Abbiamo scelto di dedicare questo mese di agosto all’analisi e al dibattito teorico latinoamericano sui temi dell’estrattivismo, proponendo anche materiali di archivio non necessariamente recenti, ma dai contenuti ancora attuali e dotati di una rilevanza che va oltre i confini del continente.
Non poteva mancare in questa rassegna la segnalazione di “La nuova corsa all’oro. Società estrattiviste e rapina” di Raúl Zibechi, tradotto e pubblicato in Italia dal gruppo Camminar domandando in collaborazione con Re:Common.
Ne proponiamo alcune pagine significative sul rapporto estrattivismo e violenza nelle zone del “non essere”, rimandando la lettura completa al testo originale.
La nuova corsa all’oro. Società estrattiviste e rapina
Raúl Zibechi
a cura del gruppo Camminardomandando in collaborazione con Re:Common, 2016 - 103 pp.
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Il colonialismo non cede,
se non con il coltello alla gola
(Frantz Fanon)
Negli ultimi anni vi sono stati vari approcci sul tema dell’estrattivismo, che vanno da un’enfasi sugli impatti sull’ambiente e sui danni alle popolazioni, alla “re-primarizzazione‟ della matrice produttiva.
Vi è una vasta gamma di lavori che includono sia la resistenza al modello delle miniere a cielo aperto e delle monocolture per l’esportazione, sia proposte alternative basate, per buona parte, sul Buen Vivir/Vivir Bien.1
Le analisi critiche tendono a condividere l’opinione che il modello estrattivista deve essere considerato come parte del processo di accumulazione per spossessamento, caratteristico del periodo di dominio del capitale finanziario (Harvey, 2004).
Nello stesso tempo, si comincia a considerare l’estrattivismo come una attualizzazione del colonialismo, in particolare nel settore delle miniere, individuando nell’inizio dello sfruttamento del Cerro Rico de Potosí (dove furono sacrificati 8 milioni di indigeni), nel 1545, l’inizio della modernità e del capitalismo, nonché della relazione centro-periferia sulla quale si basano (Machado, 2014).
Prendendo queste analisi come riferimenti essenziali, ho intenzione di esplorare brevemente il modo di operare che i movimenti stanno portando avanti per neutralizzare/superare il modello estrattivista, bloccare l’accumulazione per spossessamento, eliminare la militarizzazione dei territori, porre fine al persistente degrado ambientale e alla distruzione degli esseri umani. Mi pare che non si limitino (né possono farlo) a ripetere i repertori tradizionali del movimento sindacale, dal momento che si muovono in ambiti in cui le regole del gioco sono differenti.
Il punto di partenza della mia tesi è che oggi le popolazioni sono un ostacolo all’accumulazione per spossessamento. Harvey sostiene che lo «strumento principale» della accumulazione per spossessamento è costituito dalle privatizzazioni delle imprese pubbliche e che il potere dello Stato è il loro agente più importante (Harvey, 2004). Nella sua argomentazione, l’autore porta l’esempio dell’Argentina degli anni Novanta, che oggi potrebbe applicarsi a gran parte dell’America Latina e ad alcuni paesi europei come la Grecia e la Spagna, tra gli altri.
A mio parere, l’argomentazione di Harvey è del tutto valida per la parte dell’umanità che si trova nella «zona dell’essere», ma per quell’altra parte che vive nella «zona del non-essere» (Grosfoguel, 2012) il principale strumento di accumulazione per spossessamento è la violenza, e i suoi agenti sono, indistintamente, poteri statali, parastatali e privati, che spesso lavorano insieme perché condividono gli stessi obiettivi.
Questa è la situazione che vivono nel nostro continente le popolazioni vicine alle miniere e alle monocolture. «Praticamente non c’è nessuno, nelle aree vicine ad un progetto minerario, che non abbia qualche procedimento giudiziario aperto [contro di lui]» (Machado, 2014, p. 224).
La violenza e la militarizzazione dei territori sono la regola, sono una parte inseparabile dal modello; i morti, i feriti e le persone seviziate non sono il risultato di eccessi accidentali dei controlli polizieschi o militari. È il modo “normale‟ di agire dell’estrattivismo nella zona del non-essere.
Il terrorismo di Stato praticato dalle dittature militari distrusse i gruppi di ribelli e spianò la strada all’avvio delle miniere a cielo aperto e delle monocolture transgeniche.
