Francisca Fernández Droguett è una militante femminista, attivista socio-ambientale, insegnante e antropologa cilena. Fa parte del Movimento per l'Acqua e i Territori del Cile (MAT), che riunisce circa 100 organizzazioni a livello multinazionale. È stata anche membro della Coordinatrice femminista dell'8M e ha prestato servizio come esperta per l'Ufficio di difesa penale pubblica per cause indigene e casi relativi alla difesa di donne e di migranti ed è stata consulente nel processo di dibattito per la nuova Costituzione, svoltosi in Cile tra il 2021 e il 2022. Nel quadro della difesa dei beni comuni nel Sud del mondo, intreccia concetti come "femminismo", "giustizia ambientale" e "plurinazionalità". Offre inoltre il suo punto di vista sulle sfide che i governi progressisti del continente devono affrontare di fronte all'ascesa dell'estrattivismo Nord-Sud e alla promozione di "false soluzioni".
"Ci sono tre elementi che sostengono la vita: acqua, semi ed energia. Nessuno di questi dovrebbe avere condizione di proprietà, perché privatizzarli o creare uno status di proprietà impedisce il sostentamento e la protezione dell'esistenza delle persone", conclude.
Una delle loro bandiere di lotta è il diritto all'acqua. In Cile questo bene comune è privatizzato. La Costituzione del 1980 e il Codice dell'acqua del 1981, approvati durante la dittatura di Augusto Pinochet, insieme alle relative riforme del 2005 e del 2011 e alla Legge 19.300 sulle basi generali dell'ambiente, definiscono l'acqua come un bene nazionale di uso pubblico, ma allo stesso tempo stabiliscono un sistema di distribuzione per l'uso della risorsa attraverso l'assegnazione di diritti d'uso dell'acqua (DDA), che sono commerciabili, sul mercato.
Sebbene lo Stato possa regolamentare i DDA in determinate circostanze critiche, essi vengono concessi a privati a tempo indeterminato e sono ereditari. Non comportano alcun costo per i loro titolari e non sussistono motivi di revoca. Inoltre, in Cile l'accesso all'acqua non è sancito come diritto umano, a differenza di Argentina, Costa Rica, Messico e Brasile, in linea con la risoluzione 64/292 del 2010 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Il MAT è nato nel 2013 in occasione di un incontro denominato "AguAnte la vida", organizzato dall'Osservatorio latinoamericano dei conflitti ambientali (OCLA). Nacque l'esigenza di creare uno spazio per la lotta anti-estrattivista, da cui prendere in considerazione alternative e, in particolare, lavorare per la deprivatizzazione dell'acqua. Utilizzano, spiega Fernández Droguett, la categoria "plurinazionale", intendendo che essa riunisce popoli diversi in un'articolazione trasversale dal nord al sud del Paese.
Oltre alle questioni normative relative all'acqua, l'agroindustria, il modello forestale, l'acquacoltura e le mega-attività minerarie rappresentano minacce concrete a questo diritto. I dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) del 2018 (citati in questo rapporto delle Nazioni Unite) indicano che, nel 2017, l'agricoltura, l'attività mineraria e manifatturiera hanno rappresentato quasi l'80% dei prelievi idrici totali nel paese transandino. Queste attività, tra l'altro, inquinano le acque. È il caso dell'agrobusiness nella regione centrale e dei danni causati dall'attività mineraria sui ghiacciai, da cui deriva il 70% dell'acqua destinata al consumo umano.
["L'acqua in Cile può essere letteralmente comprata, venduta, affittata e persino ipotecata. Abbiamo lottato contro le multinazionali, sia nazionali che transnazionali. Le risorse comuni, sia sociali che naturali, sono state privatizzate e la nostra lotta è stata legata al conflitto estrattivo: al nord contro le mega-miniere, al centro e al sud contro l'agroindustria e al sud contro il modello forestale"]
—Quali strategie sono state implementate per trattare il diritto all’acqua nei territori?
