
Negli ultimi anni, tutte le principali potenze mondiali (Unione Europea, Stati Uniti e Cina) si sono impegnate a ridurre le emissioni di carbonio e a riorientare le proprie economie verso modalità di produzione a bassa emissione di carbonio e decarbonizzate, puntando contemporaneamente a nuove opportunità di crescita economica “green”. Più recentemente, seguendo generalmente la stessa logica, anche altri paesi stanno iniziando ad annunciare i propri piani di “transizione ecologica”. Ma questo Consenso sulla Decarbonizzazione è contrassegnato dal colonialismo verde. Muove pratiche e immaginari ecologici neocoloniali. Con una nuova svolta nella retorica della “sostenibilità”, si sta aprendo una nuova fase di espropriazione ambientale del Sud globale, che colpisce la vita di milioni di esseri umani e non umani, compromettendo ulteriormente la biodiversità e distruggendo ecosistemi strategici.

Nel mentre, la guerra in Ucraina ha riacceso le tensioni geopolitiche e rafforzato la dipendenza internazionale dai combustibili fossili, dando priorità alle preoccupazioni a breve termine riguardo alla sicurezza energetica. Le compagnie transnazionali del petrolio e del gas stanno contemporaneamente pianificando di espandere le loro attività legate ai combustibili fossili esplorando al contempo nuove tecnologie redditizie, ad esempio relative all’idrogeno. “Capitalismo verde” o “estrattivismo verde” è il nome che gli attivisti e gran parte della letteratura accademica danno ora alla dinamica dell’“accumulazione per defossilizzazione” (Slipak e Argento, 2022).
La ricerca e l’innovazione tecnologica prosperano, ma sono anche profondamente radicate nei paradigmi della redditività, del progresso infinito e della crescita economica, invece che orientarsi verso la fondamentale necessità di sostenere e riprodurre la vita. Pertanto, si dirigono principalmente verso una distruzione ancora più profonda del nostro habitat e del nostro tessuto sociale, aprendo strade verso lo sfruttamento degli idrocarburi in scenari sempre più rischiosi, verso la geoingegneria su scala planetaria per tornare a "mettere sotto controllo" le temperature o l’intelligenza artificiale per sostituire l’apprendimento e la comprensione umana delle complesse interrelazioni che sono all’origine della vita stessa. Per questo motivo, molti attori del Sud del mondo oggi denunciano le transizioni ecologiche egemoniche e la loro logica, anche se le loro voci non sempre vengono ascoltate.
Un Sud del mondo reso invisibile con finalità di appropriazione
Come persone le cui vite e lotte gravitano verso il Sud del mondo, ma che hanno molteplici legami e, per alcuni/e di noi, anche radici nel Nord del mondo, siamo state testimoni di molti dibattiti e pratiche che cercano di affrontare il collasso ecologico in diverse regioni del mondo. Soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, siamo rimasti sorpresi dalla costante invisibilità del Sud del mondo in questi dibattiti e dalla naturalezza con cui si dà per assunto che tutti i “minerali critici” e le estensioni di terra necessarie per tutte le auto elettriche, i giganteschi impianti solari o eolici e la digitalizzazione della produzione che promettono per ottenere una crescita verde, da qualche parte arriveranno. I documenti si centrano retoricamente su “alleanze verdi” e “materie prime sostenibili” (Commissione Europea, 2019) per superare le altre potenze mondiali nella corsa al primato geoeconomico, senza dettagliare come l’estrattivismo possa diventare “sostenibile” e le relazioni Nord-Sud meno asimmetriche. Le loro preoccupazioni sono piuttosto focalizzate sull'ottenimento delle quantità necessarie.
Nel frattempo, nella selva tropicale ecuadoriana, la deforestazione è guidata dall’appetito cinese per l’albero di balsa utilizzato nella costruzione delle turbine eoliche. In Sud Africa, le enormi infrastrutture delle centrali di idrogeno per l’esportazione di energia “pulita”, si convertono in un grosso problema per le comunità che basano il proprio sostentamento sulla pesca o sull’agricoltura su piccola scala. Nel Maghreb, i pastori stanno perdendo la loro terra e l’acqua a causa degli enormi parchi solari in costruzione per fornire “energia verde” all’Europa. Nel triangolo del litio del Sud America, le comunità combattono per le scarse risorse idriche che vengono sempre più accaparrate dall’estrazione al fine di produrre auto elettriche con batterie al litio. Alla ricerca di una nuova legittimità di fronte alle attuali lotte per i mezzi di sussistenza o per i territori, queste recenti pratiche di appropriazione ed espropriazione sono state etichettate come “verdi”.