Successivamente, le democrazie - conservatrici e/o progressiste - approfittarono delle condizioni create dai regimi autoritari per approfondire l’accumulazione per spossessamento:
“Intere popolazioni sono perseguitate, minacciate, criminalizzate e denunciate alla giustizia; monitorate e punite in nome della legge e dell’ordine. I leader e i rappresentanti di organizzazioni e movimenti emergenti - donne e uomini, giovani, adulti e anziani, tutti allo stesso modo - sono accusati di essere i nuovi terroristi, i nemici pubblici di una società dalla quale è necessario espellerli” (Machado, 2014, p. 21).
Le privatizzazioni colpirono fondamentalmente le classi medie urbane e le frange di lavoratori legati allo Stato sociale, soprattutto nel caso argentino. 3
Per i settori sociali che erano rimasti sempre esclusi e non avevano mai beneficiato del welfare, le privatizzazioni furono solo la prima fase dello spossessamento. Indigeni, neri e meticci, contadini senza terra, donne povere, disoccupati, lavoratori informali e bambini delle periferie urbane stanno ora sperimentando quello che l’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) ha definito come la Quarta Guerra Mondiale. Come in tutte le guerre, si tratta di conquistare territori, distruggere i nemici e amministrare gli spazi conquistati subordinandoli al capitale:
“La quarta guerra mondiale sta distruggendo l’umanità nella misura in cui la globalizzazione è una universalizzazione del mercato, e tutto l’umano che si oppone alla logica del mercato è un nemico e deve essere distrutto. In questo senso siamo tutti il nemico da sconfiggere: indigeni, non indigeni, osservatori dei diritti umani, insegnanti, intellettuali, artisti” (Subcomandante Marcos, 1999).
La novità di questa nuova guerra è che i nemici non sono gli eserciti di altri Stati, e neppure altri Stati, ma la popolazione stessa, in particolare quella parte dell’umanità che vive nella zona del non-essere.
In sintesi: sterminare la gente che è di troppo, desertificare i territori e poi ricollegarli al mercato mondiale. Il modo per eliminare la gente non è necessariamente la morte fisica, anche se questa si sta verificando lentamente attraverso l’espansione della malnutrizione cronica e delle vecchie e nuove malattie, come il cancro che colpisce milioni di persone esposte alle sostanze chimiche delle monocolture e delle miniere.
Il modo più comune è l’eliminazione dei poveri attraverso la loro esclusione: confinamento in spazi circondati da polizia e guardie private nelle periferie urbane. Il caso più estremo è la Striscia di Gaza, e i casi più comuni si possono trovare nelle periferie di tutte le principali città dell’America Latina.
Molte comunità rurali vicine alle imprese estrattive sono state isolate e circondate da dispositivi militari/economici che agiscono come recinzioni materiali e simboliche, come accade alle comunità Mapuche in Patagonia, alle popolazioni indigene e afro nel Cauca colombiano, così come agli abitanti delle zone attraversate dal «treno del ferro» della miniera Vale nello Stato del Maranhão e a centinaia di comunità nelle regioni andine.
Siamo di fronte a due differenti genealogie. Ciò che colpisce le popolazioni del Sud non rientra nel concetto di «accumulazione primitiva», che Marx ha delineato nel Capitale per riflettere sull’esperienza europea. L’espropriazione violenta dei produttori, ciò che egli chiama il «processo storico di separazione tra produzione e mezzi di produzione», è l’atto di nascita del capitale, ma anche dei «proletari totalmente liberi» che saranno impiegati dalla nuova industria (Marx, 1975, p. 893). Questo processo di separazione, con il quale si crea la nuova relazione sociale capitale-lavoro, è stato tanto reale per l’Inghilterra quanto irreale nelle colonie.
In America Latina gli indigeni non sono stati separati dai loro mezzi di produzione, ma costretti a lavorare senza paga nelle miniere, mentre i neri sono stati forzatamente sradicati dal loro continente.
In entrambi i casi è stato commesso un genocidio tramite il quale la popolazione originaria è stata quasi sterminata. È nato così un capitalismo senza proletari, nel senso europeo descritto da Marx quando dice che l’espropriazione dei produttori è stata «la dissoluzione della proprietà privata fondata sul proprio lavoro» (Marx, 1075, p. 951).
Gli indigeni non avevano un concetto di proprietà privata come i contadini inglesi, ma di comunità, e consideravano la terra come un bene comune sacro. L’accumulazione «primitiva» non è stata il «peccato originale» del modo di produzione capitalistico, ma la forma costante di accumulazione attuata per cinque secoli tramite la schiavitù, la servitù, il lavoro informale e la piccola produzione familiare/mercantile che, fino al giorno d’oggi, sono le forme dominanti di lavoro, mentre il lavoro salariato è solo una delle tante modalità di lavoro esistenti (Quijano, 2000a).
