia: l'azione attraversa tutti gli ambiti strategici possibili, senza trascurare il livello regionale e globale. Per l’America Latina è sempre più urgente un regionalismo autonomo espresso in forme innovative di integrazione, che deve essere pensato in chiave controegemonica, multidimensionale, solidale ed autocentrata, non semplicemente focalizzata sul mercato mondiale.
Insomma, dobbiamo costruire – in chiave di pluriverso – un mondo dove entrino altri mondi – secondo la formula zapatista –, senza che nessuno di loro sia vittima di emarginazione o sfruttamento, e dove tutti gli esseri umani vivano con dignità e in armonia con la natura. Nelle parole del grande intellettuale colombiano Arturo Escobar, abbiamo bisogno di “mondi e conoscenze costruiti sulla base di diversi compromessi ontologici, configurazioni epistemiche e pratiche dell’essere, del conoscere e del fare”.
Una volta accettata questa premessa, si raggiunge un’altra economia attraverso un pensiero sociale che seppellisce le cosiddette “scienze economiche” e la loro pretesa “imperialista” di considerarsi le regine delle scienze sociali. Non esiste un’unica economia uniformatrice e globalizzante.
Pertanto, da questo approccio rinnovato e rinnovatore contribuiamo alla transizione consolidando e costruendo il pluriverso. Questo sforzo inizia criticando e perfino correggendo i difetti di tutte le correnti economiche (non solo dell’ortodossia e dell’eterodossia contemporanee), incorporando elementi di altri pensieri sociali (insegnamenti provenienti da mondi diversi dalla modernità, come il Buen Vivir).
All’interno di questa proposta di sovversione epistemica per la transizione, l’altra economia cercherebbe di ricomporre il “metabolismo socio-naturale” che viene sconvolto dalla logica capitalista nel suo affanno di – nel quadro della concorrenza – valorizzare il capitale. Per raggiungere questo obiettivo, quindi, possiamo imparare non solo da come il pensiero economico ha sfigurato il modo di intendere la natura (fino ad ancorarla in una posizione riduzionista), ma anche dall’esperienza vissuta di coloro che, dai loro rispettivi territori, sono riusciti a sostenere forme di relazionamento sociale alternative al capitalismo.
Riteniamo che far confluire – criticamente – l’analisi della (de)evoluzione della concezione della natura nel pensiero economico (con enfasi sulla ruttura tra la vecchia economia politica, le proposte di Marx e le “scienze economiche”) con l’analisi dei diritti della natura (come diretta opposizione alla mercificazione del mondo naturale) e con l’analisi della conoscenza esperienziale del mondo indigeno mondo e le sue proposte decoloniali ci permetteranno di avanzare nella costruzione di un’altra economia.
Di certo, qui hanno un posto di rilievo quelle letture ecologiste – soprattutto quelle radicali e “profonde” – che hanno guadagnato notevole popolarità negli ultimi tempi, comprese le vigorose denunce e proposte ecofemministe. Utilizzando questo peculiare crocevia di idee, vogliamo motivare – e persino provocare – un futuro dibattito che non solo aspiri a una migliore comprensione dell’unità dialettica umano-naturale che sostiene tutta la realtà, ma che serva anche come strumento di lotta contro la civiltà del profitto e a favore del pluriverso.
Elementi biocentrici per un’altra economia
È evidente che, se mettiamo in pratica i mandati derivanti dai diritti della natura, abbiamo bisogno di un’altra economia, che permetta alle società di essere veramente sostenibili, riconoscendo sempre che le società hanno bisogno della produzione, distribuzione, circolazione e consumo dei beni per riprodurre la propria vita materiale e sociale. Questi processi devono però essere governati da una
razionalità umanista e socio-ambientale, e non dalla razionalità del capitale o dalla razionalità del “progresso”, che è un “uragano” distruttore che deve essere superato, come ha affermato molto chiaramente Walter Benjamin nella sua 'Tesi sulla storia' (1940):
"L’idea di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile dalla rappresentazione del suo movimento come un avanzare attraverso un tempo omogeneo e vuoto. La critica di questa rappresentazione del movimento storico deve costituire il fondamento della critica dell’idea di progresso in generale."
