*** Prima parte ***

La guerra per le risorse, la pacificazione e lo spettacolo dello sviluppo "verde": Logiche di violenza nell'estrazione mineraria nel sud del Madagascar

di AmberHuff e Yvonne Orengo

Questo saggio esamina le strategie "dall'alto" della realizzazione e del funzionamento della miniera di ilmenite di Rio Tinto QIT-Madagascar Minerals (QMM) nel sud-est del Madagascar, facendo dialogare la preoccupazione dell'ecologia politica con la politica critica della natura e della violenza per le risorse con i dibattiti chiave della geografia politica, gli studi critici sulla sicurezza, la ricerca sulle geografie e la fenomenologia della violenza e della guerra. Se da un lato QMM sostiene di essere un autoregolatore "verde" responsabile e un attore dello sviluppo sostenibile, dall'altro fin dall'inizio ha scatenato gravi conflitti sociali, ambientali e legali, comprese le accuse di un "doppio accaparramento della terra" per aver accomodato le attività minerarie e le attività di compensazione della biodiversità. Riteniamo che la 'pacificazione', teorizzata come una forma produttiva di violenza che opera attraverso il riordino della socio-natura, sottoscriva le forme di 'sicurezza', 'stabilità' e persino 'sostenibilità' che facilitano strategie multiple e sovrapposte di estrazione di valore negli spazi territoriali ed extraterritoriali occupati dalla partnership con la miniera QMM. Collocando storicamente queste dinamiche, identifichiamo i modi in cui la pacificazione attinge alle logiche sedimentate ed evolutive della violenza razziale per facilitare le operazioni estrattive e mettere a tacere le opposizioni.*

- Per aggiornamenti sulla miniera QMM di Rio Tinto in Madagascar, consigliamo la lettura di questo recente articolo di una delle autrici, Yvonne Orengo, tratto da The Ecologist.


1. Introduzione

Le dinamiche contemporanee del “land grabbing” (appropriazione di terre) e dell'accaparramento delle risorse non sono né "del tutto nuove, né semplicemente un ritorno al passato" (Gilberthorpe & Rajak, 2017, p. 188). La cosiddetta "nuova corsa all'Africa" (Carmody, 2011) ha dei chiari precedenti cicli di appropriazione delle risorse nel periodo coloniale e negli anni '80 e '90 con l'adeguamento strutturale e la liberalizzazione economica (Scoones, Smalley, Hall, & Tsikata, 2018). Come fanno oggi questi cicli hanno trasformato i paesaggi, istituito modelli di accumulazione originaria e stabilito modelli di espropriazione e di "deflusso della ricchezza" (Bond, 2018, p. 89) accanto, in luoghi diversi, a sistemi di produzione basati su piccoli produttori. Ma all'inizio del XXI secolo ci sono nuove dinamiche di controllo delle risorse, strategie di accumulazione e reazioni scatenate dalla globalizzazione neoliberale.

I lavori più recenti sulla geografia politica, l'ecologia politica, gli studi di agraria e le discipline correlate hanno evidenziato i modi in cui i discorsi e le pratiche relativi alla crisi ambientale globale, al rischio economico, alla sicurezza e allo sviluppo sostenibile sono associati alle attuali tendenze di riforma agraria, agli alti tassi di investimenti diretti esteri e alla cartolarizzazione delle risorse naturali (Borras, Hall, Scoones, White, & Wolford, 2011; Hall, 2011; Peluso & Lund, 2011; Scoones et al., 2018; Zoomers, 2010). Anche l'idea di una "economia verde" globale è emersa come potente elemento trainante, ridefinendo una serie di crisi economiche e ambientali sovrapposte collegate al capitalismo come un' opportunità di arrivare a una globalizzazione e a uno sviluppo "sostenibile" basato su una crescita "verde" (Cavanagh & Benjaminsen, 2017; Dunlap & Fairhead, 2014; McAfee, 2016). Il dibattito nella green economy sulla "soluzione" a basso costo economico delle crisi legate al degrado ambientale, al cambiamento climatico e ai problemi di efficienza delle risorse ha ridisegnato le reti di potere e di autorità intorno alla governance delle risorse naturali su scala globale (Dempsey & Suarez, 2016, p. 3; Fletcher, 2014; Mehta, Huff, & Allouche, 2019).

