La conoscenza sviluppata dagli esperti francesi risale a molto tempo fa, deriva in particolare da una serie di pensatori che oggi chiameremmo "teorici della controinsurrezione", ma che erano, oltre che militari leader nel processo di colonizzazione, anche pensatori riguardo alle questioni chiave della pacificazione.
Pensatori come il tenente colonnello Louis Hubert Gonzalve Lyautey e il generale Joseph Galliéni alla fine del XIX secolo e inizio del XX, e prima di loro il maresciallo Thomas-Robert Bugeaud, a metà del secolo XIX.
Ciò che è significativo di questa serie di pensatori è che, nonostante le differenze tra loro, tutti parlano di pacificazione tanto come la costruzione di un nuovo ordine, quanto come la distruzione di un vecchio ordine.
Bugeaud, per esempio, fu inviato in Algeria per rompere la resistenza alla colonizzazione francese.
A questo fine abbandonò il modello della guerra "napoleonica" facendo proprie le modalità della guerriglia, la cui chiave risiede in una guerra di movimento, con al centro l’uso di colonne mobili e della fanteria leggera, il saccheggio dei magazzini di grano e l’attacco alle mandrie degli algerini.
L’intenzione non era quella di impegnarsi in battaglie condotte da truppe “civilizzate”, ma di impiegare tattiche non convenzionali per distruggere il nemico, distruggendo i suoi raccolti, il bestiame, le sue città ei suoi villaggi.
Era razzia, una tecnica impiegata fin dai tempi antichi in Africa, nella quale il livello di violenza - diretta e immediata - era enorme, giacché le truppe perlustravano il paese uccidendo e bruciando, dividendo e
devastando al loro avanzare.
Per Bugeaud, la razzia era totale.
Tuttavia, nello stesso tempo in cui perfezionavano il sistema di distruzione, i metodi di Bugeaud implicavano il tentativo di ricostruire il terreno mediante l’introduzione di nuove strade, case e mercati: “quando gli arabi si sono sottomessi” – commentava nel 1847 – “ gli do il migliore trattamento possibile e li governo con umanità” (citato in Thrall Sullivan, 1983, p.105)
Di conseguenza, spese una notevole quantità di tempo ed energie distribuendo materiali da costruzione, semi, animali, attrezzature agricole e distribuendo terreni per i nuovi villaggi modello.
Diede consigli sul giardinaggio, guadagnandosi il soprannome di "Grande giardiniere capo".
In breve: distruggerli, ma anche trattarli con umanità; saccheggiarli, ma anche dare loro il miglior trattamento possibile; distruggere le loro colture, ma anche insegnare loro il giardinaggio.
In altre parole, combinare la violenza diretta con una governance più produttiva.
"Il modo migliore per raggiungere la pace nella nostra nuova colonia è attraverso l'applicazione combinata della forza e della politica" (Galliéni, 1900/1994, pag. 814).
Questa è un'affermazione di Galliéni, pronunciata mezzo secolo dopo. Con "forza" e "politica" significava rispettivamente "distruzione" e "ricostruzione".
“Nel contesto delle lotte coloniali, dobbiamo ricorrere alla distruzione solo come ultima risorsa, e solo come preparazione per migliorare la ricostruzione. Dobbiamo sempre trattare con considerazione il paese e i suoi abitanti, poiché il paese è destinato a ricevere le nostre future imprese coloniali, e gli abitanti saranno i nostri principali agenti e collaboratori nello sviluppo di tali imprese.
Ogni volta che le necessità della guerra obbligheranno uno dei nostri agenti coloniali ad agire contro un popolo o un luogo abitato, la sua prima preoccupazione, una volta raggiunta la sottomissione degli abitanti, deve essere la ricostruzione della città, la creazione di un mercato e l'istituzione di una scuola” (Galliéni, 1900/1994, pagina 814).
"Distruzione" e "ricostruzione" vanno di pari passo. Tuttavia, sebbene "la pacificazione di un paese e la sua futura organizzazione siano raggiunti attraverso l'uso combinato della politica e della forza", "l'azione politica, di gran lunga, è la più importante", e deriva " dall'organizzazione del paese e dei suoi abitanti (Galliéni, 1900/1994, pag. 814).
In questo modo, ciò che conta sono la politica e la ricostruzione (o, potremmo dire: ricostruzione politica), perché in questo consiste la vera pacificazione:
"Un paese non viene conquistato o pacificato quando un'operazione militare ha decimato e terrorizzato la sua popolazione" (Galliéni, 1900/1994, pag. 815).