Nel superare il “progresso” e nell'accettare un nuovo approccio senza centri differenti della vita stessa, questa altra economia deve accettare che tutti gli esseri hanno uguale valore ontologico indipendentemente dalla loro “utilità” o dal “lavoro” che richiedono per esistere. Questo sforzo richiede il superamento delle nozioni di valore di scambio e anche di valore d'uso, senza che quest'ultimo venga visto come il punto di arrivo della riflessione economica che si propone. Allo stesso modo, bisogna riconoscere che la vita umana in quanto tale ha uguale valore, indipendentemente dal lavoro che il destino decide per ciascuna. Così risulta urgente riconoscere anche valori non strumentali nella dimensione non-umana.
Ora menzioneremo alcuni dei principi fondamentali di quest’altra economia: solidarietà, reciprocità, complementarità, relazionalità, corrispondenza, responsabilità, integralità (come esseri viventi tutti siamo necessari), sostenibilità, sufficienza (piuttosto che semplice efficienza), diversità e identità culturale, equità. E tutto questo per garantire una vita dignitosa agli umani e ai non umani: un processo immerso in una permanente radicalizzazione della democrazia in tutti gli ambiti dell’attività umana, senza marginalizzare la sfera economica.
In altre parole, un’altra economia – che esige processi di transizioni molteplici in tutti gli ambiti della vita in chiave pluriversale – comporta la costruzione di una nuova civiltà dove l’economia, e la società in generale, ricostruiscano il “metabolismo socio-naturale” da tutti i fronti possibili e necessari.
Per arrivare a una trasformazione della civiltà e a un consapevole nuovo incontro con la natura, garantendo allo stesso tempo la giustizia sociale, risulta fondamentale il passaggio della demercificazione della Pacha Mama o Madre Terra. Questo è un approccio estremo per coloro che vivono lontano dalla natura, in particolare nelle città. Gli abitanti delle città devono capire e assumere che l’acqua, ad esempio, non sgorga imbottigliata spontaneamente nei supermercati né nasce spontaneamente dal sistema di distribuzione municipale.
Da quanto detto consegue che è urgente che gli obiettivi economici siano subordinati alle leggi di funzionamento dei sistemi naturali, senza mai dimenticare il rispetto della dignità umana. L'economia deve garantire la qualità della vita delle persone in armonia con la natura: deve abbattere l’impalcatura teorica che svuota “di materialità la nozione di produzione e (separa) completamente il ragionamento economico dal mondo fisico, completando così la rottura epistemologica che significava lo spostamento dell’idea di
sistema economico, con il suo carosello di produzione e crescita, al mero campo del valore”, come spiega José Manuel Naredo, brillante economista ecologico spagnolo.
Ciò ci ingiunge di impedire l’eliminazione della diversità, minacciata dall’uniformità causata dalle mega-estrazioni, dalle monocolture e dai transgenici, attività che rompono gli equilibri. In ogni caso, non possiamo ignorare che possono esserci “simbiosi arricchenti dell’insieme [dell’ecosistema] che sono proprio quelle che la gestione economica dovrebbe promuovere”, come le 'dehesas' – ricorda Naredo –, o i terrazzamenti sui pendii delle montagne per prevenire l'erosione e avere terreni fertili per l'agricoltura, una pratica ampiamente conosciuta sulle Ande già prima dell'arrivo degli europei, o le pratiche di simbiosi umani-Madre Terra nelle foreste amazzoniche .
Scrivere questo cambiamento storico, cioè il passaggio da una concezione antropocentrica a una (socio)biocentrica, è la sfida più grande per l’umanità se non vogliamo mettere a rischio l’esistenza umana sulla Terra. E teniamo anche presente che “le cosiddette leggi economiche non sono leggi eterne della natura, ma leggi storiche che appaiono e scompaiono”, come scriveva Friedrich Engels in una lettera ad Albert Lange, datata 29 marzo 1865.
