Un'ecologia politica dai territori: resistenza all'estrattivismo e produzione di saperi alternativi in ​​Cile

di Paola Bolados Garcia

INTRODUZIONE

Negli ultimi decenni, la letteratura relativa agli impatti dell'espansione degli estrattivismi e dei conflitti socio-ambientali mostra una progressiva politicizzazione del campo ambientale. La produttività dei conflitti ha dato origine a un nuovo sistema e alla produzione di nuovi saperi e conoscenze specialistiche alternative e indipendenti. Tali conoscenze e saperi, che si costruiscono a partire dai territori, in particolare da quelli in resistenza, permettono di vedere le contraddizioni di un modello di sviluppo basato su un'economia di esportazione che sovrasfrutta i beni naturali e stimola la loro circolazione nei mercati internazionali. I cambiamenti radicali e le sofferenze ambientali generate da questo modello non solo sono tenuti nascosti, ma vengono rielaborati in un nuovo immaginario evolutivo ed estrattivista per legittimare un discorso che pretende di conciliare crescita economica e sostenibilità ambientale. Questi immaginari vengono dispiegati attraverso politiche statali e imprenditoriali che cercano di ottenere legittimità nei territori per poi puntare su nuovi progetti ed espansioni.

In questo contesto di disuguaglianze socio-ecologiche (Castillo, 2016), le organizzazioni socio-ambientali in contesti di resistenza non solo hanno contribuito a una ridefinizione del territorio, ma hanno anche facilitato innovative interpretazioni di democrazia e cittadinanza ambientale, basate sui linguaggi e concetti che sono stati rielaborati e arricchiti all'interno di pratiche collettive e lotte territoriali. Una di queste rielaborazioni è stata il significato dell'acqua come un diritto umano indispensabile per tutti e bene comune non privatizzabile. Questa è stata un'idea intrapresa in Cile dalla Provincia di Petorca, attraverso il lavoro di organizzazioni come il Movimento per la Difesa dell'Acqua, della Terra e della Protezione dell'Ambiente (MODATIMA). Da oltre un decennio in questo territorio si è andato sviluppando un conflitto per l'acqua legato all'esportazione di avocado, che ha generato una crisi nella disponibilità e nell'accesso all'acqua e che ha costretto i comuni più colpiti ad abbandonare l'agricoltura familiare, dare in affitto la terra o alla fine venderla. Questo perché a partire dagli anni '90 le acque superficiali sono state dichiarate esaurite e successivamente anche dichiarate varie restrizioni riguardo allo sfruttamento delle acque sotterranee. La crisi per la disponibilità di acqua colpirà alla fine anche la disponibilità dell'acqua potabile, necessità a qui si farà fronte con le autocisterne.

In questo senso, dalla zona costiera della regione di Valparaíso nella baia di Quintero, le comunità e le organizzazioni femminili resistono a configurarsi come "zone di sacrificio". Accogliendo questo concetto fatto proprio da organizzazioni e fondazioni non governative per riferirsi a luoghi in cui si concentrano le conseguenze del degrado socio-ambientale, contestano il suo significato e si rifiutano di vittimizzarsi sotto questa figura, dando vita nel 2016 alla prima Associazione delle Donne delle Zone di Sacrificio in Resistenza. Donne che articolano le lotte con pescatori ed ex agricoltori della zona che, da più di 50 anni, denunciano le disastrose conseguenze dell'estrattivismo minerario-energetico nel loro territorio. Un destino di sacrificio nazionale alla ricerca dello sviluppo che ha permesso la localizzazione di un complesso minerario energetico composto da 15 compagnie tossiche e pericolose in un raggio di meno di cinque chilometri. Questo complesso sarà composto, tra gli altri, da quattro centrali termoelettriche a carbone, tre società di idrocarburi e tre di gas, una raffineria e una fonderia di rame, un'azienda chimica e una fabbrica di cemento. Attività che hanno causato la distruzione delle attività economiche tradizionali a causa dei continui arenamenti di carbone sulla spiaggia, fuoriuscite di petrolio ed episodi di intossicamento degli abitanti dei comuni di Puchuncaví e Quintero. L'ultimo di questi episodi, e uno dei più gravi, si è verificato nell'agosto 2018, quando ci sono stati intossicamenti massicci di bambini, adolescenti e adulti, più di 700 casi, situazione che allertò le comunità e le autorità e che accese il dibattito in Cile sulle cosiddette “zone di sacrificio”.