—Tra il 2019 e il 2020 abbiamo tenuto più di 60 assemblee cittadine sull'acqua, a cui hanno partecipato circa 2.000 persone, proponendo come avremmo potuto immaginare una gestione idrica basata sulla comunità, nella consapevolezza che si tratta di un bene comune che non deve essere proprietà. Si tratta di un bene inappropriabile, di comune interesse. Lo intendiamo come un diritto umano ma anche come un diritto della natura. Abbiamo iniziato così ad avvicinarci al concetto di acqua come parte della dimensione naturale, come soggetto di diritto, un aspetto che ha fatto parte del dibattito costituzionalista o Nuovo Costituzionalismo che ha avuto luogo in Bolivia e in Ecuador. Inoltre, abbiamo proposto la gestione per bacini e sottobacini, la conservazione e il recupero delle pratiche ancestrali e l'esercizio della gestione collettiva. Ad esempio, le opere sanitarie legate alla depurazione dell'acqua. Dopo una rivolta sociale che fu molto importante e che coincise con le assemblee, si tenne la prima Convenzione Costituzionale, in cui almeno un terzo dei membri provenivano dai movimenti sociali e territoriali.
—Che posto ha avuto il diritto all’acqua nel dibattito costituzionale tra il 2021 e il 2022?
—È stato qualcosa senza precedenti. Come Movimento per l'Acqua e i Territori, abbiamo avuto sei costituenti e abbiamo lanciato un'iniziativa di legge popolare per l'acqua, i diritti della natura e i ghiacciai. È stata una delle proposte più votate. Sebbene questa proposta costituzionale contenesse circa 400 articoli, più di 77 erano legati alla difesa della natura, dell'acqua, al riconoscimento e all'importanza dell'agroecologia e all'agricoltura contadina e familiare. Purtroppo, quel voto è andato perso a causa della disinformazione e dell'attuazione tardiva del voto obbligatorio. Dal MAT abbiamo continuato a spingere per la deprivatizzazione dell'acqua attraverso sia con la lotta sul territorio che attraverso la promozione istituzionale. Ma la cosa più importante è sottolineare che stiamo anche lavorando per costruire delle alternative. Stiamo lavorando intensamente sulla sovranità e l'autodeterminazione della gestione di cibo, energia e acqua da parte delle comunità, sulle politiche e l'etica del 'cuidado' nonché sulle economie territoriali a km zero. Sono le basi a partire dalle quali ci organizziamo in modi molteplici e molto diversi.
—Sebbene il voto su quella riforma sia stato perso, pensa che parte di quel processo abbia permeato la politica cilena, in termini di diritti della natura?
—Forse uno dei contributi più grandi è stato che parlare di diritti della natura o di deprivatizzazione dell'acqua, fino a qualche anno fa era qualcosa di completamente sconosciuto. Ovviamente, proviamo molto dolore e tristezza di fronte a un'opportunità storica che ci è stata offerta e che non siamo stati in grado di saper interpretare per porre a buon fine il processo. Ma allo stesso tempo tutto ciò sta gradualmente diventando senso comune e possiamo dire che la difesa dell'acqua, dei territori e della crisi ecologica e climatica che dobbiamo superare sono diventati temi molto trasversali. Poter esprimere l'urgente necessità che l'acqua sia intesa come un diritto umano e come parte della gestione ecosistemica della natura è qualcosa che oggi è molto più comune e che ha generato molto più significato e mobilitazioni conseguenti. Le proposte non sono qualcosa che abbiamo chiuso con il capitolo costituzionale, ma che continuiamo ad approfondire.
-Come?
—Ad esempio, organizziamo tribunali etici femministi per la giustizia climatica e organizziamo workshop sugli stessi argomenti. Visto che siamo organizzazioni territoriali unite in un movimento, siamo costantemente mobilitate e vigili per denunciare, mobilitare, incidere e trasformare. Siamo riusciti a diffondere una sensibilità diffusa, facendo sì che alcuni temi acquisiscano più senso comune. Ciò che era impensabile dieci anni fa, oggi non è più così. Abbiamo senza dubbio ancora molta strada da fare perché la privatizzazione dei beni comuni naturali è direttamente correlata all'intensificazione e alla perpetuazione delle politiche neoliberiste. Ecco perché sfidiamo anche il modello neoliberista.