In altre parole, per raggiungere l’armonia tra gli esseri umani e tra questi e la natura, l’obiettivo primario è quello di dare il via alla già citata ricostruzione “metabolica socio-naturale”. Per raggiungere questo obiettivo, i sistemi di produzione, distribuzione, circolazione, consumo e riproduzione sociale devono basarsi su solide basi biocentriche, e una delle più notevoli è la non-mercificazione del mondo naturale (e anche la messa in discussione della mercificazione del mondo sociale, che in definitiva deriva dalla sussunzione della vita nel capitale). Questo sforzo richiede un recupero critico dell’ecologia politica e dell’economia politica, sia la vecchia che la nuova.
Liberarci dalla religione della crescita economica permanente
Così, invece di pensare alla natura come uno stock “infinito” di materie prime e un destinatario “permanente” di rifiuti, un’altra economia dovrebbe considerare la sostenibilità e l’autosufficienza dei processi economico-naturali come basi indiscutibili, intese come un'unità o totalità dialettica composta da molteplici interazioni e logiche complesse che si retroalimentano ciclicamente. In questo senso, il feticcio della crescita economica infinita in un mondo finito deve scomparire per lasciare il posto a processi che combinano la decrescita economica nei paesi che oggi fungono da centri capitalisti, mentre la periferia transita verso il post-estrattivismo senza deteriorare le loro condizioni di vita, ma al contrario, migliorandole, smantellando al tempo stesso il feticcio della crescita economica permanente.
In questa simbiosi decrescita-post-estrattivismo, né nel Nord né nel Sud del mondo si dovrebbe ammettere l’esistenza di opulente forme di vita – “stili di vita imperiali” – al costo della dell'impasse vitale degli altri e la distruzione della natura, per dirla con i tedeschi Ulrich Brand e Markus Wissen.
Ciò porta – almeno in una fase di transizione – a ripensare persino il tipo di crescita economica che si desidera venga accettata nel Sud del mondo, tenendo conto che non tutta la crescita è “buona” di per sé, ma che dipende piuttosto dalle realtà e dalle storie sociali ed ecologiche concrete di ciascun processo in ciascun territorio. La lettera aperta al Ministro dell’Economia del Cile, scritta il 4 dicembre 2001 dall’economista cileno e vincitore del Premio Nobel alternativo, Manfred Max Neef, è istruttiva quando afferma:
"Se mi dedico, ad esempio, al depredamento completo di una risorsa naturale, la mia economia cresce mentre lo faccio, ma a costo di diventare più povero. In realtà, le persone non si rendono conto dell’aberrazione della macroeconomia convenzionale che considera la perdita di ricchezza [naturale] come un aumento del guadagno. Dietro ogni cifra della crescita c’è una storia umana e una storia naturale. Se queste storie sono positive, la crescita è benvenuta, perché è preferibile crescere poco, ma crescere bene, che crescere tanto ma male."
È interessante notare che, parallelamente a questo tipo di lettura che mette in discussione la crescita economica, il filosofo giapponese Kohei Saito, recuperando il pensiero degli ultimi anni di vita di Karl Marx, propone una sorta di “comunismo della decrescita” (2022). L’economista John Cajas-Guijarro parla addirittura di un “Marx post-sviluppo”. Secondo l'ecuadoriano, sebbene Marx non abbia mai
considerato il post-sviluppo come tale, nella sua vasta opera si possono trovare intuizioni come una 'dialettica aperta del progresso' come supporto filosofico alla ricerca di “alternative allo sviluppo”; l'ideale comunista come parte della relazione armoniosa tra gli esseri umani; il metabolismo come concetto chiave nel rapporto armonioso tra umanità e natura, come abbiamo notato prima. Sebbene queste intuizioni siano sparpagliate nell'opera di Marx, forniscono elementi che possono contribuire a correnti che condividono riflessioni che mettono in discussione la modernità nella sua essenza. Cajas-Guijarro nota bene “che questa ricerca non è – né aspira ad essere – una cieca apologia dell’opera di Marx, la cui componente determinista, chiusa e perfino eurocentrica non può essere ignorata o nascosta”.
