*** Terza Parte ***

Oltre il colonialismo verde. Giustizia globale e geopolitica delle transizioni ecosociali/3

di Miriam Lang, Breno Bringel, Mary Ann Manahan


Come superare il colonialismo verde? Transizioni giuste e trasformazioni ecosociali

Se riconosciamo il colonialismo verde e il suo attuale aspetto di estrattivismo verde come un nemico che deve essere combattuto, è anche essenziale discutere di come superarlo. Oltre a smascherare le sue false soluzioni al cambiamento climatico e ad analizzarne criticamente gli impatti, è altrettanto importante mappare ed esaminare quali alternative esistono. Negli ultimi anni sono uscite fuori varie analisi interessanti dedicate allo studio e alla proposta di alternative socioecologiche dal basso. Il repertorio di interventi è vario e spazia dalla giustizia ambientale e climatica (Bond, 2023) alle esperienze ecologiche di base (Gelderloos, 2022), alla decrescita (Schmeltzer et al., 2022), alla resilienza (Rifkin, 2022) e a un’ampia gamma di misure di transizione. politiche.

Queste analisi spesso si concentrano sulla dimensione locale e sull’adattamento ai cambiamenti climatici, ma raramente su una prospettiva di giustizia globale che tenga conto non solo delle azioni e dei quadri globali, ma anche delle diverse visioni del mondo e delle prospettive che sono alla base delle lotte contemporanee. Nel nostro caso, preferiamo evidenziare le lotte localizzate che non sono localiste. Ciò implica pensare alla risonanza tra lotte simili in diverse parti del mondo, alla loro scalabilità e alla possibilità di generare articolazioni e convergenze. Evidenziare l’importanza del Sud del mondo non significa omogeneizzare il Nord del mondo. Al contrario, dobbiamo rendere le nostre analisi più complesse in diversi modi. Da un lato, come mostriamo in questo libro, il colonialismo verde non è semplicemente qualcosa che viene imposto dall’alto o dal Nord al Sud. In molti casi, ciò che è in gioco è anche una sorta di “colonialismo verde interno”, che crea le condizioni possibili per l’avanzamento dell’estrattivismo verde basato su alleanze e relazioni coloniali tra le élite nazionali del Sud e del mondo. D’altro canto, dobbiamo anche valorizzare le voci critiche all’interno del Nord globale e rafforzare i legami tra loro, così come le alternative provenienti dal Sud globale.

Siamo pienamente d’accordo con Arturo Escobar quando suggerisce che, nel costruire questi ponti tra le lotte attuali del Nord e del Sud, è necessario tenere conto di diversi fattori (Escobar, 2015), come l’importanza di non cadere nella trappola di pensare che, mentre il Nord ha bisogno di decrescere, il Sud ha bisogno di “sviluppo” (anche se colorato di verde). Le politiche orientate alla crescita e l’estrattivismo sono altamente dannose per gli ecosistemi e le comunità, ed è per questo che nell’ultimo decennio, attivisti e intellettuali in America Latina hanno iniziato a suggerire che ciò che è importante non sono le alternative di sviluppo, ma le alternative allo sviluppo. (Lang e Mokrani, 2013). Queste alternative implicano necessariamente la costruzione di transizioni radicali e post-estrattiviste. Se l’idea di transizione – e anche quella di transizioni giuste – è stata cooptata dal capitalismo e da diversi attori istituzionali che la utilizzano in forma limitata e problematica come sinonimo di una transizione energetica orientata al mercato, è importante chiarire i suoi significati e orizzonti. Riteniamo che la transizione ecosociale debba essere intesa come parte di un più ampio processo di trasformazione della cultura, dell'economia, della politica e della società, nonché della sua relazione con la Natura. Inoltre, una transizione ecosociale non può essere ridotta a una promessa per il futuro, come nel caso della maggior parte delle proposte egemoniche.

Le transizioni stanno già avvenendo in varie esperienze nelle comunità e nei territori, nelle aree rurali e urbane, così come nelle resistenze territoriali in tutto il mondo contro il capitalismo verde e lesue soluzioni fittizie. Abbiamo urgentemente bisogno di mappare e rafforzare questi molteplici processi di re-esistenza legati all’energia comunitaria, ai progetti agroecologici, agli orti urbani e alle economie alternative, per citarne solo alcuni. È in queste esperienze concrete, che consistono in (eco)utopie territorializzate, che risiedono le alternative più forti al colonialismo verde.

