“Espressioni come “una protesta pacifica” sono, dunque, non particolarmente utili per descrivere le nostre lotte. “Protesta pacifica” non significa niente, perché dal punto di vista dello Stato e del Capitale, quando qualcuno si impegna in una protesta è, per definizione, non più in pace: l’atto di protestare è un rifiuto.
È il rifiuto di uno status pacificato, è il rifiuto della pretesa che si debba accettare ogni cosa che viene imposta nel nome del progresso e dello sviluppo. Quando l’espropriazione viene contrastata dal rifiuto del soggetto, il soggetto diventa un nemico.”
Potremmo partire dalle parole di Mark Neocleous, pronunciate proprio a Melendugno nell’ottobre 20181, per commentare le sentenze di tre procedimenti contro il Movimento No TAP, conclusi in primo grado il 19 marzo scorso con 88 condanne a pene variabili dai 3 mesi ai 3 anni abbondanti. Condanne raddoppiate, e a volte triplicate, rispetto alle richieste del PM, o inflitte anche a fronte della richiesta di assoluzione da parte del PM stesso.
Sanzionati, dunque, i “muri umani” eretti per impedire il passaggio dei mezzi del cantiere TAP, muri di persone indisponibili ad “accettare ogni cosa imposta nel nome del progresso e dello sviluppo”, come la costruzione di un’opera devastante, pericolosa, inquinante, climalterante.
Sanzionate le corna innalzate verso le truppe antisommossa e il dito medio contro l’elicottero in volo, i lanci di uova e di ciclamini, le violazioni dei fogli di via e le “inosservanze di provvedimenti dell’autorità”.
Condannati con il massimo edittale anche 17 compagne e compagni a cui è stato negato lo status di parti lese, dopo essere stati braccati, feriti, umiliati, sequestrati mentre erano di ritorno dai cancelli del cantiere, dove avevano semplicemente intonato dei cori2. Inutile dire che nessuno procederà contro i loro aguzzini.
Per molti versi questa vicenda processuale infonde una persistente sensazione di dejavu, di cose già viste a circa 1.200 km a nord ovest, presso il Tribunale di Torino. Per esempio, accomuna gli uffici giudiziari torinesi e salentini la costruzione di maxiprocessi “omnibus”, che raggruppano ipotesi di reato per fatti commessi in diversi tempi e luoghi e, nel caso del maxiprocesso leccese, anche completamente scollegati. Potpourri giudiziari con tantissimi imputati, che tradiscono più la fretta di arrivare a condanna che la volontà di approfondire contesti, dinamiche e reali responsabilità.
Altro particolare comune è l’attrazione che esercitano i movimenti territoriali per i magistrati antimafia. Se Gian Carlo Caselli ha lasciato in Val di Susa un ‘ricordo indelebile’, il maxi processo No TAP ha potuto giovarsi sia di un PM che del giudice monocratico provenienti dai processi alla Sacra Corona Unita. Non si tratta probabilmente di un caso fortuito:
“La nomina di un magistrato antimafia si inserisce in un solco già tracciato a livello nazionale, per cui si adottano le prerogative dell’antimafia nei reati di ordine pubblico. Da anni questa tendenza sempre più generalizzata associa i reati tipicamente ascrivibili all’area del dissenso e della conflittualità politica a quelli della criminalità organizzata, e lo fa attraverso l’accostamento dell’antimafia all’antiterrorismo… In questo modo nella prassi giudiziaria e nella strutturazione e interpretazione delle norme si è assottigliata, fino quasi a scomparire, la distinzione tra l’ambito del conflitto sociale e quello dell’eversione”3.
Nella stessa direzione si colloca la scelta delle aule bunker come location dei processi contro i movimenti, scelta atta a suggerirne l’equiparazione con le grandi organizzazioni criminali.
Anche a Lecce, come a Torino, ci sono testimoni che pesano come piume ed altri come montagne. Infatti, secondo le dichiarazioni del giudice monocratico, “la testimonianza di un pubblico ufficiale è da considerarsi già di per sé veritiera”.
Anche a Lecce, come a Torino, i procedimenti che tutelano le grandi opere dalle proteste popolari corrono “ad alta velocità”4. I tre processi contro il movimento No TAP, con 126 imputati, sono arrivati a sentenza di primo grado in appena 7 mesi, con udienze pressoché settimanali, addossando alla difesa un carico di lavoro immane, anche per la mole di materiale videoregistrato da consultare.