Concretamente, in un contesto transitorio di decrescita, la crescita economica potrebbe limitarsi all'ampiamento di prodotti specifici quando è necessario superare alcune carenze o quando le società si trovano ad affrontare alcune contingenze: al di fuori di questi casi, il principio base della decrescita può essere inteso come la tendenza verso un minor consumo e una maggior durata degli oggetti al fine di ridurre la produzione economica in modo controllato, ma potenciando più alti livelli di felicità.
Sebbene tutti questi elementi possano sembrare distanti, ci sono azioni concrete che possono avvicinarci a quella demercificazione della realtà sociale e naturale a cui aspira quest’altra economia. Tra queste azioni – molte già in corso in vari angoli del pianeta – figurano la deprivatizzazione dell’acqua (come previsto dalla Costituzione ecuadoriana, inadempiuta anche su questo punto); la restrizione delle colture transgeniche e l'eliminazione della dipendenza dei contadini dai pacchetti di colture delle imprese transnazionali; la dematerializzazione e una maggiore efficienza socio-ambientale dei processi produttivi; il consolidamento della sovranità alimentare ed energetica, soprattutto sulla base di situazioni locali e comunitarie; la transizione verso l’uso di energie veramente pulite e rinnovabili e il recupero dei beni comuni, per citare solo alcune idee forti di un elenco molto vasto. Queste azioni, tra l’altro, saranno totalmente sterili se i loro elementi non saranno articolati – senza alcuna forma di imposizione autoritaria – in progetti comuni volti a costruire una civiltà post-capitalista.
D'altra parte, queste azioni non possono cadere nelle trappole dello “sviluppo sostenibile” o del “capitalismo verde” con la loro brutale pratica di mercantilismo ambientale. La questione non è rendere il capitale “verde”, ma superarlo, superare la sua civiltà della disuguaglianza – per dirla con Joseph Schumpeter – e costruire una nuova civiltà.
Senza negare la necessità di incidere su tutti i livelli scalari di azione – a partire dal locale fino al globale, senza ignorare il nazionale e il regionale –, dobbiamo comprendere che la costruzione di alternative di portata civilizzatrice deve essere promossa (e così sta accadendo) da diversi spazi comunitari in tutto il mondo. Ciò implica dare una svolta copernicana alla prospettiva della civiltà: passare da idee e azioni improntate alla verticalità del potere ad altre, orizzontali, che permettano di comprendere il mondo attraverso altri prismi e di costruire altri mondi possibili e desiderabili per gli esseri umani e non-umani.
Alternative globali, senza trascurare la dimensione nazionale e regionale
In questa ricerca collettiva di alternative multiple, soprattutto negli e dagli spazi comunitari, le sfide globali non possono essere ignorate. Bisognerebbe ad esempio affrontare la situazione economica internazionale, intollerabile dal punto di vista sociale, ecologico e anche economico.
È opinione diffusa che le strutture speculative del mercato finanziario internazionale, che incoraggiano la fuga di capitali spesso illeciti, debbano essere smantellate, così come le attività legate alle guerre, al terrorismo, al riciclaggio di denaro, al traffico di droga, etc. Allo stesso modo, è intollerabile che diverse istituzioni finanziarie servano da strumenti di pressione politica sui paesi più deboli: ricordiamoci che questo è accaduto e accade tuttora con il debito estero, tipico strumento di dominio politico. Il dibattito su come costruire un’altra economia globale va avanti da molto tempo. In questo senso, le idee qui presentate convergono con altre proposte che cercano di superare la civiltà del capitale.