Dobbiamo anche chiederci se le proposte istituzionali sono parte della soluzione o parte del problema. Negli ultimi anni si sono moltiplicate una serie di proposte di Green New Deals, che sono oggi oggetto di accesi dibattiti. Un’ampia letteratura è stata dedicata all’analisi di diversi casi nazionali (Aronoff et al., 2019), sebbene sia presente anche una prospettiva più sistemica (Chomsky e Pollin, 2020), internazionalista (Riexinger et al., 2021) e globale (Ajl, 2021). Nonostante la diversità delle proposte del Green New Deal, tutte hanno qualcosa in comune: la necessità che siano i governi (e non i mercati) a guidare la transizione energetica (Tienhaara e Robinson, 2023). Tuttavia, in diversi casi, queste transizioni istituzionali, effettuate a livello locale/comunale o statale, facilitano o praticamente si fondono con le transizioni aziendali in una dinamica di sottomissione del settore pubblico agli interessi privati. In un buon numero di paesi si tende alla formazione di grandi alleanze pubblico-privato tra stati e imprese transnazionali, confondendo i confini tra “transizioni aziendali” e “transizioni orientate allo stato”, anche se in termini retorici possono continuare ad esistere discorsi e spazi differenziati. In altri casi – una minoranza, va riconosciuto –, lo Stato rivendica la propria autonomia ed è più chiaramente messo in discussione, con tensioni e forze che rifiutano il suo rapporto ombelicale con il mondo aziendale, proponendo transizioni energetiche praticabili che promuovano la diversificazione economica e la decentralizzazione, avvicinandosi alle agende delle organizzazioni ambientaliste e dei movimenti sociali, come illustra il governo colombiano guidato da Gustavo Petro e Francia Márquez, al momento della stesura di questo testo.

Analizzare queste mediazioni e tensioni è una sfida importante, solo parzialmente incorporata in questo libro, che richiede maggiore attenzione in futuro. Insomma, alternative al colonialismo verde esistono non solo in termini intellettuali, ma anche politici e pratici, pur affrontando scenari estremamente complessi. Gran parte del pensiero di sinistra del passato, a cominciare da Marx, intendeva i periodi di transizione come quelli in cui nuove relazioni sociali emergono all’interno di quelle già esistenti, caratterizzate dalla coesistenza e dalla lotta tra vecchie e nuove relazioni sociali, una lotta in cui nuove forme di le relazioni giocano un ruolo decisivo. Sebbene le transizioni radicali oggi rompano con diversi presupposti della modernità, e quindi intendano la trasformazione ecosociale su basi diverse, è ancora essenziale analizzare questa tensione tra il vecchio e il nuovo e tra  forze antagoniche. Come intendiamo dimostrare nella seguente presentazione delle sezioni e dei capitoli del libro, è nostro dovere esaminare le nuove aspetti del capitalismo coloniale, ma anche rendere visibili le alternative esistenti, considerando le loro contraddizioni e potenzialità.
 

A proposito di questo libro

Obiettivo di questo volume è quello di analizzare l’avanzata del colonialismo verde nel mondo, evidenziandone le caratteristiche e la distruzione e ipocrisia che ne stanno alla base; esaminare gli intrecci strutturali e geopolitici tra il Sud e il Nord del mondo che li sostengono e che devono quindi essere affrontati per costruire una prospettiva di giustizia globale e, infine, condividere una serie di sfide, prospettive e proposte che costituiscono componenti fondamentali per il cammino verso un futuro degno. Per tutto questo, cerchiamo di fare un breve inventario delle pratiche e delle conoscenze che supportano altri modi di esistere veramente sostenibili che già sono una realtà nell'attualità, anche se spesso sono invisibilizzati e non riconosciuti. Allo stesso modo, proponiamo idee per le strategie e le politiche che dovrebbero essere adottate lungo questo percorso. Di seguito forniamo una panoramica delle diverse sezioni del libro.
 