Il colonialismo verde si dispiega in almeno quattro diverse dimensioni delle relazioni geopolitiche Nord-Sud man mano che vengono rimodellate e aggiornate nel contesto del Consenso della Decarbonizzazione. In primo luogo, nella domanda illimitata di materie prime nella nuova corsa globale alla sicurezza energetica, che aggiunge un ulteriore livello “verde” alle pressioni estrattive già esistenti. In secondo luogo, nell’imposizione di alcuni format di conservazione nei territori del Sud nel contesto di schemi di compensazione del carbonio, che allo stesso tempo consentono di rinviare ancora di più cambiamenti strutturali urgenti nei processi produttivi inquinanti delle economie del Nord. La terza dimensione è l’uso di luoghi nel Sud del mondo come discariche per rifiuti tossici ed elettronici generati attraverso fonti energetiche rinnovabili (Sovacool et al., 2020); e, infine, il quarto è la proiezione dei Sud come nuovi mercati per vendere tecnologie rinnovabili a prezzi elevati all’interno dell’architettura asimmetrica del commercio globale, perpetuando così scambi ineguali (Hickel et al., 2022).
In molti dibattiti nel Nord del mondo, le geografie in cui avverrà questa appropriazione sono immaginate o rappresentate come se non ci fossero persone o conflitti, come se fossero su un altro pianeta, per cui nulla dovrebbe preoccuparci.
Ci indigna vedere come certi paesaggi, corpi e intere popolazioni del Sud del mondo vengano dichiarati usa e getta. Ecco come vengono riprodotti gli elementi oggi reciprocamente costitutivi del colonialismo, patriarcato e capitalismo che esistono dal XVI secolo: le geografie destinate all’accumulazione si approfittano di altre geografie, destinate ad essere saccheggiate (Machado Aráoz, 2015). L’attuale colonialismo verde continua ad espropriare materiali e a riprodurre relazioni coloniali, mentre irretisce le resistenze proclamandosi rispettoso dell’ambiente e indispensabile per garantire un futuro all’umanità: uno scenario in cui, apparentemente, le popolazioni razziate del Sud del mondo ancora non trovano posto.
Queste pratiche sono continuamente alimentate da immaginari neocoloniali. Ad esempio, l’idea di “spazio vuoto”, tipica della geopolitica imperiale, è spesso utilizzata da governi e imprese. In passato, questa idea, che integra la nozione ratzelliana di “spazio vitale” (Lebensraum), ha generato ecocidio ed etnocidio indigeno, ed è poi servita a promuovere politiche di “sviluppo” e “colonizzazione” dei territori.
Attualmente viene utilizzata per giustificare l’espansionismo territoriale per gli investimenti nell’energia “verde”. In questo modo, vaste estensioni di terra in zone rurali scarsamente popolate sono considerate “spazi vuoti” adatti alla costruzione di mega impianti eolici o centrali a idrogeno.
Ci sorprende come anche le forze politiche che si considerano alternative, dissidenti o di sinistra, cioè contrarie all’egemonia della civiltà capitalistica globale, neanche accennano a pensare alla trasformazione ecosociale in termini veramente globali, in una prospettiva di giustizia sociale e ambientale globale. E' sconcertante constatare fino a che punto è ritenuto naturale l'esternalizzare i costi sociali e ambientali di uno stile di vita imperiale (Brand e Wissen, 2021), sostenuto sia da una routine quotidiana normalizzata che da strutture e regole globali storicamente asimmetriche. E così anche il modo con cui tutto questo è ritenuto politicamente passabile, o anche presumibilmente accettabile o fattibile.
Nei dibattiti sulla transizione energetica, sull’efficienza e sulla sicurezza, i privilegi sono sorprendentemente evidenti nelle società del Nord, come d'altra parte durante i primi anni della pandemia di COVID 19. Questa evidenza si basa sulla naturalezza di essere cresciuti in un contesto in cui la propria vita e i propri diritti sono meritevoli di tutela, e di essere implicitamente consapevoli che questo non è così per la maggioranza della popolazione mondiale. La colonialità dell’essere, del potere e del sapere, come brillantemente rivelata dal sociologo peruviano Aníbal Quijano, appare ovunque nel Nord, nei dibattiti sulla transizione energetica, efficienza e sicurezza.
