*** Segnalazione ***

Donne della Terra. Voci, saperi ed esperienze dall'America Latina, dai Caraibi e dall'Africa

di Centro Internacional para la Promoción de los Derechos Humanos

Mujeres de la Tierra. Voces, saberes y experiencias de América Latina, el Caribe y África
Centro Internacional para la Promoción de los Derechos Humanos
UNESCO, Argentina, 2023 - 154 pp.


Un'idea che è diventata un progetto, incontri e un libro. Un libro che ​​raccoglie storie di vita e sfide di donne contadine provenienti da Argentina, Brasile, Colombia, Ecuador, Marocco e Perù. In questo progresso si inserisce la concentrazione delle terre e l'organizzazione delle contadine del Costa Rica. 

Il libro riunisce le voci delle protagoniste e dei ricercatori/trici attorno alle domande sulla particolarità dei movimenti che nascono dall'intersezione tra ruralità e genere, attraversati da molteplici disuguaglianze e violenze, a volte estreme, e che da quel luogo si riorganizzano per fornire una voce e coscienza nell'emergenza e proporre i nostri modi di vedere, di essere e di stare al mondo.

È dedicato alle donne rurali dell’America Latina, dei Caraibi e dell’Africa e a tutte le persone che desiderano conoscere la prospettiva femminile dei nostri ambienti rurali.


INDICE

- Prefazione
- Introduzione

PRIMA PARTE - ESPERIENZE CHE PARLANO

- La forza delle donne
- Movimento delle Donne in Lotta, un'esperienza degli anni '90
Ana María Riveiro / Argentina.
- Donne rurali e difesa dell'ambiente
Isabel Zuleta/Colombia
- Resistenza nelle “zone di sacrificio”
- Violenza sovrapposta
María Elena Carbajal / Perù

LA CONQUISTA DEI DIRITTI
- La conquista dei diritti
- Le donne, “soggetto” della riforma agraria
Dora Arrow / Paraguay
- Lotte che trasformano le donne
Marta Mateo/Repubblica Dominicana
- Le donne nella distribuzione della terra
Angela Chislla Palomino / Perù
- Le donne “Sulaliyat”.
Salma El Ouazzani Chahdi Sendaoui / Marocco

PROGRESSI E REGRESSIONI
- Queste donne dell'America Latina
- Politiche pubbliche che migliorano la vita
Antonia Chávez/Messico
- Donne e terre, territori contesi
Lilián Galán / Uruguay
- Politiche di colonizzazione inclusive
Jacqueline Gómez / Uruguay
- 529 anni di resistenza
Deolinda Carrizo/Argentina

NUOVE FORME DI COMUNICAZIONE COMUNITARIA
- “Artivismo” e comunicazione femminista
- Arte e comunicazione, strategie in difesa del territorio
Valentina Escuti Bustos / Cile
- Un linguaggio che riesca a sensibilizzare
Sinchi Gomez/Ecuador

DISPOSIZIONE DELLA RETE
- Contro la violenza patriarcale e coloniale: “affidamento” tra le donne delle nostre regioni per la sostenibilità della vita e dei diritti umani
- La violenza di negarci la terra
Alejandra Bonilla Leiva/Costa Rica

- La Marcia delle Margherite
Maze Morais / Brasile
- Imparare a disimparare
Lourdes Huanca Atencio / Perù

SECONDA PARTE - SULLE DONNE RURALI IN AMERICA LATINA, CARAIBI E AFRICA

- I diritti del campesinado e delle donne rurali nella normativa internazionale
Katia Troncoso
- Le donne dell'Africa, il loro accesso alla terra
Salma El Ouzzani Chadi Sendoui
- Politiche pubbliche rurali nei territori africani, impatto sulla popolazione femminile
Marisa Pineau
- Donne d'America, lezioni di resistenza attiva
Gemma Galgani Silveira Leite Smeraldo
- La terra in America: storia e presente di espropri, accaparramenti e lotte
Gabriela Martinez Dougnac


La violenza di negarci la terra

Alejandra Bonilla Leiva*

Il Costa Rica, è molto piccolo. Non è più lungo di 51.000 chilometri e conta cinque milioni di abitanti. Lavorare e viverci, con una prospettiva critica, presenta un forte limite. Dico “uno” ma è legato a molte altre limitazioni. Il fatto è che la maggior parte delle persone con cui abbiamo parlato, anche fuori dal Paese, hanno l'impressione che il Costa Rica sia simile a un paradiso.