Transizioni egemoniche e geopolitica del potere

La prima parte del libro esamina criticamente il progetto egemonico di “transizione” energetica nelle sue diverse dimensioni e scale. La sezione contiene contributi che analizzano temi convergenti riguardo la “soluzione verde”, il “Decarbonization Consensus”, i mutui processi di accumulazione ed espropriazione, la (nuova) divisione internazionale del lavoro e della Natura, e altre relazioni tra il Nord e il Sud globale. Sud. Gli autori tracciano attentamente le epistemi, gli obiettivi, gli attori e gli interessi che sono alla base dei progetti di transizione nell’Unione Europea, negli Stati Uniti e in Cina, nonché le loro traduzioni in politiche e pratiche concrete in America Latina e Africa. Gli autori condividono l’analisi secondo cui la “narrativa capitalista-tecnocratica”, termine coniato da Svampa (2018), non è altro che “vino vecchio in bottiglie nuove”. Non abbandona l’ossessione per la crescita economica e il suo insostenibile modello di produzione, distribuzione e consumo, nonostante la retorica dei limiti planetari.

Kristina Dietz, accademica tedesca di relazioni internazionali, analizza la “soluzione verde” come alternativa alla policrisi e mette a fuoco come il piano di transizione energetica verso la neutralità climatica in Europa annunci una nuova fase di estrattivismo verde nel Sud del mondo. Al centro di questo piano c’è una ferrea fiducia nella modernizzazione ecologica che avanza nella ristrutturazione del commercio, nell’energia e nei trasporti, affinché si adattino alla prospettiva di una “economia verde”. Sostiene che le cosiddette transizioni energetiche verdi promuovono un nuovo superciclo di materie prime e posizionano i paesi ricchi di risorse come fornitori di risorse fondamentali e di “spazi vuoti” a favore del Nord.

Tuttavia, anche gli Stati del Sud del mondo hanno svolto un ruolo attivo nel rafforzare la loro posizione subordinata nella catena di approvvigionamento globale. La sociologa e filosofa argentina Maristella Svampa racconta come Argentina, Bolivia e Cile, che ospitano il famoso “Triangolo del Litio”, abbiano sviluppato in modo aggressivo strategie nazionali nel mezzo di una corsa geopolitica per superarsi a vicenda nel mercato del litio e, generando così una nuova configurazione del potere mondiale. Il litio, come scrive Svampa, è diventato una rappresentazione simbolica e materiale, nonché il “passepartout” di una transizione energetica di tipo aziendale verso una società post-fossile. Come Dietz, Svampa svela l’episteme che sta alla base di questo modello di transizione, che secondo lei risiede nella posizione ideologica secondo cui “il potenziale di cambiamento si percepisce solo nell’efficienza tecnologica e - quindi - di consumo, senza prendere in considerazione che si possano cambiare le stesse logiche di quel consumo".

Alla base di questa analisi ci sono le domande fondamentali dell’economia politica: chi possiede cosa? Chi fa cosa? Perché? E chi vince e chi perde? Nel capitolo di Hamza Hamouchène, attivista e ricercatore algerino, si relaziona meticolosamente come le transizioni verso le energie rinnovabili in Nord Africa costituiscano un “colonialismo energetico”, di natura estrattiva e riprodotto sotto forma di “green grab”. Utilizzando dati estesi provenienti dalla regione, Hamouchène mette in evidenza il modo in cui i cliché coloniali sul Sahara vengono propagati e utilizzati per attuare la strategia dell’Unione Europea sull’idrogeno verde nel quadro del Green Deal Europeo. Il suo saggio descrive anche una feroce politica di resistenza caratterizzata da corpi sacrificati e indotta dal “Consenso sulla Decarbonizzazione”.

Tutti i contributi a questa sezione sottolineano le cause strutturali alla base della policrisi. Mentre Hamouchène sostiene che “la colpa è del capitalismo”, altri come John Feffer e Edgardo Lander sottolineano gli aspetti più specifici del capitalismo, ad esempio il modello di produzione e il consumo eccessivo. In effetti, diversi autori sottolineano anche nella sezione successiva del libro le continue relazioni coloniali di potere intrecciati con lo stile di vita imperiale (principalmente i casi di Christian Dorninger, Ulrich Brand e Miriam Lang). Allo stesso modo, tutti gli autori/trici illustrano le relazioni costitutive tra espropriazione e accumulazione su diverse scale. Nel loro capitolo congiunto, John Feffer, analista politico statunitense, e Edgardo Lander, sociologo e intellettuale venezuelano, si chiedono se i più grandi inquinatori del mondo possano salvare il pianeta. Sostengono che [...] le “transizioni energetiche pulita” di Stati Uniti, Europa e Cina devono essere valutate non solo in termini di divario tra promesse e obiettivi globali e di divario tra politiche dichiarate ed effettiva attuazione, ma anche in termini di danno netto globale all’ambiente e ai popoli del Sud. Feffer e Lander si riferiscono con enfasi all’esternalizzazione dei costi socio-ambientali verso il Sud del mondo e al rifiuto di affrontare il consumo eccessivo nei paesi più ricchi come motore di fondo del cambiamento climatico.