—Questo è ciò che sta accadendo a livello regionale. In Argentina ci sono funzionari (come il rappresentante di Neuquén Marcelo Bermúdez) che mettono in dubbio che l'acqua sia un diritto umano.
-Completamente. Ci sono tre elementi che sostengono la vita: l'acqua, i semi e l'energia. Nessuno dovrebbe essere considerato 'di proprietà', perché privatizzarli o creare uno status di proprietà impedirebbe il sostegno e la protezione dei popoli. Ecco perché abbiamo lanciato una forte campagna, sia a livello locale che internazionale, per far comprendere che questi sono i pilastri fondamentali della salute delle persone e della natura. Oggi viviamo un momento molto difficile per quanto riguarda l'ascesa dell'estrema destra, che ci ricorda chiaramente ciò che abbiamo vissuto in Cile con le politiche neoliberiste degli anni '80. Ma tutto ciò continua replicarsi, e ancor più in Argentina, intensificandosi in un breve lasso di tempo.
—Quali sono le condizioni necessarie in una comunità per procedere verso progetti di gestione idrica comunitaria?
—Le condizioni necessarie affinché una comunità possa orientarsi verso progetti di gestione comunitaria dell'acqua, ad esempio in Cile, sono ovviamente l'abrogazione del Codice dell'acqua, che ha privatizzato il bene comune. Affinché l'acqua sia realmente sotto la gestione e il controllo della comunità e si salvaguardi l'equilibrio degli ecosistemi, è necessario riconoscere l'acqua come un diritto umano, ma anche come un diritto della natura. Questo approccio non si concentra solo sul consumo umano, ma anche sul benessere della natura, sull'equilibrio degli ecosistemi e sul loro ripristino. In breve, le condizioni necessarie sono: la deprivatizzazione, la fine delle politiche estrattive e il controllo e l'amministrazione da parte della popolazione, sia a livello rurale che urbano.
—Cosa significa per te la giustizia climatica?
—È una giustizia che intreccia la giustizia sociale, idrica, ecologica e climatica. È una giustizia che promuove il recupero, la rigenerazione e il ripristino della natura, ma che considera anche l'umanità come parte della natura. La giustizia ambientale non è separata dalla giustizia sociale, anzi: sono interconnessi perché l'umanità è ecologica e interdipendente dalla natura. La giustizia ambientale è il superamento di questa falsa dualità tra natura vs umanità, intendendo una giustizia per l’umanità, per i popoli, per i territori in comunione con la natura stessa. Ciò implica una giustizia che vada oltre l'estrattivismo e abbracci una critica assolutamente radicale del capitalismo, in quanto sistema-mondo che è stato una delle principali entità a livello politico, economico e sociale generatrice di ecocidi e terricidi.
—Come vede la possibilità di integrare l'agenda socio-ambientale nel periodo che precede le elezioni di quest'anno in Cile?
—È complesso perché tutti i settori che si sono mobilitati e, in generale, la politica istituzionale legata al plebiscito costituzionale del 2022, vedono decisamente ristretta la possibilità reale di partecipazione dei popoli, delle organizzazioni comunitarie e dei movimenti sociali. Esiste una struttura fortemente partitica che risponde agli interessi economici e imprenditoriali del Paese. Siamo noi, il popolo e i movimenti sociali, a definire l'agenda socio-ambientale, esercitando pressione e incidendo nell'ambito istituzionale.
—Quali sono le sfide che i governi progressisti della regione devono affrontare in relazione all'estrattivismo?