Questa visione idilliaca ha un fattore aggravante per noi che ci viviamo. La costruzione di quel discorso è così forte che ha coniato una prospettiva e un'espressione – che odio – e cioè che in Costa Rica siamo “pura vida”, cioè super benestanti. Visitiamo le comunità e scopriamo che c’è fame, inquinamento, espropriazione… Eppure la gente ripete che è “pura vida”. 

Ciò crea una situazione difficile in cui lavorare. Il ripetere che stiamo bene, che dobbiamo stare bene tutti, ostacola molto il lavoro organizzativo e la difesa dei territori. 

Per questo voglio raccontarvi dove siamo e cosa sta succedendo in Costa Rica. E cosa stanno vivendo le donne rurali. Provo a dare una panoramica. Inizierò con questa frase detta da una compagna: "Quello che vogliono è che io impari a mangiare le tortillas con quell'impasto che vendono confezionato, così da smettere di piantare mais e non sapere cosa fare della terra". Questa frase coglie una prospettiva di modernizzazione e industrializzazione associata a ciò che mangiamo. L’idea di modernizzazione influisce su ciò che mangiamo, ma ha implicazioni anche su altri rapporti: nelle zone rurali del Costa Rica è in atto un continuo processo di espropriazione delle terre. Ciò ha a che fare con alcune politiche e con determinati interessi.

“Anche negare il diritto alla terra è violenza”

Il Costa Rica si trova tra Nicaragua e Panama, tra due oceani. La Rete delle Donne Rurali si estende su tutto il territorio costaricano, lavorando e promuovendo l'organizzazione. La sua presenza diminuisce verso il centro del Paese, nella valle centrale, nella zona montuosa dove il clima è meno caldo e dove si trovano le città più grandi. 

La portata e le limitazioni della Rete sono vincolate alle costruzioni culturali che provengono dall’era coloniale e che formano un centro di potere con una visione molto razzista e di subordinazione, sia dei territori indigeni che delle comunità contadine che si trovano alla periferia. Ci sono molti conflitti per la terra, molti espropri. Stiamo soffrendo una grave concentrazione della proprietà a scapito del possesso della terra da parte dei contadini. 

La Rete delle Donne Rurali ha notato che le donne, in generale, non possiedono la terra. Sono pochissime quelle che appaionio sul registro dei proprietari. Si sostiene che solo il 15% dei proprietari siano donne. Con un'aggravante: solo l'8,5 per cento ha qualche sicurezza su quella proprietà. Però, tra l'altro, la dimensione della terra che possiedono è sempre insignificante.

Alla carenza di titolarità e al non possesso della terra si aggiungono le relazioni patriarcali che fanno sì che le donne non decidano nemmeno sulla produzione. Abbiamo casi estremi, come quello di compagne che hanno deciso di fare il loro orto, però il marito libera la cavalla nella proprietà, perché non gli aveva chiesto il permesso, quindi lascia che la cavalla mangi tutto ciò che lei aveva piantato. Siamo a questi livelli! Sono situazioni associate alla violenza patriarcale che è relazionata al modo con cui vengono viste le donne e le loro attività produttive. Per una manifestazione di piazza, le compagne hanno realizzato uno striscione che dice: “Anche negare il diritto alla terra è violenza”. 

Lo Stato lavora con programmi che tengono in considerazione solo la violenza fisica o l’aggressione psicologica, nel migliore dei casi. Ma non si tiene conto delle aggressioni legate all’economia, all’accesso e alla protezione dei beni.

Coloro che compongono la Rete delle Donne Rurali hanno fatto progressi nel rendere visibile la relazione tra queste forme di violenza strutturale e il sistema capitalista e patriarcale che dà luogo alla concentrazione da parte delle grandi aziende di frutta, ananas e arance. 