In modo complementare, Ivonne Yánez e Camila Moreno mostrano come il “Decarbonization Consensus”, formulato da Bringel e Svampa, si basi sulla premessa della falsa equivalenza e dell’ossessione per il carbonio e la “neutralità climatica”. Yánez, un attivista ecuadoriano, e Moreno, un attivista-ricercatore ambientale brasiliano, demistificano l’idea che una molecola di carbonio emessa in un luogo sia equivalente a una molecola di carbonio catturata in un altro luogo. Con tono enfatico e con prove che arrivano dall'Ecuador, sostengono che le emissioni “zero netto” danno solo licenza agli inquinatori del mondo di continuare a inquinare.

Nei capitoli di questa sezione, gli autori mettono in discussione il Nord e il Sud del mondo non come categorie geografiche, ma come costruzioni geopolitiche ed epistemiche dinamiche situate in configurazioni di potere sia storiche che contemporanee. Un’altra questione affrontata in diversi capitoli è la relazione dei modelli di transizione egemonica con il tempo/temporalità diverse e lo spazio/luogo. Rispetto a quest'ultimo, il concetto di zone di sacrificio, inizialmente coniato per descrivere i territori annientati a causa della produzione e dei test nucleari durante la Guerra Fredda, è stato ampliato per riferirsi a luoghi e spazi con pericolosi livelli di inquinamento e degrado ecologico, e dove le comunità sono state sacrificate con il pretesto della crescita e dello sviluppo economico (Valenzuela-Fuentes et al., 2020) e, più recentemente, delle transizioni energetiche. I contributi evidenziano come i modelli egemonici di transizione convertano in sacrificabili determinate vite, corpi, popolazioni e paesaggi. I saggi di Hamouchène e Dietz offrono descrizioni grafiche di come le comunità indigene, pastorali e agricole diventino "usa e getta", nonché delle risposte, proteste e lotte di resistenza che tali processi generano. Il malcontento è un filo rosso che unisce i contributi di questa sezione.

Per quanto riguarda le temporalità, il capitolo di Feffer e Lander si riferisce esplicitamente alle scadenze e ai termini ultimi che si includono negli obiettivi e nei traguardi dichiarati dei numerosi (nuovi) Green Deal. Yánez e Moreno, dal canto loro, articolano una diversa concezione del tempo in relazione alla transizione e alle vie d’uscita dalla policrisi. Si basano sulla conoscenza indigena secondo la quale “transizione” significa “trasformarsi e convertirsi”, il che implica “camminare con il passato davanti”. Questa forma non lineare di pensare il tempo, rimanda a una narrazione simile posta da altri contributi nella terza sezione del libro: valorizzare altre vie e altri modi di fare e di essere come alternative civilizzatrici.

Analizzando il colonialismo verde: interdipendenze e coinvolgimenti globali

L’immaginazione e la costruzione di trasformazioni ecosociali è ostacolata da processi, relazioni e istituzioni strutturali e geopolitiche che intrecciano il Nord globale e il Sud globale in una divisione internazionale ineguale del lavoro e nei modelli coloniali di potere. Nella seconda parte, gli autori analizzano le interdipendenze e i fattori strutturali, spesso perversi, che complicano, rallentano o impediscono la prospettiva di transizioni giuste e sovrane nei luoghi e nelle regioni del Sud del mondo.