La resistenza delle organizzazioni di questi due territori della regione di Valparaíso nella zona centrale del Cile solleva una nuova prospettiva sulla giustizia ambientale, così come sui diritti umani, che cerca di posizionarsi da pratiche organizzate intorno a un'etica della cura, del buon vivere e un'ecologia dei saperi che sta alla base delle culture indigene e contadine, e che si unisce con altre traiettorie ambientaliste (Martínez Alier, 2004). Proseguendo su questa linea, cerco di mostrare come queste pratiche elaborino diversi significati di giustizia ambientale e costruiscano conoscenze e saperi a proposito delle disuguaglianze socio-ecologiche, mettendo in discussione le valutazioni della natura al di là della prospettiva produttivista imposta dall'attuale modello di esportazione.

La professionalizzazione della conoscenza ambientale e la sua privatizzazione nelle mani di esperti concentrati nelle società di consulenza negli ultimi decenni, hanno marcato una distanza sociale e politica con una cittadinanza emarginata dalle decisioni che hanno colpito irreversibilmente i loro territori, rendendo conto di inefficienze, inadeguatezze e illegalità (Gudynas, 2016) dell'attuale istituzionalità ambientale. Da questa prospettiva, comprendiamo - come sostiene Souza Santos (2012) - che tutta la giustizia ambientale implica, in primo luogo e a sua volta, giustizia sociale e cognitiva. Queste lotte per la giustizia mettono in discussione in chiave ambientale ed ecoterritoriale (Svampa, 2011) le molteplici storie di depredazione da parte di un modello economico estrattivista che, nel caso del Cile, hanno avuto un radicamento e una naturalizzazione che si sono sviluppati con il neoliberismo ambientale imposto durante la dittatura negli anni '70 e che si è poi consolidato con il ritorno alla democrazia negli anni '90. Un modello che ha esacerbato le disuguaglianze socio-ecologiche dalla mercificazione della natura, e che ha favorito l'emergere di numerosi conflitti socio-ambientali/territoriali nel Cile degli ultimi due decenni. Da qui si rende visibile una nuova razionalità socio-ambientale e un'identità post-neoliberista che comincia non solo a snaturare il neoliberismo imposto con la violenza negli anni precedenti, ma a mostrare gli aspetti nascosti del modello di esportazione centrati sul mega-sfruttamento dei beni socio-naturali e la distruzione di sistemi ecologici e culturali delle comunità indigene e contadine del paese. Queste invisibilizzazioni hanno come correlazione la marginalizzazione dei saperi tradizionali e delle cosmovisioni  basate sull'interdipendenza tra natura e cultura, nonché la loro sostituzione con conoscenze specialistiche autorizzate, per lo più privatizzate attraverso società di consulenza incaricate di studi di impatto ambientale richiesti dalla legislazione ambientale a partire dagli anni '90.

Questa conoscenza specialista autorizzata, nel contesto neoliberista cileno, è costruita a partire da una visione tecnicizzata della natura che rende invisibili le dimensioni della sofferenza di comunità che reinventano il territorio e promuovono sistemi di recupero della vita in contesti di degrado. Questa prospettiva costituisce un'estensione di un sistema coloniale della conoscenza e di una geopolitica della conoscenza (Lander, 2000) che, sotto un immaginario 'desarrollista', nasconde processi che favoriscono la distruzione di sistemi culturali, biodiversità ed economie locali (Mundaca, 2014). Ciò è stato possibile grazie al consolidamento di un sistema di defraudazione e progressiva commercializzazione della natura (Harvey, 2006, 2005; Budds, 2004), nonché di un ordinamento giuridico che privilegia una democrazia liberale che consacra la proprietà privata e i diritti sociali sussidiari. Questo modello economico globale si è sviluppato in un neoliberismo ambientale che, nel caso del Cile, è riuscito a depoliticizzare la discussione sulla natura e l'ambiente, oltre a naturalizzare la politica estrattivista. Dopo quasi due decenni, questi saperi territoriali tornano a fare pressione per riconquistare la loro legittimità e il loro status epistemologico sotto vari linguaggi di valorizzazione, sulla natura marcata da un ambientalismo di taglio popolare (Martínez Alier, 2004), che sono costruiti dalle organizzazioni nei loro territori colpiti e che si confronta con l'attuale conoscenza specializzata scientifica autorizzata.