In secondo luogo, nell’America Latina indigena/nera/ meticcia, storicamente i principali mezzi di disciplinamento non furono il controllo panottico o i satanic mill 4, ma il massacro o la minaccia di massacro (leggi sterminio), sia nell’epoca della colonia sia nel periodo repubblicano, sotto le dittature o nelle democrazie, fino al giorno d’oggi: dai 3.600 mitragliati a Santa María de Iquique, nel 1907, alle decine di morti a Bagua nel giugno 2009. Entrambi i massacri avvennero sotto regimi di democrazia elettorale, il che indica la natura di questo sistema nella regione. Nel solo Cile, nei sette decenni dal 1903 al colpo di Stato del 1973, lo storico Gabriel Salazar elenca quindici massacri («hanno mitragliato i rotos») 5 al ritmo di uno ogni tre anni in media, considerando che l’ultimo riguardò tutti gli angoli del paese e distrusse diecimila vite (Salazar, 2009, p. 214). 6
L’organizzazione Maes de Maio (Madri di Maggio) creata dalle madri dei 500 uccisi dagli apparati repressivi a San Paolo del Brasile nel maggio 2006, segnala che tra il 1990 e il 2012 ci furono 25 massacri contro gli abitanti delle favelas, vale a dire giovani/neri/poveri (Maes de Maio, 2012).
In terzo luogo, lo Stato-nazione latinoamericano ha una genealogia diversa da quella europea, come ci ricorda Aníbal Quijano.
Qui non si registrò «l’omogeneizzazione della popolazione in termini di esperienze storiche comuni» né la democratizzazione di una società che potesse esprimersi in uno Stato democratico; le relazioni sociali si formarono sulla base del colonialismo del potere, fondato sull’idea di razza, che divenne il fattore fondamentale della costruzione dello Stato-nazione. «La struttura di potere è stata ed è ancora organizzata sopra e attorno all’asse coloniale. La costruzione della nazione e soprattutto dello Stato-nazione è stata concettualizzata e realizzata contro la maggioranza della nazione, in questo caso gli indigeni, i neri e i meticci» (Quijano, 2000b, p. 237).
I tre assi precedenti spiegano la continuità della dominazione e l’esclusione delle maggioranze, rese inferiori per motivi razziali, indipendentemente dal regime politico e dalle forze che gestiscono uno Stato coloniale. Con il neoliberismo e l’egemonia dell’accumulazione per spossessamento si verifica inoltre l’«espropriazione della politica», che nei casi più estremi, come in Messico, in Colombia e in Guatemala, passa attraverso il legame tra para -militarismo, imprese estrattive e corruzione statale, un fenomeno che senza dubbio può essere letto come una ri-colonizzazione della politica (Machado, 2014).
Video
Estrattivismo e resistenza: intervista a Raúl ZIbechi - 9 giugno 2018
Video prodotto da Re:Common - www.recommon.org Riprese e montaggio: Carlo Dojmi di Delupis - durata min. 9:38
NOTE:
1 Espressione in lingua spagnola di una concezione della vita propria del mondo indigeno latinoamericano, declinata diversamente a seconda delle varie culture (ad esempio, sumak kawsay nella cultura kichwa, sumak qamaña nella cultura aymara), che sta venendo recuperata come alternativa ai disastri dello “sviluppo’. È un termine che è difficile tradurre, senza snaturarne il significato, in lingue diverse da quelle in cui questa concezione è stata elaborata; in italiano si usa in genere, seppure in maniera poco soddisfacente, la traduzione spagnola. Talora è tradotto come «vita in armonia» o «vita in pienezza», nel tentativo di approssimarsi al significato originario. N.d.t. - Qui l’autore utilizza il termine despojo (rapina).
2 Una parte dei dipendenti delle imprese statali furono espropriati dei loro posti di lavoro stabili e violentemente gettati nella povertà e nel lavoro informale, mentre un’altra parte poté ricollocarsi in vari modi nelle classi medie
3 Le «fabbriche del diavolo», dove furono costretti a lavorare i contadini le cui terre comuni erano state recintate/espropriate (Polanyi, 1944).
4 N.d.t. - L’aggettivo roto (letteralmente “lacero”) è stato utilizzato in Cile con una connotazione classista per indicare una persona di origine urbana e povera.
5 La sua lista di massacri comprende: 1903 Valparaiso, 1905 Santiago, 1906 Antofagasta, 1907 Iquique, 1919 Patagonia, 1924 La Coruña, 1931 Copiapó, 1934 Ranquil, 1939 Santiago, 1946, 1957 e 1962 Santiago, 1967 Salvador, 1969 Puerto Montt e 1973 tutto il paese.
6 Si tratta della repressione che seguì alle azioni dell’organizzazione criminale Primo Comando della Capitale.