Al contrario, "mentre la pacificazione guadagna terreno, il paese diventa più civile, i mercati si riaprono, il commercio viene ripristinato, il ruolo del soldato diventa secondario, inizia l'attività dell'amministratore" (Galliéni, 1900/1994, pagina 815). Come sottolinea Lyautey: "durante il periodo successivo alla conquista, il ruolo delle truppe si riduce alla funzione di polizia, che viene presto rilevata da truppe speciali, la polizia militare e civile" (Lyautey citado en Gottman, 1943, pp. 243-244).
Il riassunto storico generale che sto esponendo si riferisce al fatto che le potenze coloniali hanno riflettuto da molto tempo sulla pacificazione come una guerra per costruire: costruire la civiltà, il mercato, gli ordini sociali in cui la resistenza al capitale viene amputata prima che inizi.
Va notato in che maniera sorge questa idea di costruzione.
La pacificazione è una violenza destinata a costruire tanto quanto distruggere.
Ricordiamo il commento di Allard: dobbiamo costruire la pace.
Se torniamo brevemente al Vietnam, vediamo che una delle frasi chiave usate dagli americani che stavano combattendo in quella guerra era "Build – Ensure - Clear".
Questa fu un'inversione della modalità francese di pacificazione “Clear – Ensure – Build”.
E se andiamo avanti, fino al Manuale di controinsurrezione del 2006 dell'esercito americano e dei corpi dei Marines - il principale manuale utilizzato nella "guerra contro il terrorismo" - cosa troviamo?
Un principio simile: "Clear-Maintain-Build" (Esercito degli Stati Uniti e Corpo dei Marines, 2006, sezioni 5-50-5-51). In ogni caso, l'importante è "costruire".
La seconda osservazione di storia generale che voglio fare incide maggiore su questa argomentazione perché la pone al centro dell'idea di pacificazione fin dal suo esordio come idea politica.
Il termine "pacificazione" ha una storia molto più antica delle guerre coloniali del diciannovesimo e del ventesimo secolo.
Di fatto, la "pacificazione" entra nel moderno discorso politico alla fine del sedicesimo secolo.
In inglese, la parola "pacificazione" appare per la prima volta negli editti di pacificazione del 1563 e del 1570, che descrivono i poteri usati dal principe o dallo Stato "per porre fine a un conflitto o malcontento" e per "ridurre ad una sottomissione pacifica " una determinata popolazione.
[il riferimento è agli editti di pacificazione – editto di Amboise, editto di Saint Germaine- promulgati da Carlo IX di Francia nell’ambito delle guerre di religione fra cattolici e ugonotti. NdT].
Le date sono importanti in quanto riportano direttamente al periodo di una prima accumulazione globale e alla storia del capitale; in altre parole, sono il punto di partenza per l’esercizio della violenza in nome dell'ordine borghese.
D'altra parte, tutto ciò era strettamente correlato al progetto coloniale.
Filippo II arrivò a credere che la violenza inflitta nella conquista delle colonie stesse causando un certo malcontento tra la sua stessa popolazione. Ed è così che nel luglio del 1573 proclamò che tutte le future estensioni dell'impero fossero chiamate "pacificazioni" e non come "conquiste":
“Le scoperte non saranno chiamate conquiste. Nella misura in cui vogliamo portarle avanti in modo pacifico e caritatevole, non vogliamo usare il termine "conquista" per offrire scuse che porterebbero all'uso della forza o causare danni agli indios... Senza mostrare alcun avidità per i possedimenti degli indiios, loro [gli scopritori ", i "conquistadores "] devono stabilire una cooperazione amichevole con i signori e i nobili che sembrano più propensi a fornire sostegno alla pacificazione della terra” (citato in Todorov, 1984 , p 173).
Per quanto riguarda le istruzioni per questa pacificazione:
“Loro [i “pacificatori”, i conquistatori] devono raccogliere informazioni sulle tribù, le lingue e le divisioni degli indios della provincia ... Devono cercare di fare amicizia con loro attraverso il commercio e il baratto, mostrando loro un grande amore e tenerezza e dare loro gli oggetti che apprezzano ... Affinché gli indios possano ascoltare la fede con maggiore timore e riverenza, i sacerdoti devono portare la Croce ... I sacerdoti devono anche persuaderli a costruire chiese dove si possa insegnare e dove possano sentirsi più sicuri.
Con questi e altri mezzi, gli indiani saranno pacificati e indottrinati, ma in nessun modo saranno danneggiati perché ciò che cerchiamo è il loro benessere e la loro conversione” (citata in Todorov, 1984, pp. 173-174).
