A partire da oggi e fino alla metà di marzo ECOR.network proporrà una raccolta monografica di materiali sul tema "Estrattivismo e pandemia". Abbiamo scelto, infatti, di cominciare le pubblicazioni analizzando il presente, quello che ci sta succedendo attorno.
Da oltre un anno il mondo intero subisce gli effetti di una catastrofe che ha generato, ad oggi, quasi due milioni e mezzo di morti, se ci limitiamo ai dati ufficiali. 
Catastrofe che trova origine nella distruzione degli ecosistemi, si amplifica e generalizza attraverso le reti globali - sempre più fitte - della circolazione di merci, si aggrava per lo smantellamento dei sistemi sanitari pubblici e per la condizione di vulnerabilità in cui il capitalismo spinge la maggioranza della popolazione del pianeta.
Milioni di persone in ogni continente stanno ancora affrontando il contagio, il dolore per la morte orribile dei loro cari, la disoccupazione e la perdita dei mezzi di sostentamento.
Milioni di persone vivono un trauma collettivo, che ne deprime le capacità di reazione. Le loro forze sono risucchiate dalla lotta per la sopravvivenza, contro la malattia, contro la miseria.
Le regole anti covid-19 ne ostacolano il movimento e l'organizzazione, mentre l'attenzione mediatica e il discorso politico sono quasi monopolizzati dalla pandemia.
La situazione è dunque propizia per far passare svolte autoritarie, deregulation in materia di lavoro, riforme strutturali business-friendly. Propizia per imprimere - ed è ciò di cui ci occuperemo - un salto di qualità e quantità nello sfruttamento dei territori.
Fin dall'inizio della pandemia, segnali provenienti da tutto il mondo ci hanno indicato come gran parte delle attività di maggiore impatto sull’ambiente e sulle comunità non solo stavano proseguendo ‘as usual’, ma approfittavano della situazione per espandersi e riorganizzarsi.
Segnali che andavano tutti nella stessa direzione, delineando una dimensione mondiale del fenomeno, con una serie di caratteristiche ricorrenti, come – per esempio – l’inclusione sistematica nell’elenco dei ‘servizi essenziali’ di attività ad altissimo impatto ambientale e sociale.
Molti settori impattanti non hanno conosciuto fasi di arresto. Una molteplicità di governi ha esentato dal blocco della produzione per l’emergenza Covid le imprese estrattive, minerarie e petrolifere, la costruzione di grandi opere e di infrastrutture per il trasporto degli idrocarburi, sebbene non avessero nulla a che fare con il soddisfacimento dei bisogni immediati delle popolazioni colpite dalla pandemia.
Settori che hanno continuato ad operare anche quando le loro attività si sono trasformate in fulcri di contagio, trasmettendolo alle comunità dei territori dove operavano.
Il lockdown non li ha colpiti, ma piuttosto li ha sottratti al controllo delle popolazioni e dei/lle militanti, costrett* in casa e privat* della libertà di movimento, e sempre più soggett* ad aggressioni favorite dal coprifuoco: violenze poliziesche, arresti arbitrari e, soprattutto in Asia, Africa e America Latina, esecuzioni extragiudiziali.
La criminalizzazione giudiziaria dei movimenti ha assunto in questo periodo caratteristiche più gravi, per l'esposizione degli attivisti e delle attiviste arrestat* ai rischi, comuni a tutte le persone in detenzione, connessi all'estendersi dell'epidemia nelle carceri.
In generale la militarizzazione dei territori, dispiegata in tutto il mondo con il pretesto della pandemia, è stata un poderoso deterrente per le proteste sociali e ambientali, facendo da copertura per la violenza selettiva contro militanti, dispensando cariche e sgomberi su presidi e manifestazioni.
Una violenza che non potrà che intensificarsi, perché ciò che si prepara per il futuro è un ulteriore salto di qualità nello sfruttamento della Natura, che ci verrà venduto come l’unica scelta possibile per ‘riattivare l’economia’ dopo la crisi pandemica.
Tutto questo non significa però che sia impossibile lottare ottenendo risultati, seminando granelli di sabbia nell'ingranaggio.
Lo dimostra la popolazione di Cuenca, in Ecuador, che in occasione del referendum dello scorso 7 febbraio si è espressa in massa contro l'espansione mineraria e per la tutela dei suoi bacini idrografici.
Lo dimostrano, in Messico, i decreti di sospensione dei lavori per alcuni tratti del Tren Maya da parte dei Tribunali di Campeche e dello Yucatan, ottenuti dalla mobilitazione di più di 100 organizzazioni indigene e ambientaliste.
Lo dimostra lo sciopero della fame delle compagne NoTAV insieme alle altre detenute del carcere di Torino, che nel gennaio scorso hanno ottenuto miglioramenti della condizione carceraria.
Si tratta, ovviamente, di risultati sempre da difendere, mai scontati e definitivi, ma importanti per ricordare che vale sempre la pena lottare.
Ci concentreremo su questi temi nei prossimi giorni, proponendo dossier e articoli di organizzazioni, ricercatori universitari e movimenti antiestrattivisti per costruire una panoramica internazionale sullo sfruttamento minerario, la costruzione di gasdotti e grandi opere, l'estensione dell' agroindustria durante il periodo pandemico.