Ciò richiede altre strutture internazionali volte a smantellare tutti i meccanismi di dominazione finanziari e commerciali, sostenuti dal FMI, dalla Banca Mondiale e dall’OMC. Così come è urgente superare tutte quelle strutture in cui la speculazione dilaga come conseguenza della mercificazione dei servizi ambientali, che aprono la porta ai mercati del carbonio in tutte le sue forme. Né dovrebbe esserci spazio per false soluzioni, come lo scambio di debito con la natura o con investimenti sociali, che nella loro essenza ignorano l’origine spesso corrotta e usuraia del debito estero. Porre fine ai paradisi fiscali, covo di corruzione e speculazione finanziaria, è un altro compito ineludibile. Tutto nella prospettiva di costruire un’altra architettura finanziaria e monetaria internazionale.
Si tratta, quindi, di restituire al popolo la sovranità di prendere decisioni collettive sul proprio futuro. Ciò implica ripristinare la sovranità sulla politica economica fuori dal giogo del debito estero, che ha i suoi principali garanti nel FMI e nella Banca Mondiale; una politica economica che liberi i paesi del Sud del mondo dalle imposizioni commerciali saccheggiatrici proprie dei trattati di libero commercio e dalle strutture imposte dall’OMC. Questa rinnovata politica economica deve ripristinare la sovranità alimentare ed energetica, nonché – questo è essenziale – riconoscere i modi di vita che ruotano attorno alla qualità delle relazioni e dell’equilibrio tra uomo e natura, invece di mettere al centro l’accumulo di denaro e potere. E questo sforzo richiede l’identificazione di tutti i meccanismi di dominio, tra i quali spicca nel tempo il dispositivo dei debiti ecologici e storici, che incorpora il debito patriarcale.
In questo trambusto, sono necessari diversi Stati che incorporino le questioni ambientali, senza emarginare in nessun caso quella sociale. Come sottolineano l’economista Rubén Lo Vuolo e la sociologa Maristella Svampa, si tratta di uno Stato diverso da quello che conosciamo, basato su un riassetto che metta in scacco “le basi dello Stato sociale, che d'altra parte nei paesi del Sud non si sono mai consolidate”.
In breve, abbiamo bisogno di uno Stato diverso, con una vocazione democratica ed egualitaria, costruito e controllato sempre più su basi comunitarie, che incorpori le sfide ambientali globali, regionali, nazionali e locali e che sviluppi strategie in chiave di transizione giusta. Tutto questo combinato con rinnovati spazi decisionali locali, nazionali e regionali, e un’orizzontalità del potere che consenta la costruzione di spazi globali democratici e la creazione di nuove mappe territoriali e concettuali. Come ribadiva il filosofo ecuadoriano Bolívar Echeverría: “La battaglia per la trasformazione può essere combattuta solo su più fronti contemporaneamente”.
Ciò implicherebbe cambiamenti che vadano al cuore delle disuguaglianze esistenti e dei rischi ecologici, che affrontino la doppia ingiustizia – sociale e ambientale –, ad esempio applicando una aggressiva riforma tributaria a partire da un reddito di base (pensato in una prospettiva comunitaria e non solo individuale, la dimensione lavorativa, la creazione di nuovi mestieri e di posti di lavoro sostenibili fino a politiche di adattamento ai rischi ambientali e soprattutto ad un sistema di assistenza nazionale di attenzione e cura che si traduca in una 'politica femminile' (Rita Segato dixit), come apertura alla complessa rete della vita che ci sostiene e che non si limita solo al mondo femminile. In breve: una politica che smantelli le strutture e le pratiche di dominio e gerarchizzazione.
Vecchie e nuove utopie ispiratrici per sfuggire alle nostre stesse ombre
Tutte queste riflessioni possono avere il sapore di utopie, ed è di questo che si tratta. Dobbiamo scrivere tutte le possibili bozze delle utopie necessarie per arrivare a cambiare questo mondo così carico di violenze, di disuguaglianze, così come di irrazionalità e ingiustizie, con varie pandemie che non si fermano e che aumenteranno se non ci sarà un cambio di direzione. Si tratta, insomma, di utopie che criticano questa realtà distopica nell’ottica di una buona convivenza, che valorizzi i diritti della natura. Utopie possibili che, essendo progetti di solidarietà e di vita sostenibile, devono essere alternative collettivamente immaginate, politicamente conquistate e costruite, da realizzare con azioni democraticamente radicali, in ogni momento e circostanza. L’obiettivo è superare la miseria della modernizzazione, così miserabile che ci sta già portando alla modernizzazione della miseria. E in questo sforzo, come avvertiva Herbert Marcuse, le utopie non sono semplici modelli ideali del futuro, come talvolta vengono intesi, ma piuttosto potenzialità presenti con vocazione di futuro: è questo che le trasforma - diciamo noi - in orizzonti che orientano i cambiamenti.