Da questi nuovi incentivi e dalle politiche di investimento sulle risorse sono emersi nuovi modelli e forme di acquisizione delle risorse che si affiancano alle forme "tradizionali" di investimento per l'agroalimentare e l'estrazione (Zoomers, 2010). Le nuove forme vanno dallo sviluppo su larga scala delle coltivazioni alimentari e della produzione di biocarburanti, alla conservazione della natura guidata dai mercati, allo sviluppo di infrastrutture su larga scala e alla speculazione finanziaria (Benjaminsen & Bryceson, 2012; Borras et al., 2011; Hall, 2011). Questi sviluppi includono i cosiddetti "green grabs", ovvero acquisizioni di territorio da parte di governi e investitori privati che sono legittimati e operano mirando ad affrontare, mitigare o "risolvere" problemi ambientali come il riscaldamento globale, il degrado del territorio e la perdita di biodiversità (Corson & MacDonald, 2012; Dunlap & Fairhead, 2014; Fairhead, Leach, & Scoones, 2012; Lunstrum, 2014). In nome della "sostenibilità", la protezione ambientale privata e la compensazione dei danni ambientali sono sempre più utilizzati per fare investimenti di green washing impiegando risorse su larga scala con effetti devastanti per l'ambiente (Bond, 2018; Castree, 2008; Freslon & Cooney, 2018).

Un numero significativo di borse di studio è stato dedicato a questi driver su macro-scala dell'accaparramento delle risorse da parte degli stati e degli investitori aziendali e alla loro relazione con le sempre maggiori disparità nel controllo delle risorse in scale diverse (Borras & Franco, 2012; Burnod, Gingembre, & Andrianirina Ratsialonana, 2013). Analogamente, uno studio importante ha sottolineato le risposte sul territorio di varie popolazioni a queste dinamiche - contestazione e resistenza all'espropriazione e all'esclusione, ma anche reazioni come l'acquiescenza e l'incorporazione in geografie di risorse marginali o di frontiera "dove autorità, sovranità ed egemonie del recente passato sono state o sono messe in discussione da nuovi confini, regionalizzazioni e regimi di proprietà" (Hall et al., 2015; Murray Li, 2014; Peluso & Lund, 2011, p. 668).

Tuttavia, per comprendere i collegamenti tra i driver globali e le diverse mobilitazioni, movimenti e reazioni "dal basso", restano importanti le domande su come le nuove e interconnesse politiche di sicurezza e di accumulazione di "verde" abbiano plasmato o alterato le reazioni e le strategie "dall'alto" - strategie e tattiche che vengono utilizzate per legittimare, rendere coresponsabili, creare consenso e reprimere il dissenso - nel contesto sia dei tradizionali che dei nuovi scenari di sviluppo delle risorse (Brock & Dunlap, 2018; Geenen & Verweijen, 2017). In che modo elementi e tecnologie degli "ordini passati", comprese le logiche e la continuità del razzismo, del dominio ecologico e della guerra, viaggiano nel tempo, si evolvono e si "riadattano" nelle istituzioni e nelle prassi contemporanee (Rasmussen & Lund, 2018)?