Se questa è violenza, è violenza costruire e ricostruire un nuovo ordine sociale, e fondamentalmente un ordine organizzato attorno alla costruzione di un mercato.
Queste stesse idee si trovano nel primo trattato dettagliato sulla pacificazione scritto da un pensatore militare, il capitano Bernardo de Vargas Machuca nella sua Milizia indiana (1599).
Questo testo è a tutti gli effetti il primo manuale controrivoluzionario globale in situazioni di conflitto armato, ma è stato largamente ignorato nelle analisi convenzionali della rivoluzione militare di questo periodo, che pone l'accento sulla centralizzazione della violenza e sulla burocratizzazione e disciplina degli eserciti.
Come tutte le grandi potenze del XVI secolo, la Spagna era coinvolta in un contesto di relazioni militari su larga scala con altre nazioni, ma era anche coinvolta nella colonizzazione di altre terre.
La colonizzazione richiedeva un tipo molto diverso di violenza politica, ed è alla luce di ciò che Machuca scrive il suo manuale sugli scontri militari con gli indigeni.
Machuca ignorò il modello generalizzato del conflitto armato europeo e sostenne invece che nelle colonie era necessario un diverso modello tattico, un modello che richiedeva un diverso tipo di conoscenza ed esperienza e si basava sull'adozione di metodi nativi.
Puntava sulla creazione di gruppi in stile commandos per svolgere missioni di ricerca e distruzione all'interno del territorio indigeno per un periodo di due anni, e nel frattempo adottava le modalità indigene di sopravvivenza.
L'idea di Machuca, in altre parole, non era l'idea classica degi scontri militari basati su unità nazionali organizzate militarmente che si confrontavano tra loro. Piuttosto, la sua idea era quella di un impero che doveva confrontarsi con popolazioni autoctone ribelli e recalcitranti.
Machuca credeva che per combattere contro queste popolazioni l'impero avrebbe dovuto adottare i metodi di queste popolazioni.
Tali metodi, sosteneva, erano stati appresi da lui, "dopo ventotto anni trascorsi nelle pacificazioni degli indios" (Machuca, 1599/2008, p.7).
La pacificazione è, da un lato, una violenza brutale e sanguinaria associata alle atrocità effettuate durante il periodo coloniale, che comprendevano atti quali bruciare vivi i ribelli, procedere ad esecuzioni sommarie e annegamento occasionale di bambini.
D'altra parte, Machuca insisteva sul fatto che agli indiani doveva essere garantito "un giusto trattamento ":
“La distribuzione e l'assegnazione degli indios alle loro encomiendas deve essere effettuata con l'approvazione delle autorità locali, dovrebbero essere concessi greggi, doni e cure, e i comandanti dovrebbero eseguire censimenti. In breve, dovrebbero governare "in pace" (Machuca, 1603/2010, p.
33).
Pace?
Secondo l’Oxford English Dictionary, quando la parola "pacificazione" è entrata nel discorso politico, alludeva ad "un processo o ad un'operazione (di solito un'operazione militare) progettata per assicurare la cooperazione pacifica di una popolazione in un'area dove si pensa che i nemici siano attivi”.
Pacificare è "ridurre a una sottomissione pacifica".
Mutuando considerazioni della tradizione romana sostenuta dalla gloria imperiale attraverso la dominazione militare, la pacificazione implicava l'imposizione della pace.
La "pacificazione" era intesa come un processo per costruire la pace, il termine "pacificatore" appare in quello stesso periodo.
Al contrario, si potrebbe anche rilevare che la pax supponeva l’attuazione della "pacificazione".
Inoltre, questa connessione si riferiva non solo alla pace imposta da qualche parte lontana delle colonie, ma anche alla costituzione di una pace interna all'attività politica nel suo insieme, in un luogo vicino.
In altre parole, fin dalle sue origini, il termine "pacificazione" ha contenuto l'idea della creazione di un certo tipo di pace e, con essa, la creazione di un certo tipo di ordine e sicurezza.
Potremmo dire che la pacificazione è un atto militare, adornato come si trattasse della "pace" di una società civile, raggiunta attraverso la costruzione di nuovi ordini chiamati "sicurezza".
Pertanto, potremmo anche dire che il tempo e lo spazio della modernità borghese possono essere intesi come il tempo e lo spazio della pacificazione.
Questo è, contemporaneamente, il tempo e lo spazio del potere poliziale.