La seconda parte del libro si apre con un articolo di Christian Dorninger, ricercatore interdisciplinare residente in Austria. L'autore approfondisce lo scambio commerciale ed ecologico ineguale nel commercio, nella produzione e nel consumo economico, che ritiene sia la chiave per comprendere le disuguaglianze e le interdipendenze di lunga data tra le regioni più ricche e quelle più povere del mondo. Utilizzando indicatori dell’impronta ecologica, Dorninger mostra come i modelli globali di scambio ecologicamente ineguale e di drenaggio del Sud del mondo attraverso l’appropriazione imperiale, non si siano fermati con la fine del dominio coloniale. Il suo capitolo procede rivelando la portata di estrazione e appropriazione, quanto il Nord del mondo ha estratto e di quanto del Sud del mondo si è appropriato a partire dagli anni ’90.

Successivamente, tre attivisti-accademici ecuadoriani, Miriam Lang, Alberto Acosta e Esperanza Martínez, chiamano la nostra attenzione sulla centralità del debito, nelle sue varie forme, come “un potente mezzo di sfruttamento, sottomissione e riduzione in schiavitù” che ha plasmato la divisione internazionale della manodopera e della  Natura, e che struttura ancora le relazioni tra i Nord e i Sud del mondo, per cui la prosperità di alcuni è costruita sul saccheggio e sulla subordinazione di altri. Nella loro esaustiva analisi, Lang, Acosta e Martínez affrontano le diverse dimensioni del debito e le loro intersezioni, dal debito sovrano e popolare al debito coloniale ed ecologico, evidenziandone gli effetti multidimensionali e devastatori per le comunità, l’ambiente e intere società. Utilizzando il femminismo intersezionale e decoloniale, dipingono un quadro doloroso di come il debito abbia indotto la privatizzazione della sfera riproduttiva e di come l’indebitamento colpisca in modo sproporzionato le donne e i corpi femminilizzati: ma allo stesso tempo, delineano misure politiche per affrontare i “debiti eterni del Sud”.

Sebbene la questione del debito debba essere affrontata in maniera ampia, il ruolo dello Stato rimane cruciale. Ulrich Brand, accademico austriaco, e Miriam Lang, accademica femminista decoloniale, esplorano la logica dello Stato come attore che riproduce relazioni capitaliste, patriarcali, razziste e internazionali, ma allo stesso tempo è un interlocutore rilevante quando si tratta di preoccupazioni socio-ecologiche. Nella loro analisi approfondita, Brand e Lang svelano i molteplici ruoli, le contraddizioni e ambiguità interne, nonché le dimensioni relazionali e multiscalari dello Stato, che sono fondamentali per comprendere le complessità alla base delle strategie politiche relative alla gestione con lo Stato delle trasformazioni ecosociali. Con tono provocatorio, invitano i lettori a riflettere sulla sfida collettiva di realizzare un cambiamento trasformativo concentrandosi non solo sul cambiamento delle politiche, ma anche sull’alterazione dello stesso apparato statale, insieme alle sue strutture, processi e burocrazie.

Nel suo capitolo, il poeta e attivista ambientalista nigeriano Nnimmo Bassey si ispira all'analisi di Brand e Lang dello stato come “condensazione di una relazione di forze sociali” e di come il colonialismo e il capitalismo hanno plasmato le strutture e le epistemi statali. Da una prospettiva panafricana, Bassey dipinge un quadro desolante del colonialismo verde nel continente: “l’immaginazione collettiva dei paesi africani e dei loro leader” di dipendere dagli introiti provenienti dai combustibili fossili per adattarsi ai disastri indotti dal clima. La ferma e incrollabile fiducia ideologica negli investimenti diretti esteri da parte degli stati africani in cambio di risorse naturali e manodopera a basso costo continua a trincerarli in questo “intercambio commerciale ed ecologico diseguale”, per dirlo con le parole di Dorninger.