L’espansione della produzione di ananas e altri frutti, che hanno un alto livello di esportazione verso Europa e Stati Uniti, ha significato l’espropriazione di molte famiglie e comunità.


Chi sono i proprietari in Costa Rica?

In uno studio che abbiamo fatto nel sud del paese, ma che ritrae abbastanza bene le condizioni generali perché le proporzioni sono simili, abbiamo scoperto che il 43 per cento delle famiglie possiede una terra propria. Ma il 48% di queste famiglie possiede meno di mezzo ettaro, il che parla di proprietà molto piccole e di una realtà che rende l’economia insostenibile per questi produttori.

Poi c'è un 23% di questi che possiede tra uno e cinque ettari. Quindi, quando parliamo di “popolazione contadina” vediamo che una percentuale molto ampia ha meno di cinque ettari. Le possibilità di ciò che possono fare su tali superfici sono molto limitate.

C'è anche un altissimo livello di mancanza di sicurezza nella proprietà, dal momento che il 27% vive su terreni presi in prestito, attraverso programmi statali o aziende agricole che sono contese e nelle quali si permette di vivere a numerose famiglie in forma di guardiani, al fine di impedire ad altri di occupare i terreni.

Un altro 13 per cento delle famiglie possiede i terreni assegnati dallo Stato, cioè concessi con un periodo di prova di 20 anni e se raggiungono solvibilità, stabilità e sostenibilità nelle loro attività, viene loro concesso un piano rateale per diventarne proprietari. 

Queste situazioni ci mostrano un panorama di insicurezza nel possesso della terra e, allo stesso tempo, nella dimensione emozionale delle famiglie contadine. Vivono nell'ansia, lontani dall'immagine bucolica, romantica, di una campagna tranquilla e con aria pura... Quella non esiste, tanto meno la stabilità.

Tutto ciò incide in maniera particolare sulle donne a causa del loro ruolo nella protezione delle famiglie. Ecco perché lavoriamo sui diritti fondiari delle donne. Lo Stato non stabilisce programmi per la distribuzione delle terre alle contadine, anche se queste svolgono un ruolo di primo piano nella produzione alimentare, con pochissime risorse a disposizione. Da un lato si valorizzano le donne che continuano a produrre cibo e si esaltano le loro qualità. Ma dall'altra non esiste reciprocità in termini di risorse.

La terra costaricense trasformata in merce

Nel 1962 in Costa Rica fu fondato l’Istituto per la Terra e la Colonizzazione. La decisione era in linea con le politiche latinoamericane che si stavano adottando in quel periodo, a due anni dalla Rivoluzione Cubana e quando si registrava un grande boom dei movimenti agrari in tutta l’America Latina. 

L’apertura dell’Istituto coincide anche con quello che fu chiamato “l’esaurimento della frontiera agricola”. Quella frontiera marcò il limite dei territori indigeni. Fino ad allora, era consentita l’usurpazione “legale” dei territori indigeni e la sua avanzata sul territorio con la scusa che “non c'era nessuno”: indigeno era sinonimo di “nessuno”. Così si andarono emarginando e spingendo le comunità verso le zone di montagna.

Dopo gli anni '60, si adottò una politica di distribuzione e colonizzazione per occupare altri spazi. Questo fu altamente distruttivo. L'apportazione di “miglioramenti” al territorio, ebbe effetti nefasti sulla montagna e sulla biodiversità. Inoltre, questi programmi erano solo una valvola di sfogo di fronte alla pressione dei movimenti di occupazione delle terre da parte del 'campesinado'. D'altro canto, ciò diede luogo a una lunga coda di solleciti in attesa davanti all'Istituto. Insomma, servì al fine di smobilitare molti, considerando che - anche se fossero stati sul posto in trecento - almeno avrebbero avuto la speranza che un bel giorno sarebbe arrivato il momento della distribuzione delle terre.

Consentì anche altri contesti come le trattative con i proprietari terrieri, i quali misero a disposizione per la distribuzione le loro terre improduttive e facendo un affare d'oro con lo Stato, a scapito di coloro che ricevettero le terre.