"Mantenere la pace" e assicurare uno spazio sociale pacificato è, più o meno, la definizione di potere poliziale, ed è con l'ascesa della modernità borghese che la categoria di "polizia" (‘Policey’, ‘Policei’, ‘Polizei’) è divenuta centrale nel pensiero politico, mettendo in evidenza la regolamentazione amministrativa e legislativa della vita interna di una comunità al fine di promuovere il benessere generale e le condizioni necessarie per un buon ordine.
Questa prima idea di "polizia" non è la polizia degli "studi di polizia" così come si sono sviluppati nell'università moderna.
Gli studi di polizia si concentrano su una cosa chiamata "la polizia", che riguarda l'esecuzione della legge e il controllo della criminalità, ma dietro a ciò c'era l'imposizione di un significato al termine "polizia" da parte di un liberalismo sempre più egemonico tra la fine dal 18° secolo e l'inizio del 19°.
Esiste, tuttavia, una concezione molto più ampia e antica della polizia, il cui principale fondamento era il "buon ordine" nel senso più ampio possibile, compreso il controllo del crimine e l'esecuzione della legge, ma estendendosi attraverso della regolamentazione del lavoro e del commercio, la disciplina del lavoro, il processo di educazione e apprendimento, il benessere e la salute, i dettagli della vita sociale e, naturalmente, qualsiasi cosa intesa come un'infrazione della "pace".
In un mio precedente lavoro ho cercato di recuperare questa più ampia e antica concezione della polizia e di collocarla al centro di una teoria critica del potere statale.
L'idea era quella di suggerire che la "polizia" dovesse essere intesa meno nei termini di un'istituzione chiamata polizia e più in termini di una vasta gamma di poteri attraverso i quali si fabbrica l'ordine sociale e vengono costituiti i soggetti attraverso – il potere poliziale - un insieme di agenzie di polizia situate in tutto lo stato e istituzioni che amministrano la società civile (Neocleous, 2000).
Questo è un potere di polizia inteso come un principio globale per creare - per costruire - un corpo sociale a partire da cittadini/soggetti individuali.
In ogni caso, il potere poliziale è fondamentalmente un insieme di misure per la produzione del lavoro salariato.
Il potere poliziale presuppone una serie di dispositivi e tecnologie attraverso cui si costituiscono l'ordine politico in generale e il diritto del lavoro in particolare.
In questo quadro di buon ordine, la funzione chiave della polizia è quella di "mantenere la pace".
In realtà, è più che mantenere la pace: è la fabbricazione coercitiva di un ordine sociale che la classe dominante potrebbe definire "pacifico".
Dal punto di vista della teoria critica, dobbiamo capire questo processo come una guerra sociale per costruire e poi ricostruire l'ordine borghese.
Questo è ciò che intendiamo per pacificazione: l'articolazione di uno spazio per la costruzione di un ordine sociale organizzato attraverso l'accumulazione e il denaro. Da questo punto di vista, la pacificazione è una guerra di classi: l'esercizio della violenza nella colonizzazione sistematica del mondo da parte del capitale per costruire un ordine borghese.
La "colonizzazione sistematica" è un termine usato da Karl Marx nel primo volume del Capitale per descrivere la natura della violenza capitalista (o "la cosiddetta accumulazione primitiva").
Marx trae l'idea della colonizzazione sistematica degli autorevoli studi sull'accumulazione coloniale di Edward Gibbon Wakefield.
Wakefield fu la figura chiave di un movimento degli anni '30 del 19° secolo che cercò di rianimare l'arte perduta della colonizzazione e Marx adotterà, secondo noi, con entusiasmo quest'arte come il segreto fondamentale dell'accumulazione primitiva. L'accumulazione primitiva è il processo attraverso il quale si costituiscono le relazioni sociali capitaliste come separazione della popolazione dai mezzi di produzione (Marx, 1858/1973, p 489).
Questo processo è di evidente importanza storica, poiché senza il processo di separazione dei lavoratori dai loro mezzi di produzione, il capitale non avrebbe potuto nascere; senza una tale separazione non poteva esserci un'accumulazione capitalista. Il segreto dell'accumulazione primitiva è che "l'offerta di lavoro deve essere costante e regolare" (Marx, 1861-1894 / 1976, p.939).
Ma Marx sottolinea che ci sono due dimensioni inerenti a questo segreto.
La prima allude alla realtà delle relazioni capitaliste sia nella metropoli che nelle colonie.
La seconda è che non si tratta di un processo storico già completato, ma di un processo permanente costantemente riattualizzato.
Pertanto, la "colonizzazione sistematica" riguarda un processo inerente al capitale come sistema, piuttosto che riferirsi a uno specifico periodo storico o uno spazio geografico.