Il compito consiste nel dare spazio a diverse pratiche alternative, e soprattutto 'alterative' molte delle quali già esistenti in vari luoghi del pianeta. Si tratta soprattutto di azioni orientate da orizzonti utopici – in alcuni casi si potrebbe addirittura parlare di utopie realizzate – che propugnano una vita in armonia tra gli esseri umani e tra questi e la natura, che prefigurano risposte sempre più potenti.
Le proposte del Buen Vivir provenienti dall’originario mondo andino-amazzonico non sono le uniche alternative con capacità 'alterativa'. Ce ne sono molte altre. La richiesta storica sta, quindi, nell’aggiungere molteplici proposte di vita comunitaria, così come quelle che emergono da una molteplicità di lotte femministe, contadine, ambientaliste, tra le tante. Esistono molteplici punti d’incontro con le azioni del movimento della “decrescita” emerso dal Nord del mondo, in stretta armonia con le molteplici alternative che emergono nel e dal Sud del mondo.
Per promuovere la svolta copernicana proposta, ci basiamo su queste pratiche concrete, non su semplici teorie.
In breve, dobbiamo mettere in discussione il tentativo fallito di promuovere – come mandato globale e come percorso unilineare – il “progresso” nella sua deriva produttivistica e lo “sviluppo” come direzione unica, in particolare la sua visione meccanicistica di crescita economica. Non si tratta di ripetere gli esempi apparentemente riusciti dei paesi “sviluppati”. Innanzitutto perché ciò non è possibile. In secondo luogo, perché non hanno realmente successo. In terzo luogo, il mero tentativo ci sta portando alla catastrofe.
Un sistema socioeconomico in transizione verso livelli sostenibili richiede, in definitiva, condizioni politiche rilevanti: una riforma fiscale-ecologica; la considerazione di rigorosi limiti massimi per il consumo di risorse naturali e per le emissioni; cambiamenti culturali, come la riduzione del consumismo e delle disuguaglianze, riduzione dell'età e dell'orario di lavoro, il rafforzamento delle capacità delle persone e del capitale sociale; trasformazioni energetiche popolari e democratiche, non imprenditoriali; altre logiche e istituzioni finanziarie nazionali e internazionali; e, soprattutto, smantellare le strutture di dominio esistenti nell’economia globale, che sono quelle che in gran parte sostengono la “società dell’esternalizzazione”, cioè i livelli di benessere di pochi abitanti del pianeta a scapito della povertà della stragrande maggioranza e la distruzione della Terra. “Avere tutto e volere ancora di più, preservare il proprio benessere a costo di negarlo agli altri: questa è la massima delle società sviluppate, anche se cercano di nasconderlo nell'ambito pubblico”, denuncia il già citato sociologo tedesco Stephan Lessenich.
Queste azioni, che rappresentano solo un piccolo esempio di ciò che potrebbe essere fatto, devono essere combinate in processi ispirati contemporaneamente alla giustizia ecologica e alla giustizia sociale, rispettando e valorizzando le diversità. Il problema di fondo sorge quando a livello globale e nazionale non c’è sufficiente consapevolezza per affrontare i problemi, vuoi per mediocrità, vuoi per complicità con il sistema dei suoi leader. Rimanere impantanati nella disperazione e nell'angoscia non è la soluzione. L’azione multipla e combattiva dal basso non si può far attendere.