Mentre il calendario delle udienze contro il movimento, nonostante l’emergenza COVID-19, non ha subito modifiche, un altro processo, che vede imputata per disastro ambientale la multinazionale TAP e le aziende appaltatrici, è stato rinviato per pandemia.
Forse nella prospettiva di poter onorare anche questa volta l’antica tradizione italica della chiusura in prescrizione dei procedimenti che riguardano i reati ambientali.
A Torino il Tribunale ha fatto da tempo da apripista nel comminare condanne pesanti anche nei casi il cui l’opposizione alle grandi opere si è espressa attraverso modalità assolutamente “gandhiane”.
Emblematiche a proposito le carcerazioni di Dana, Fabiola, e prima ancora di Nicoletta, condannate per aver parlato al megafono o tenuto uno striscione durante una breve manifestazione sull’autostrada A32 .
Il Salento ha seguito l’esempio, e anche sulle condanne del 19 marzo contro il movimento No TAP è stato buttato il carico da 11. Divers* compagni e compagne potrebbero varcare nel tempo la soglia del carcere se la situazione non viene modificata nei successivi gradi di giudizio.
Molte delle condotte sanzionate, in altri tempi (sempre più lontani), probabilmente non avrebbero comportato nemmeno l’apertura di un processo.
Ma c’era bisogno di dare un segnale, perché il gasdotto vuole continuare la sua corsa verso nord, sotto le forme di “Rete Adriatica Snam”, e non tollera altri ostacoli.
Nel dicembre 2020 il Consiglio Europeo ha approvato “l’obiettivo vincolante di una riduzione interna netta di almeno il 55% delle emissioni di gas serra entro il 2030“, da raggiungere...anche tramite “tecnologie di transizione come il gas”, avvallando in questo modo la prospettiva dell’utilizzo del gas come sostituto del carbone (che, per inciso, oltre ad essere un combustibile fossile, è un gas serra molto più potente della CO2, e la sua estrazione e trasporto comportano emissioni fuggitive in atmosfera tali da renderne l’utilizzo più climalterante del carbone stesso).
Non vengono messi a rischio quindi dal Green New Deal europeo (anzi!) i 32 progetti di interconnessione del gas considerati “di interesse comune” dall’U.E., compresi il TAP, l’EastMed (dai giacimenti al largo di Israele e Gaza fino alla costa di Otranto) e la Rete Adriatica Snam. Quest’ultima promette di solcare con un tubo di 120 cm di diametro pieno di gas le aree a maggior rischio sismico della penisola, come la Valle Peligna, i paesi dell’hinterland aquilano, quelli dell’Umbria, delle Marche e dell’Emilia, fino a Minerbio. In pratica, sfiorando gli epicentri dei più forti terremoti che hanno interessato l’Italia dal 1997 a oggi.
Attualmente il processo di autorizzazione della Rete Adriatica Snam nel tratto Sulmona/Foligno è ancora fermo in attesa di un adeguato studio sulla sismicità, ma esperienza insegna che spesso non bastano le barricate di carta a fermare opere devastanti.
Quando si renderà necessario anche in Abruzzo, Umbria, Marche ed Emilia innalzare “muri umani” contro le ruspe, l’esempio della sentenza salentina rappresenterà un sinistro precedente.
Per questo è il momento di dare un segnale di controtendenza, dimostrando che anche davanti a queste squallide operazioni siamo uniti e solidali con chi subisce rappresaglie per aver difeso i territori, con i loro ecosistemi e comunità umane, in Salento come altrove.
E anche per gratitudine, perché non dimentichiamo che proprio grazie alla Carovana No TAP e all’intervento informativo dei compagni salentini, si è innescato a Minerbio (BO) quel processo di coinvolgimento e attivazione di realtà locali che ha portato al blocco di un pericoloso progetto di sovrappressione degli impianti di stoccaggio del gas gestiti dalla Stogit. E di questo va dato atto proprio a quei compagni e a quelle compagne che oggi subiscono la criminalizzazione giudiziaria.
* Questo articolo è stato già pubblicato su Carmillaonline.com