—I governi progressisti della regione si trovano ad affrontare la sfida principale di assumere una forte radicalità rispetto alla rottura con l'estrattivismo e anche con le false soluzioni. Ad esempio, progettando una serie di politiche e leggi istituzionali che realmente siano a favore della cura e dell'attenzione, mettendo al centro la vita, non il profitto. Io lo vedo molto limitato perché i governi progressisti non solo hanno in alcuni casi intensificato e incoraggiato l'estrattivismo, ma oggi stanno anche promuovendo progetti con false soluzioni: parchi eolici, impianti fotovoltaici, sfruttamento del litio e idrogeno verde. Il tutto nel quadro di una continua perpetuazione del profitto e di una prospettiva assolutamente coloniale. I governi progressisti si trovano ad affrontare una sfida importante nello scommettere s'un cambiamento strutturale. Ciò implica una trasformazione nella matrice produttiva, energetica e di consumo. Devono davvero adottare una prospettiva volta a superare l'estrattivismo.
Ripensare i territori in una prospettiva femminista e plurinazionale
Fernández Drogguet ci invita a considerare la trasformazione dei territori da una prospettiva plurinazionale, puntando alla giustizia climatica, con un'enfasi sui diritti della natura. Sottolinea che l'estrattivismo equivale al patriarcato e spiega l'impatto che questo modello ha sui corpi femminilizzati e come aumenti il lavoro relativo al 'cuidado'. In questa prospettiva, lo scorso settembre ha partecipato all'incontro "Rinaturalizzare le città" https://saludsocioambiental.org/ssa/ a Rosario.
—Cosa significa “rinaturalizzare le città” ?
—Come Movimento per l’Acqua e i Territori, lavoriamo sulla nozione di circuiti di economie territoriali. Per sfidare il capitalismo neoliberista, dobbiamo consolidare economie territoriali solidali che esigono una forma di adattamento e di armonia con i cicli della natura, ma soprattutto rompere con le false dualità. Ad esempio, il dualismo rurale-urbano. Per sostenere alternative all'estrattivismo e al capitalismo, il fondamento è l'alleanza tra zone rurali e urbane, nella consapevolezza che siamo spazi storicamente interconnessi. La città non può vivere senza la campagna, e la campagna ha bisogno di dialogo e di armonia con la città. Abbiamo quindi sollevato il concetto di ruralizzazione dell'urbano, con orti familiari, con orti negli spazi pubblici, nei quartieri, pensando alla cura dei semi e alla cura dello spazio pubblico in una dimensione ecosistemica. Parlare di rinaturalizzazione delle città è proprio in questa chiave: ruralizzare, piantare, comprendere la specificità della natura come parte della gestione e della pianificazione del territorio urbano. Immaginiamo città situate in termini ecosistemici, progettate non solo dal punto di vista dell'articolazione e della pianificazione urbanistica, ma anche dal punto di vista della natura. Ma anche negli spiriti, nei saperi, nelle azioni, nella dimensione della memoria ancestrale che ha il territorio, non solo le persone ma anche la natura di per se stessa. Si tratta di un'etica e di una politica della cura, per questo la colleghiamo all'idea acqua-seme-energia. Non si tratta solo di un problema rurale, ma anche profondamente urbano.
—Quali esempi ci sono di queste esperienze?
—Ci sono esperienze meravigliose in diversi paesi con alleanze di agroecologia urbana, ad esempio nelle favelas del Brasile. Durante la pandemia, si è creata un'alleanza molto importante tra campagna e città per la fornitura di sementi destinate alla produzione alimentare. Questo cibo alimentava quindi una rete di approvvigionamento popolare, che a sua volta sosteneva le mense popolari. Si tratta di avere questa prospettiva interrelazionata, legandola all’economia territoriale, con la prospettiva del 'cuidado', alla difesa del territorio-natura, nel quadro della città.
—Come caratterizzi l'intersezione tra l'agenda femminista e quella socio-ambientale?