Questa catena mondiale di approvvigionamento di minerali critici per la transizione energetica e la lotta geopolitica, sono temi-chiave che l'avvocato indonesiano Rachmi Hertanti esamina nel suo saggio. Nello stesso tempo in cui esplora il ruolo dello “Stato” negli intrecci Nord-Sud, focalizza la sua analisi sulle posizioni che occupano nella catena di approvvigionamento sia dei paesi industrializzati centrali che dei periferici. Sostiene fermamente che gli accordi di libero scambio e di investimento sono meccanismi concreti che rinchiudono i paesi ricchi di risorse dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa per convertirli poi in fornitori costanti di materie prime per le voraci esigenze di transizione verde delle principali potenze. A differenza di Bassey, che si concentra sulla dipendenza dai combustibili fossili degli stati africani, Hertanti esplora le misure neo-protezionistiche istituite dallo stato indonesiano nel tentativo di garantire il proprio approvvigionamento interno e incoraggiare l’industrializzazione interna del settore minerario. Tuttavia, ciò è ostacolato dai meccanismi presenti negli accordi di libero scambio che consentono agli investitori di citare in giudizio gli Stati quando i loro profitti sono minacciati. Il saggio di Hertanti dà vita alle affermazioni di Brand e Lang sulle contraddizioni dello Stato: la continua adesione del Sud a tali accordi che promuovono gli interessi creati dai paesi potenti, mentre ostacolano le sue stesse abilità e capacità di tessere percorsi di trasformazione autodeterminati.

La multiscalarità degli intrecci tra Nord e Sud del mondo è rafforzata dal principio dei molteplici stakeholder o “multistakeholderismo” ambientale globale, analizzato criticamente da Mary Ann Manahan, una ricercatrice attivista femminista filippina. Manahan critica “il multistakeholderismo come forma di governance globale privatizzata caratterizzata dal sequestro attuato dalle corporations, deficit democratico e di responsabilità economica e una ONU complice, ciò che ha portatoa una crisi del multilateralismo. Il suo capitolo fa propria l'analisi di Yánez e Moreno sulle epistemi dietro alla nuova “soluzione verde” delle “soluzioni basate sulla natura”, che restringono le soluzioni ai problemi ecosociali del mondo attuale.

I contributi di questa sezione offrono anche diverse prospettive su come trasformare le interdipendenze desiguali e le relazioni Nord-Sud. Lang, Acosta e Martínez delineano possibili strategie di riparazione per far fronte ai problemi multidimensionali del debito. Bassey, a sua volta, sottolinea che la transizione decolonizzante richiede la trasformazione di interi sistemi energetici, economici e politici attraverso il panafricanismo dal basso. Allo stesso modo, Hertanti invita ad avviare un processo che sviluppi la prassi della transizione energetica dei popoli guidata dalla classe lavoratrice. Brand e Lang sottolineano, tuttavia, che le strutture e i processi democratici a livello locale sono decisivi ma insufficienti, e richiedono invece un approccio multiscalare per trasformare lo Stato a livello interno e relazionale. Per fare ciò è necessario anche frenare non solo il potere dei paesi industrializzati, ma anche quello delle imprese private divenute attori chiave negli spazi di governance globale. Nelle parole di Manahan, per ricostituire il multilateralismo democratico radicale, bisogna riconsiderare le richieste di redistribuzione della ricchezza e delle risorse, i poteri decisionali e mettere in primo piano i bisogni e le aspirazioni delle comunità emarginate di tutto il mondo.


Orizzonti verso un futuro degno e realizzabile

La terza e ultima parte del libro riunisce un’ampia gamma di approcci e proposte controegemonici all’interno dei Nord e dei Sud del mondo che aspirano a giuste transizioni ecosociali. I contributi di questa sezione evidenziano processi e immaginari pluriversali che non solo smascherano il colonialismo verde e sfidano i progetti ufficiali di transizione, ma mettono anche in pratica le molteplici visioni, conoscenze, ontologie relazionali e pratiche possibili, che sono in atto e che sono necessarie. 

Nel mostrare orizzonti multidimensionali radicati nelle lotte anticoloniali, antipatriarcali, anticapitaliste e antirazziste, nelle storie e nei territori dei popoli colonizzati e nelle diverse relazioni di natura sociale, i capitoli sono testimonianze vive che esistono molte possibili soluzioni alle ingiustizie “universali” e ai problemi globali causati da relazioni diseguali ed estrattive, verso un mondo in cui entrano molti mondi, come suggeriscono gli zapatisti.