Il compito non è facile. Superare le visioni dominanti e costruire nuove opzioni di vita richiederà tempo. Dovrà essere fatto strada facendo, reimparando, disimparando e imparando a imparare di nuovo, e tutto questo simultaneamente. Queste azioni richiedono una grande dose di perseveranza, volontà e umiltà. E soprattutto tanta creatività e sempre più gioia. Un compito che – come abbiamo detto
– dovrà essere proiettato dal vicinato e dalla comunità, al globale, attraverso il nazionale e il regionale, senza cadere nelle grinfie dello stato-centrismo e ancor meno del mercato-centrismo, né nelle enormi trappole della tecnologia.
È un impegno che richiede di smantellare pragmatismi paralizzanti recuperando il messaggio di George Bernard Shaw:
"I ragionevoli si adattano al mondo in cui vivono, gli irragionevoli vogliono che il mondo si adatti a loro: pertanto, qualsiasi cambiamento lo dobbiamo agli irragionevoli".
Il tempo libero e non il lavoro come misura della ricchezza
Tutto quanto esposto sopra ci impone di superare visioni, derivate da pratiche apparentemente indiscutibili, che si sono radicate nelle nostre società, soprattutto con la modernità del capitale, per quanto riguarda questioni quotidiane come il lavoro e il tempo libero, che devono essere profondamente ripensate.
Questa comprensione pone un ulteriore compito alla grande trasformazione della civiltà. Il “tempo libero commerciale” dovrà essere sostituito dal “tempo libero emancipatore”: il lavoro alienante deve essere liberato dai rapporti di sfruttamento e, nella misura in cui lavoro e tempo libero saranno sotto il nostro controllo, la distinzione perversa tra i due evaporerà.
A questo punto è fondamentale considerare seriamente la riduzione e la redistribuzione dell’orario di lavoro, per aprire spazio a occupazioni socialmente e culturalmente produttive (e non degradanti). È tempo di ispirarsi alle riflessioni di Paul Lafargue (1848), Oscar Wilde (1891), John Maynard Keynes (1930), Bertrand Russell (1932), Karl Georg Zinn (1998), Niko Paech (2012), tra i tanti, che non si sono distinte e non si distinguono per la loro pigrizia, ma semmai per la loro critica al lavoro salariato e che hanno proposto di ridurre la giornata lavorativa, fissando limiti di tre o quattro ore al giorno. Riprendendo Marx dai Grundrisse (1857-1858), possiamo affermare che «una nazione è veramente ricca quando invece di dodici ore lavora sei ore», poiché non è «il tempo di lavoro a misurare la ricchezza, ma il tempo libero”. Questo obiettivo sarà raggiunto sostenendolo in progetti che garantiscano una vita dignitosa a tutti gli esseri umani e non-umani.
Questa nuova economia deve garantire la convivenza di più mondi che convivono con dignità, senza che la miseria e lo sfruttamento di molti assicurino 'la dolce vita' di pochi. La questione è posta. Dobbiamo passare dalla sterilità delle presunte certezze alla creatività che necessariamente i processi di cambiamento suscitano. Qui non c’è spazio per dogmi o imposizioni. O continuiamo a farci dominare dalle false “scienze economiche” oppure costruiamo un’altra economia, cioè una nuova economia per un’altra civiltà: una civiltà post-capitalista che nascerà dal sovvertimento permanente del pensiero unico del capitalismo totalitario, sempre vincolata alle lotte di resistenza e alla concomitante costruzione di alternative concrete. E in quella transizione, capovolgendo il mondo che conosciamo, come raccomanda Carolyn Merchant, costruiremo un’altra umanità come dispositivo attivo di un’altra civiltà.
(7. Continua)

-> Economista ecuadoriano e giurista ambientalista argentino, coautori del libro "La Naturaleza sì tiene derechos. Aunque algunos no lo crean". Giudici del Tribunal Internacional de los Derechos de la Naturaleza. Membri del Pacto Ecosocial, Intercultural del Sur.
* Traduzione Giorgio Tinelli per Ecor.Network
Tratto da:
La naturaleza sí tiene derechos. Aunque algunos no lo crean
Alberto Acosta, Enrique Viale
Siglo Veintiuno Editores, Argentina, 09/2024 - 208 pp.