Ciò a cui Marx sta facendo riferimento è la violenza usata per produrre l'ordine capitalista (Marx, 1861-1894 / 1976, pp. 915-916).
Il capitale di Marx, quindi, deve essere letto, come afferma Etienne Balibar, come "un trattato sulla violenza strutturale che il capitalismo infligge" (Balibar, 2009, p.99) affinché il capitale possa essere creato e ricreato mentre viene costruito e assicurato l'ordine borghese.
La violenza, tuttavia, non solo assume la forma dell'arma o della clava ma viene anche esercitata attraverso l'apparato statale ed il sistema monetario nel suo insieme.
O come è stato recentemente formulato: "il denaro come munizione" (Esercito degli Stati Uniti e Corpo dei Marines, 2006, pag. 49).
Il capitalismo sempre e ovunque è coinvolto in una violenza proiettata contro ogni forma non capitalista che incontra. La violenza strutturale in questione, quindi, è una guerra in cui tutto il mondo diventa un campo di battaglia.
Il capitale ordina: “Che ci sia l'accumulazione!” e si presta a costruire un ordine sociale per tale scopo.
Questa è la chiave per la pacificazione.
Parlare della violenza che ha dato origine al capitalismo e del capitale stesso come forma di violenza significa parlare fondamentalmente, come ho suggerito, di guerra di classe.
Ciò significa che se la teoria critica usa la categoria della "guerra", dobbiamo estenderla al di là del suo tradizionale quadro militare.
Sto suggerendo, di conseguenza, che il meccanismo attraverso il quale le persone sono messe al lavoro nelle condizioni stabilite dal capitale è una forma di guerra.
In un modo convergente, questa è una forma di guerra condotta attraverso il potere poliziale.
Come concetto, la "pacificazione" ci consente di comprendere questa combinazione tra guerra e polizia in termini di accumulazione. La costruzione dell'ordine sociale è storicamente un progetto poliziale, ma è un progetto attraverso il quale il capitale si costituisce come capitale e il lavoro salariato si costituisce come lavoro salariato.
Questa violenza del capitale significa che dobbiamo davvero comprendere la guerra di classe come una guerra.
Un'ultima considerazione. Ci viene costantemente detto che stiamo vivendo un periodo in cui i poteri di guerra e poliziali stanno confluendo.
Ci viene detto in modo ricorrente che stiamo assistendo a "una politicizzazione dell'esercito" e "una militarizzazione della polizia".
In contrasto con queste affermazioni, il concetto di pacificazione ci permette di comprendere i poteri convergenti della guerra e della polizia e capire che questi poteri sono sempre stati convergenti.
Le implicazioni di questo argomento sono che le considerazioni sulla "politicizzazione dell'esercito" e "la militarizzazione della polizia" si basano su una dicotomia liberale tra "la polizia" e "l'esercito".
Ma dal punto di vista della teoria critica questa dicotomia non ha significato.
Dal punto di vista della teoria critica, i poteri della guerra e della polizia hanno sempre lavorato congiuntamente come strumenti attraverso cui si costituisce l'ordine sociale.
Allo stesso modo, l'approccio secondo cui "la guerra è diventata poliziale" che si trova in varie discipline e in vari tentativi di pensare criticamente alla guerra, fa poco per mettere in relazione la "guerra" e la "polizia" e getta poca luce su entrambe. Ripetendo più o meno la concezione liberale della polizia, finisce per mistificare piuttosto che spiegare.
Al contrario, la teoria critica della pacificazione presuppone che la guerra e la polizia siano congiunte da sempre. Affermare questo non significa riferirci a un'istituzione chiamata "esercito" e al modo in cui è collegata a un'istituzione chiamata "polizia".
Da una prospettiva critica, questa distinzione è irrilevante poiché è propria di una tendenza generale liberale che si ripete attraverso le scienze politiche e sociali, quella che semplifica la complessità del potere statale in un insieme di dicotomie: diritto / amministrazione, costituzionale / eccezionale, normalità / emergenza, tribunali ordinari / tribunali speciali, legislativo /esecutivo, Stato / società civile e, naturalmente, esercito / polizia. Di fronte a questo, dobbiamo pensare alla guerra e alla polizia come a processi che lavorano insieme come parte del potere statale e per la costruzione dell'ordine sociale borghese.
[2/Fine]
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- Per la versione in spagnolo:
La lógica de la pacificación: guerra, policia, acumulación
Mark Neocleous
Athenea Digital – 16(1): 9-22, marzo 2016.
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