Da questa prospettiva, le lotte per la giustizia ambientale di queste organizzazioni rivelano una dimensione epistemica che mette in discussione l'universalità e l'astrazione del diritto e della giustizia, per dar conto delle dimensioni geografiche delle pratiche sociali (Porto Goncalves, 2006) e culturali da cui emergono i sistemi normativi dei popoli indigeni e dei gruppi contadini che iniziano a denunciare i danni dell'attuale modello predatorio. In questo senso, i conflitti esprimono non solo la sofferenza ambientale che implica vedere il deterioramento delle condizioni di vita (Auyero e Swistun, 2008), ma anche l'emergenza di pratiche che difendono il diritto alla re-esistenza (Porto Gonçalves, 2015). Queste pratiche di re-esistenza delle organizzazioni ambientaliste in Cile, mostrano una forma di appropriazione dello spazio e una territorialità che mette in crisi la prospettiva privatizzatrice del modello e denunciano i limiti e le inefficienze delle legislazioni indigene e ambientali degli anni '90 che resero compatibili democrazia politica e neoliberismo economico. Un modello estrattivista che sia in Cile che nel resto della regione latinoamericana si è approfondito sotto governi sia liberali che progressisti (Svampa e Viale, 2014; Gudynas, 2015). In questo senso, le attuali lotte per la giustizia ambientale che emergono dai territori contestano le definizioni e le politiche della conoscenza che privilegiano una prospettiva naturalizzata, tecnicizzata e compartimentata dell'ambiente, e resistono ai modelli di appropriazione irrazionale della natura.

Il colonialismo epistemico delle scienze che sta alla base del modello di produzione indiscriminata delle cosiddette risorse naturali, emargina i significati identitari e collettivi, e li dispone per un uso e una valorizzazione esclusivamente di tipo commerciale. Ciò è stato possibile e attuabile attraverso una colonizzazione di immaginari e pratiche neocoloniali che legittimano disuguaglianze e promuovono la colonizzazione della natura (Alimonda, 2011). In questo senso, si comprende che sia gli estrattivismi minerari che quello agroesportatore, mettono in gioco sistemi di relazioni neocoloniali, e ricorrono alle memorie di dominazione per rafforzare una visione di continuità nella storia mineraria (Machado, 2011), o l'agricoltura come un modello radicato culturalmente. Nel caso del Cile, in particolare, l'immaginario minerario coloniale è molto precoce e sarà un fattore fondamentale per facilitare un sistema giuridico di sovrasfruttamento eccessivo di risorse naturali come l'acqua e i minerali. Allo stesso modo, il modello di hacienda agricola, sostenuto da rapporti di dominazione e subalternità tra 'patrones' e 'peones' (Bengoa, 2015), ha generato condizioni di dominio reinventate dal modello agro-export. Questa mappa estrattivista degli anni '90 ha facilitato l'espansione degli estrattivismi storici, così come nuovi i estrattivismi come la pesca, la silvicoltura e l'allevamento del salmone, che oggi fanno sì che ci siano forti conflittualità nei territori.


Conflictos territoriales y territorialidades en disputa: Re-existencias y horizontes societales frente al capital en América Latina 
Carlos Walter, Porto-Gonçalves... [et al.]
1a ed . - Ciudad Autónoma de Buenos Aires, CLACSO, 2021 - 463 pp.

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25 ottobre 2021 (pubblicato qui il 28 ottobre 2021)