In questo articolo, approfondiamo questi temi in relazione alla creazione e al funzionamento della miniera di ilmenite QIT-Madagascar Minerals (QMM) nel sud-est del Madagascar.
QMM è una partnership pubblico-privata unica tra la filiale di Rio Tinto QIT-Fer et Titaine e il governo malgascio, uno dei più grandi progetti di sviluppo in Madagascar e una delle più grandi e controverse operazioni minerarie al mondo (Gerety, 2009). Nonostante le dichiarazioni ufficiali di QMM, che sostengono un forte impegno per ottenere la "licenza sociale ad operare" attraverso un'ampia "strategia di impegno sociale" (Rio Tinto, 2016), la miniera ha scatenato una serie di conflitti sociali, lavorativi, ambientali, legali e di lotta per la sopravvivenza, sin dal primo momento in cui è stata aperta. Pur apportando innegabili benefici ad alcuni, l'operazione è stata condannata da molti locali e da attivisti internazionali come socialmente e ambientalmente ingiusta. La QMM è stata duramente criticata da ambientalisti malgasci e internazionali e da attivisti per i diritti umani per le violazioni dei diritti fondamentali, le esclusioni e la violenza, e per avere eseguito una "doppia appropriazione di terra" - una per le attività minerarie e una per la compensazione della biodiversità separata dal territorio - che ha provocato il trasferimento economico e fisico di contadini, pastori e pescatori malgasci (Kill & Franchi, 2016). Parallelamente, i ricercatori criticano la QMM per il 'greenwashing', facilitato dalla strategia aziendale in evoluzione di Rio Tinto per l'effetto netto positivo (NPI), come mezzo per ottenere un 'espropriazione gestita' (Kraemer, 2012, p. 266) (cfr. Seagle, 2012).

La nostra analisi collega la problematica dell'ecologia politica con la politica critica della natura e della violenza per le risorse (cf. Brock & Dunlap, 2018; Le Billon, 2001; LeBillon & Duffy, 2018; Massé, Lunstrum, & Holterman, 2017; Neumann, 2004; Peluso & Vandergeest, 2011; Watts & Peluso, 2014) in un dialogo con i principali dibattiti di geografia politica, studi critici sulla sicurezza e ricerche sulle geografie della violenza e della guerra (Belcher, 2012; Gregory & Pred, 2013; Laurie & Shaw, 2018; Springer, 2011; Springer & Le Billon, 2016; Tyner & Inwood, 2014; Tyner & Rice, 2016). Attraverso i risultati dell'analisi delle politiche, la consultazione della letteratura primaria e secondaria e le testimonianze raccolte da interviste e testimonianze orali condotte in quasi un decennio di ricerche sul campo e di lavoro di sensibilizzazione locale e internazionale nel e sul sud del Madagascar, proponiamo un approccio riformulato alla "guerra per le risorse" che vada oltre e contro i discorsi dominanti sulla sicurezza ambientale e le "guerre per le risorse". In particolare, analizziamo come la 'pacificazione', teorizzata come una forma produttrice di violenza che opera attraverso il riordino della socio-natura, sottoscriva le forme di 'sicurezza', 'stabilità' e persino 'sostenibilità' che facilitano strategie multiple e sovrapposte di estrazione di valore negli spazi territoriali ed extraterritoriali occupati dalla partnership con la miniera QMM.