Nel capitolo di apertura, Tatiana Roa Avendaño, un’attivista ambientale colombiana, e Pablo Bertinat, un ingegnere elettrico e accademico argentino, affrontano le alternative alle transizioni energetiche verdi. Usando discorsi anticapitalisti e socio-ecologici, sostengono che “transizioni energetiche giuste e popolari” riformulano l’energia non come un “settore”, ma come un diritto collettivo e comune fondamentale per il tessuto della vita e le relazioni che la sostengono. Ispirato dalle visioni del mondo indigene dell’America Latina secondo cui “il petrolio è il sangue della terra”, questa riformulazione apre diverse strade verso la demercificazione, la deprivatizzazione, la democratizzazione e la vera decarbonizzazione del sistema energetico, oltre alla trasformazione del modello di produzione e consumo che lo sostiene.

Dall’altra parte dell’Atlantico, anche Zo Randriamaro, una ricercatrice e attivista femminista per i diritti umani, originaria del Madagascar, si concentra sulle trasformazioni ecosociali dal basso verso l’alto. Sostenendo una prospettiva decoloniale panafricana, delinea il potere degli ecofemminismi africani nel plasmare trasformazioni ecosociali radicali nel continente. Il suo capitolo esplora le radici, le pratiche passate e presenti e le visioni del mondo dei movimenti africani che hanno adottato la politica ecofemminista. Il saggio si apre a una politica di speranza: nonostante il massiccio sfruttamento coloniale e l’espansione capitalista, le lotte e gli orizzonti ecofemministi si stanno producendo nel contesto della storia africana, con le donne e le altre comunità emarginate in prima linea.

Con l’obiettivo di tessere dialoghi tra alternative sistemiche globali, i capitoli successivi sono dedicati al tema della decrescita. Bengi Akbulut, un’economista politica femminista turca residente in Canada, sottolinea in modo eloquente la decrescita come una proposta che ricentra e riorienta l’economia oltre la nozione di riduzione biofisica e materiale. Utilizzando la riproduzione sociale come concetto centrale organizzativo e di mobilitazione di questa trasformazione, identifica tre assi necessari a tal fine: mettere in primo piano una concezione più ampia di ciò che costituisce il lavoro, la decrescita come/attraverso giustizia, in particolare rispetto alle relazioni storiche e attuali Nord/Sud, nonché autonomia e democrazia come principi organizzativi di un’economia della decrescita. Akbulut invita i lettori a osare nel porre domande su “cosa, quanto e per chi produrre e in quali condizioni”, nella speranza di “aprire uno spazio per obiettivi alternativi e ripoliticizzare l’economia sottoponendola alla deliberazione e al controllo della società”.

Nel suo saggio Luis Gonzáles Reyes accetta la sfida di Akbulut. Questo attivista spagnolo specializzato in ambiente ed energia, delinea i profondi cambiamenti necessari in termini di ampiezza, profondità e velocità per generare trasformazioni ecosociali. Partendo da un approccio di decrescita, sostiene una trasformazione radicale dell’economia e del mondo del lavoro che riduca il consumo materiale ed energetico, localizzi e diversifichi l’economia, integri produzione e riproduzione in un’unica unità e per una ridistribuzione della ricchezza tra e dentro i territori, ancorato alla giustizia globale. Utilizzando dati che si riferiscono alla Spagna, dimostra l’urgenza di ripensare il concetto di lavoro, separandolo dall' "impiego", che ha rappresentato la base del sistema capitalista, ed apliandolo al lavoro di cura e al lavoro produttivo comunitario.

Un’economia in declino richiede anche un cambiamento nel modo in cui viene prodotto il cibo. La leader della ONG bengalese Farida Akhter condivide l’esperienza del movimento contadino Nayakrishi Andolon (Movimento per una Nuova Agricoltura), che non solo si oppone all’agricoltura industriale guidata dalle multinazionali e ad alta intensità chimica, ma promuove una pratica di sistemi agricoli basati sulla biodiversità a cui partecipano più di trecentomila famiglie contadine del paese. Il suo capitolo evidenzia le varie strategie messe in atto da questo movimento, una delle quali è la ricostituzione delle reti comunitarie di sementi e pratiche di conoscenza guidate dalle donne contadine.