—L'estrattivismo, in questa politica coloniale di materializzazione, sfruttamento e mercificazione della natura, opera allo stesso modo in termini di materializzazione, mercificazione e strumentalizzazione dei corpi femminilizzati: donne, bambine ed altre ancora. L'estrattivismo è anche patriarcato. Le mega-attività minerarie, l'agroindustria, il modello forestale e lo sfruttamento petrolifero sono spazi che ri-patriarcalizzano i territori. Ad esempio, l'attività mineraria è direttamente correlata all'aumento della tratta di esseri umani e dello sfruttamento sessuale. L'estrattivismo rende le nostre vite ancora più precarie: lavoro precario, disoccupazione e maggiore necessità di assistenza. Perché non si tratta più solo di prendersi cura della casa – che è un obbligo per noi donne –, della famiglia o dei malati, ma anche di prendersi cura di un territorio devastato e senz'acqua. I 'cuidados' s'intensificano, la violenza politica e sessuale, e allo stesso tempo si opera nella stessa logica di sfruttamento dei territori e dei corpi. Siamo riusciti a costruire altri riferimenti all'interno dei femminismi: il femminismo contadino, il femminismo popolare, il femminismo comunitario o il femminismo decoloniale. A volte li abbiamo chiamati ecofemminismo; altri, femminismi eco-territoriali. Da questa prospettiva siamo riusciti a sostenere che sia la lotta per i semi che quella per l’energia del popolo devono essere anche rivendicazioni femministe. C'è ancora molta strada da fare. Ma ciò che ci sembra essenziale nei femminismi comunitari è la difesa del corpo-terra-territorio, corpo-acqua-territorio come parte delle esigenze fondamentali della critica al sistema patriarcale. Abbiamo fatto un percorso molto interessante, capendo noi stesse come femministe, ma con i piedi ben saldi a terra, riflettendo sulle nostre dinamiche organizzative e sui contesti di memoria storica a partire dai territori.
—Nella pratica quotidiana, come possiamo costruire una visione decoloniale della natura? Come imparare dalla plurinazionalità?
—Noi del Movimento per l'Acqua e i Territori intendiamo la plurinazionalità come una coesistenza, come un appoggio mutuo tra popoli indigeni, afrocolombiani, migranti, settori contadini e settori popolari. Non riduciamo il plurinazionale all'indigeno, ma all'originario, all'afro, al migrante, a tutti i diversi flussi di pratiche, di conoscenze, di "fare " e "sentire" che noi popoli troviamo nei territori. Pensare
una città in termini di plurinazionalità significa, ad esempio, tenere conto dell'importanza dell'orientamento degli alloggi verso il sole, della possibilità di comprendere che il ciclo naturale del territorio inizia con l'arrivo del sole. Un'altra questione è perché dobbiamo piantare erba da pascolo se abbiamo la possibilità di piantare erbe medicinali o alimenti. Significa cambiare una logica pensata per un benessere molto occidentale, slegato dai cicli, in un periodo di crisi climatica, ecologica e sociale. Questa dimensione del “pluri” implica il recupero di questi saperi, ma anche ricrearli nell’ambito delle nostre esperienze. Decolonizzare significa assumere i nostri meticciaggi da una prospettiva decolonizzante, non da una creola. Si tratta di pensare alle città dove abitano passeri, dove abitano spiriti, dove sono fondamentali i centri cerimoniali dei popoli indigeni, ma anche gli spazi dove festeggiamo, dove costruiamo comunità, dove ci incontriamo. Città in cui le mense popolari sono direttamente collegate alla semina e alla coltivazione del cibo. Si tratta della possibilità di pensare a quartieri che generino la propria energia, anziché a false soluzioni basate su grandi impianti eolici o fotovoltaici. Si tratta di pensare a questa multidimensionalità. E il femminismo ha preso in considerazione anche questo aspetto, partendo da un'economia femminista situata: reti di approvvigionamento popolari, organizzazione di mense popolari, pulizia dei canali e cura dei semi.
--> Originale in spagnolo
qui 
* Foto di copertina: Observatorio de Género y Equidad
** Traduzione Giorgio Tinelli per Ecor.Network