Questo libro cerca di rendere tutto ciò visibile e di far risuonare le voci che normalmente non vengono ascoltate in questi dibattiti. Vuole amplificare e discutere le prospettive di reti, movimenti e alleanze del Sud del mondo per contribuire a generare un contrappeso più forte alla nuova fase egemonica del capitalismo coloniale verde basato sulla tecnologia e guidato dalle imprese. Intervenendo in questo dibattito da una prospettiva intersezionale e internazionalista, articola linee di dibattito che altrimenti sarebbero divise da limiti
disciplinari e nazionali.
Una delle premesse di questo libro è che non può esserci trasformazione ecosociale senza giustizia globale. Il nostro pianeta è un ecosistema ultracomplesso di cui gli esseri umani fanno parte. La pandemia di Covid-19 ci ha mostrato chiaramente dove andiamo a finire quando non consideriamo dall’inizio soluzioni sistemiche per tutti, ma diamo invece priorità agli interessi nazionali o delle imprese.
Allo stesso tempo, abbracciamo la giustizia in tutte le sue dimensioni: sociale, razziale, di genere, ecologica, interetnica e interspecie, come riflesso nella diversità degli approcci qui inclusi, che vanno dall’ecofemminista all’economia ecologica, e dall’economia socialista a quella pluriversale.
Gli autori e le autrici di questo libro hanno carriere che combinano l’attivismo con la produzione di conoscenza in ambienti diversi. Non solo scrivono delle lotte per la trasformazione ecosociale, ma ne fanno anche parte.
Una seconda premessa centrale è che la trasformazione ecosociale necessita di ridurre urgentemente il consumo umano di energia e materia in termini assoluti, il che implica cambiamenti pianificati e profondi nelle nostre modalità di produzione e approvvigionamento.
La decrescita pianificata, soprattutto nel Nord del mondo – accompagnata da riforme strutturali verso un’equa distribuzione dei mezzi materiali necessari per riprodurre la vita, sia all’interno che tra paesi o regioni – è una dimensione ineludibile di questa trasformazione.
Ecco perché abbiamo invitato le voci del movimento per la decrescita a contribuire alla terza sezione. La giustizia globale sarà raggiunta solo se le voci critiche del Nord e del Sud del mondo si uniranno, nonostante le loro specificità, su un percorso comune.
Gli autori e le autrici di questo libro parlano linguaggi molto diversi, non solo a causa delle loro diverse origini sociogeografiche, ma anche per le loro diverse traiettorie epistemiche e attivistiche. Questa diversità si riflette nello stile dei capitoli, che insieme formano un dialogo tra diversi modi di pensare, conoscere e comprendere la trasformazione ecosociale. Riteniamo che questa diversità di approcci sia esattamente ciò che è necessario per superare la fiducia cieca nelle soluzioni basate sulla tecnologia.
La colonialità climatica come ultima tappa del colonialismo verde
Sebbene l’idea del colonialismo verde abbia guadagnato terreno nell’ultimo decennio per definire l’estrattivismo verde contemporaneo, in precedenza veniva utilizzata principalmente dalla storia ambientale per definire un processo a lungo termine. Come afferma Richard Grove, uno dei principali esponenti di questo campo di studi, [...] il tipo di trasformazione omogeneizzante ad alta intensità di capitale delle persone, del commercio, dell'economia e dell'ambiente che conosciamo oggi, può risalire almeno agli inizi dell'espansione coloniale europea, quando gli operatori del nuovo capitale europeo e dei mercati urbani hanno cercato di ampliare le loro aree di attività e le loro fonti di materie prime (Grove, 1995).
Inteso in questo modo, il colonialismo verde non è un fenomeno recente, ma è associato a un modello storico di potere coloniale ed espansione capitalista. L'estrattivismo è nel DNA del colonialismo dal 1492. In un libro brillante, Horacio Machado Aráoz mostra in dettaglio come Potosí sia diventato il punto di partenza di una nuova era, geologica e di civilizzazione, in cui l'estrazione mineraria moderno-coloniale funge da innesco del Capitalocene (Machado Araóz, 2018). Questo modello è cambiato nel corso dei secoli. Sebbene la logica estrattivista e la violenza coloniale contro corpi, territori ed ecosistemi siano sempre state mantenute, è diventato più complesso con l’emergere di nuove condizioni materiali e meccanismi di giustificazione. Con l’espansione del colonialismo, si è formato un nuovo immaginario geopolitico moderno sulla Natura e sull’“altro” non-occidentale per giustificare l’accaparramento di terre e la sottomissione di intere popolazioni. Paradossalmente, è stata la distruzione ecologica causata dal colonialismo a consentire, a partire dalla metà del XVII secolo, l’emergere di una preoccupazione per la conservazione dell’ambiente.