Questa dinamica interrelazionata di resistenza e re-esistenza acquisisce importanza nel capitolo collettivo di María Campo, una femminista colombiana nera, e Arturo Escobar, un ricercatore-attivista colombiano e conosciuto accademico, su una co-costruzione in corso di una radicale trasformazione ecosociale pluriversale radicata in una bioregione del sud-ovest della Colombia: el Valle geografico del fiume Cauca e i suoi territori. La sua traiettoria e itinerario di ricerca-azione fa eco agli altri contributi di questa sezione enfatizzando ontologie ecologiche e relazionali che pongono al centro cura e ricostituzione del tessuto della vita. Ciò che Campo ed Escobar delineano, inoltre, sono obiettivi concreti, strategie e azioni che emergono dalle esperienze vissute e dalle pratiche dei gruppi de El Valle, in particolare dei popoli e dei corpi che se ne sono presi cura e l'hanno ricostruito, risanando le terre devastate dal conflitto in Colombia.

Finora i contributi si sono concentrati sui livelli micro (comunitario), macro (nazionale) o meso regionale/territoriale/bioregionale). Ciò che ovviamente manca è un approccio globale. Questo è ciò che fanno gli attivisti e sociologi brasiliani Breno Bringel e Sabrina Fernandes nell'ultimo capitolo, chiudendo il libro facendo luce su quello che chiamano “internazionalismo ecoterritoriale”, un possibile orizzonte per una giustizia ecosociale globale trasformativa. Bringel e Fernandes situano la loro proposta nella storia dell'organizzazione internazionalista e nell'evoluzione degli internazionalismi negli ultimi decenni, evidenziando l'emergere di reti e coalizioni transnazionali, spazi globali di convergenza e il movimento per la giustizia globale. 

Il capitolo invita i lettori a ripensare la promozione della solidarietà tra diversi gruppi colpiti dal debito ecologico e dalle asimmetrie Nord-Sud, riconoscendo al tempo stesso che c’è spazio per alleanze tra Nord e Sud del mondo. Tutti i capitoli sono supportati da solide prospettive anticapitaliste, anticoloniali, antirazziste e antipatriarcali, che sono fondamentali per (re)immaginare e costruire proposte di transizione controegemoniche. I contributi di questa sezione evidenziano diverse episteme: l’importanza di cambiare radicalmente il modo in cui produciamo, distribuiamo e consumiamo – il modo in cui sono organizzate le nostre economie e società; rafforzare e recuperare i rapporti tra società e Natura; smantellare le strutture e i processi interni e internazionali delle relazioni estrattive e asimmetriche Nord-Sud.

Tuttavia, esistono tra loro anche differenze marcate, e forse inesplorate, in relazione alla scala (su quale livello della società concentrarsi?); le nozioni del "pubblico" di fronte al "comune"; di  sovranità e autonomia (come relazionarsi con lo Stato? Dovremmo separarcene o ristrutturarlo internamente?); i rapporti tra città e campagna e il ruolo della tradizione nel delineare percorsi e orizzonti per le trasformazioni ecosociali. È importante che nei lavori futuri si esplorino queste linee di riflessione politica in maniera più dettagliata.

Infine, gli autori di questa raccolta non presentano alternative come modelli o visioni che debbano imporsi in altre parti del mondo ma, come scrive Akbulut, piuttosto come “una tra le tante visioni del vivere bene ed equamente andando oltre la crescita capitalista”. Questo è, dopo tutto, il messaggio chiave che vogliamo evidenziare: che si sta forgiando un tessuto di alternative, in cui la resistenza e la re-esistenza costituiscono la (re)immaginazione e la costruzione di altri mondi.  


(3. Fine)

* Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network


Más allá del colonialismo verde. Justicia global y geopolítica de las transiciones ecosociales
(a cura di) Miriam Lang, Breno Bringel, Mary Ann Manahan.
Scritti di: Breno Bringel, Miriam Lang, Mary Ann Manahan, Alberto Acosta, Bengi Akbulut, Farida Akther, Nnimmo Bassey, Pablo Bertinat,  Ulrich Brand, María Campo, Christian Dorninger, Kristina Dietz, Arturo Escobar, John Feffer, Sabrina Fernandes, Luis González Reyes, Hamza Hamouchène, Rachmi Hertanti, Edgardo Lander, Esperanza Martínez, Camila Moreno, Zo Randiamaro, Tatiana Roa Avendaño, Maristella Svampa, Ivonne Yánez.
Ciudad Autónoma de Buenos Aires, CLACSO, 2023 - 397 pp.
 


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07 dicembre 2023 (pubblicato qui il 10 dicembre 2023)