Nel 1977, coerentemente alle prime politiche di apertura commerciale e di trasformazione dello Stato, l'Istituto del Territorio venne rinominato Istituto di Sviluppo Agrario. Venne cambiata la legge che aveva dato forma a quell’organizzazione. Perché? Il fatto è che l'asse fondamentale già non era più la distribuzione delle terre, ma lo sviluppo secondo criteri di competitività. Iniziò l'apertura economica e con essa una visione diversa riguardo alla campagna e alle attività che vi si svolgevano, con grande disprezzo verso l'identità contadina.

Nel 2015 era rimasto pienamente operativo l’Istituto per lo Sviluppo Rurale, che abbandonò completamente la tutela del territorio come bene sociale. Questo fu °il passo più disastroso: concepire la terra come una merce°. Modificando questa categoria, l'Istituto per lo Sviluppo Rurale ha alzato decisamente la concorrenza. Oggi un’impresa transnazionale e una famiglia contadina possono competere per essere beneficiari di un terreno dello Stato. Non è più illegale per le multinazionali occupare terreni nelle zone rurali. Il progetto competitivo, vincolato all'export, ha ora il punteggio più alto.

La trincea dell’agroecologia e dei semi autoctoni

Nel corso di questa evoluzione, a partire dalla nuova forma di concepire la terra, le donne sono andate sperimentando cambiamenti anche in termini del ruolo da ricoprire. 

Ad esempio, durante il primo periodo non erano beneficiarie poiché sussisteva il presupposto che non avessero capacità produttiva o imprenditoriale. Nel secondo periodo si è cominciato a considerare la “qualifica” come punteggio per l'accesso. Una volta accompagnai un gruppo di donne all’Istituto di Sviluppo Agrario e il funzionario mi disse: “Le donne non ottengono mai il punteggio perché sommano come mezzo uomo e non potranno mai raggiungerne uno intero”. Con una concezione del genere, e giudicate come mancanti di capacità di accumulare un punteggio sufficiente, iniziavano già perdenti. Proprio per questo abbiamo cominciato a protestare. 

Anche dopo quella che in Costa Rica è stata considerata la legge dell'uguaglianza reale (legge 7142, del 1990, che stabiliva la comproprietà dei beni immobili tra uomini e donne), le contadine continuano tutt'ora a non essere prese in considerazione. Soprattutto per quanto riguarda i terreni provenienti dallo Stato.

Non hanno mai avuto le stesse condizioni. In passato erano valorizzate. Nell'attualità, la visione neoliberale che propone la monocultura per il mercato, non è coerente con le nostre concezioni di produzione diversificata e agroecologica. Anche se sono le nostre concezioni quelle che sostengono le famiglie e l'alimentazione.

Voglio fermarmi qui sulla falsità del cosiddetto "paese verde". Il Costa Rica è un paese malato a partire dalla monocoltura, con un altissimo contenuto di pesticidi. Abbiamo il più alto consumo pro capite di pesticidi: mangiamo veleno. Attualmente esiste un disegno di legge che richiederebbe la registrazione di tutte le sementi, comprendendo i semi contadini e creoli. Ciò mette a rischio la biodiversità alimentare, perché la mappatura consentirebbe di localizzare le origini dei semi. E porterebbe grandi e gravi conseguenze.

Oggi la Rete delle Donne Rurali sta difendendo il diritto a produrre liberamente e mette in discussione questo modello agroalimentare – legato al mercato – che senza ombra di dubbio dà da mangiare. Insomma, esige la cessazione di tutte queste violente articolazioni.


* Da Tierra Viva - Agencia de noticias, Originale qui 
 ** Agronoma e coordinatrice del Progetto Interuniversitario di Economia Solidale e Femminismo dell'Università Nazionale del Costa Rica. Attivista dell'Associazione Tinamaste, che promuove il processo organizzativo delle donne indigene e contadine nella Rete delle Donne Rurali del Costa Rica, affronta il tema dell’accesso alla terra da una prospettiva di genere.


*** Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network

 



 

25 novembre 2023 (pubblicato qui il 29 novembre 2023)