Da allora, le potenze coloniali hanno reso la loro strategia imperiale più complessa: continuano a distruggere la natura ed estrarre tutta la ricchezza che possono, ma allo stesso tempo costruiscono politiche e discorsi conservazionisti. Vimbai Kwashirai, ad esempio, ha analizzato il colonialismo verde nello Zimbabwe dalla fine del XIX secolo alla fine del XX secolo e ha mostrato nel dettaglio sia le ricadute socio-ambientali del colonialismo britannico sia le diverse tipologie di conflitti, relazioni e mediazioni tra funzionari coloniali, imprese, scienziati e agenti locali sullo sfruttamento del legname e sulla conservazione delle foreste (Kwashirai, 2009).
Come sostiene Ravi Kumar, la tensione tra la difesa della conservazione e la distruzione delle foreste in Africa e in Asia è un’eredità del colonialismo britannico. Nel caso specifico del sud dell’India, esamina come il “colonialismo verde” britannico abbia prima distrutto le foreste - incolpando i nativi per averlo fatto - e poi abbia creato una politica di controllo dei paesaggi forestali, sostenendo che era importante mantenere ed espandere il controllo statale sulla natura al fine di controllare il clima e i sistemi d'irrigazione, migliorando così il benessere del paese (Kumar, 2010).
Il controllo tecnologico e il dominio dei paesaggi sono stati fondamentali per la continua riproduzione del colonialismo verde.
Daniel Headrick suggerisce che l’ingegneria idraulica sia stata uno dei principali motori dell’imperialismo europeo (Headrick, 1981). La costruzione di canali, ampliamenti e dighe sarebbe servita a mantenere il potere imperiale anche dopo il colonialismo formale attraverso la necessità indotta di trasferimento di tecnologia.
Ma non si tratta semplicemente di stabilire un rapporto di dipendenza materiale. Donald Worster offre un esempio interessante, sostenendo che, dopo l'installazione di progetti di irrigazione in India e l'istituzione di varie forme di controllo dell'acqua, il rapporto del popolo indiano con l'acqua non è più stato lo stesso (Worster, 2008). I sistemi idrici comunitari in diverse parti del Sud del mondo furono così smantellati e iniziarono ad essere controllati dal capitalismo coloniale e dalle autorità statali per raggiungere i propri obiettivi. Di conseguenza, l’antropocentrismo implica non solo la moderna ossessione per il controllo umano sulla Natura, ma anche una forma di indifferenza, disprezzo e inferiorità verso il valore di altre forme di organizzazione della riproduzione sociale.
Il colonialismo verde, quindi, è stato storicamente forgiato con il capitalismo e la mercificazione della Natura, combinando espansione materiale e controllo soggettivo, e ciò si esprime nella “colonialità della Natura” (Coronil, 2000). Secondo Héctor Alimonda, uno dei promotori dell’ecologia politica latinoamericana, per il pensiero egemonico globale e le élite dominanti, questa colonialità della Natura presenta l’America Latina (e altre regioni del Sud del mondo) come uno spazio subalterno che può essere sfruttato, distrutto e riconfigurato secondo le esigenze dei regimi di accumulazione dominanti. Ciò incide sulla realtà biofisica (la flora, la fauna, gli abitanti umani, la biodiversità dei loro ecosistemi), la configurazione territoriale (le dinamiche socioculturali che articolano questi ecosistemi e paesaggi) e le mentalità (colonialità della mente e della conoscenza) (Alimonda , 2011).
Visto che il colonialismo verde non si è concluso con la fine della colonizzazione formale, la differenziazione concettuale proposta da Quijano tra colonialismo e colonialità (Quijano, 2000) è rilevante per distinguere tra momenti e luoghi specifici in cui ha avuto luogo la dominazione imperiale e la matrice coloniale del potere, che persistette dopo l’indipendenza politica delle ex-colonie. Inoltre, il quadro della colonialità è importante per comprendere come l’imperialismo di alcuni paesi come gli Stati Uniti non avesse bisogno di colonie per esercitare il proprio modello di potere e rafforzare il colonialismo verde attraverso minacce militari, l’imposizione di mercati
globali e altri meccanismi di dominio indiretto culturale, legale e politico.
Nel colonialismo verde sussiste una “ragione imperiale”. Pertanto, è importante che futuri lavori esplorino in maniera più dettagliata la relazione tra colonialismo verde e imperialismo ecologico.
Sono sinonimi? O sono piuttosto fenomeni interdipendenti ma diversi?
Una crescente letteratura attuale, principalmente marxista, ha riscattato il dibattito sull’imperialismo ecologico, vivo nel dibattito accademico dagli anni ’80, sottolineando le contraddizioni ecologiche del capitalismo e la frattura metabolica (Foster e Clark, 2004). In modo complementare, altri accademici si chiedono piuttosto come l’imperialismo ecologico sia radicato nelle pratiche quotidiane e sostenuto dalle istituzioni.
Come si normalizza tutto questo in maniera tale da nascondere l’imperialismo che comporta? Questo è ciò che Ulrich Brand e Markus Wissen chiamano “the imperial way of life” (Brand e Wissen, 2021), che è molto vicino a ciò che David Slater aveva definito “imperialità”, e cioè “il diritto, il privilegio e il sentimento percepiti come imperiali o in difesa di uno stile di vita imperiale, in cui si legittima l’invasione geopolitica” (Slater, 2010).
Questi recenti sviluppi sono assai graditi, così come quelli che cercano di pensare alla decrescita da una forma politica anticoloniale (Hickel, 2021). Sono rilevanti in termini di relazioni Nord-Sud perché riconoscono il debito ecologico come un’agenda centrale delle lotte contemporanee, e allo stesso tempo rivendicano la lotta per la decolonizzazione anche nel Nord. Dobbiamo però stare attenti a una questione delicata: spesso il discorso antimperialista continua ad essere ampiamente utilizzato contro la Natura da settori che si definiscono “progressisti”. Lo "sviluppismo" fossile è ancora molto presente, ad esempio, in certi settori del Sud che dicono di difendere una transizione energetica giusta e, allo stesso tempo, sono totalmente favorevoli a continuare a sfruttare il petrolio per interesse nazionale, perché altrimenti lo farebbe un paese straniero. Allo stesso modo, l’idea del “diritto allo sviluppo” continua a risuonare con forza tra molti attori del Sud del mondo che si definiscono antimperialisti, nonostante abbondino le prove di ecocidio, genocidio e distruzione epistemica causati anche in nome dello “sviluppo”.
Se nella lotta per la decolonizzazione dell’Africa, il rivoluzionario ghanese Kwame Nkrumah sosteneva che il neocolonialismo sarebbe stato l’ultimo stadio dell’imperialismo (Nkrumah, 1965), oggi possiamo suggerire che la colonialità climatica (Sultana, 2022), segnata dal Consenso della Decarbonizzazione, è la fase più recente del colonialismo verde. Salvare il clima e decarbonizzare l’economia sono diventati dei mantra. La tensione storica tra conservazione e distruzione è ancora molto presente, seppure con meccanismi sempre più sofisticati di controllo digitale e territoriale. In questo processo, questa nuova forma di colonialismo verde riproduce le relazioni coloniali storiche e la colonialità del potere, ma cerca una nuova legittimazione sociale attorno all’idea di decarbonizzazione.
Per alcuni autori si tratta di un nuovo “colonialismo del carbonio” (Lione e Westoby, 2014). Per altri, siamo di fronte a un “colonialismo climatico” (Bhambra e Newell, 2022). Qualunque sia la nomenclatura, c’è un certo consenso nel pensiero critico sul fatto che stiamo entrando in un punto di svolta storico, sia per ciò che si riferisce alla natura delle relazioni coloniali che riguardo all'emergenza climatica.
(2. Continua)
* Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network
Más allá del colonialismo verde. Justicia global y geopolítica de las transiciones ecosociales
(a cura di) Miriam Lang, Breno Bringel, Mary Ann Manahan.
Scritti di: Breno Bringel, Miriam Lang, Mary Ann Manahan, Alberto Acosta, Bengi Akbulut, Farida Akther, Nnimmo Bassey, Pablo Bertinat, Ulrich Brand, María Campo, Christian Dorninger, Kristina Dietz, Arturo Escobar, John Feffer, Sabrina Fernandes, Luis González Reyes, Hamza Hamouchène, Rachmi Hertanti, Edgardo Lander, Esperanza Martínez, Camila Moreno, Zo Randiamaro, Tatiana Roa Avendaño, Maristella Svampa, Ivonne Yánez.
Ciudad Autónoma de Buenos Aires, CLACSO, 2023 - 397 pp.