Presenteremo questo concetto suddividendolo in cinque sezioni principali. Iniziamo il documento evidenziando i contributi dell'ecologia politica in relazione ai dibattiti chiave della geografia politica, agli studi critici sulla sicurezza e all'economia politica delle risorse, in particolare in relazione al conflitto per le risorse e a come la violenza e le tecnologie della sicurezza si manifestano attraverso iniziative di conservazione e di sviluppo. Introdurremo anche una riconcettualizzazione critica della "pacificazione", radicata nella politica anti-sicurezza (Neocleous & Rigakos, 2011; Rigakos, 2011, 2016) e nella fenomenologia della violenza (Baron et al., 2019), che inquadra la nostra analisi. In seguito, parleremo delle tendenze storiche e dei recenti cambiamenti nel contesto politico malgascio che hanno aperto il Paese agli investimenti estrattivi e alla liberalizzazione della natura. A seguire, introdurremo i complicati schemi di spazialità e di governance della MQM in termini di sovrapposizione di "zone di esclusione" ed esploreremo le tattiche "dall'alto" attraverso le quali il partenariato minerario ottiene l'accesso al territorio, al potere politico e alla legittimità per operare tra la resistenza locale e la critica internazionale. Alcune strategie e tattiche "dall'alto" hanno una lunga storia, che attinge a logiche e pratiche di guerra ben sedimentate. Pertanto, per capire cosa c'è di 'nuovo' in queste dinamiche, approfondiremo poi l'esplorazione delle continuità e delle discontinuità storiche nel modo in cui l'estrazione del valore è stata progettata in Madagascar. Sottolineiamo il valore di una narrazione storica razzializzata dell'insurrezione ecologica che giustifica l'emarginazione politica collegando i processi di enclosures passati e presenti e la violenza associata a forme elaborate di estrazione di valore. In conclusione, riflettiamo sull'utilità di una riconcettualizzazione critica della "guerra per le risorse", e sulla necessità di una ricerca continua sulla colonizzazione e sull' immanenza delle forme di violenza relazionale nei processi di messa in sicurezza e di rifacimento dei margini come frontiere della accumulazione di valore.

2. Una nota sulle autrici

Le coautrici di questo articolo sono un'antropologa sociale/ambientalista politica con esperienza nella ricerca sulle controverse politiche di cambiamento ambientale in Madagascar e sulle sue manifestazioni ed effetti locali nel sud del paese (Huff), e la direttrice di una piccola ONG internazionale impegnata nell'attivismo internazionale e nella difesa della comunità nella questione QMMM (Orengo). Ognuna di noi ha più di un decennio di esperienza nelle rispettive aree, con alcune importanti sovrapposizioni in termini di partecipazione a campagne per il riconoscimento delle rivendicazioni locali. L'analisi che presentiamo in questo articolo si basa su elementi di prova e documentazione che riflettono e mettono insieme le nostre diverse formazioni e le nostre competenze. Inoltre, a causa dei nostri rispettivi vincoli etici, delle nostre rispettive esperienze professionali e personali in Madagascar e a livello internazionale, non siamo osservatori neutrali e non rivendichiamo la "distanza" in rapporto al caso in questione.

3. Ecologia politica, geografia critica e sicurezza

Legata strettamente alla geografia critica, agli studi sullo sviluppo e all'antropologia sociale, l'ecologia politica è emersa da una critica radicale agli approcci apolitici alla ricerca e alla pratica ambientale e di sviluppo (Adger et al., 2001; Le Billon, 2001, p. 563). Nel corso del tempo, attraverso una crescente attenzione alle questioni relative alla costruzione, all'accesso e al controllo delle risorse naturali, il suo ambito di ricerca si è differenziato e ampliato per concentrarsi sull'intreccio delle dimensioni strutturali, sociali e ambientali delle relazioni di potere, sui processi di cambiamento ambientale, sull'accumulazione basata sulla natura e sulle lotte per la giustizia su scale diverse Per questo motivo, la ricerca in ecologia politica spesso si interseca in maniera significativa con i dibattiti di geografia politica, geopolitica critica, gli studi sulla sicurezza e l'economia politica delle risorse naturali. Gli ecologisti politici hanno utilizzato analisi critiche a grana fine che combinano strumenti di etnografia, analisi politica, ricerca istituzionale, storica e d'archivio per dimostrare come le dinamiche apparentemente "locali" del cambiamento ambientale, dei conflitti e delle lotte popolari si articolano e si intrecciano con la politica e i processi materiali "globali". Abbiamo dedicato particolare attenzione alle questioni relative alla riconfigurazione delle relazioni socio-naturali e del potere socio-spaziale, incluso cambiare i dibattiti, i processi tecnici e materiali, le pratiche e le relazioni istituzionali (Le Billon, 2007, p. 170).

Un tratto distintivo dell'ecologia politica - condiviso con altre scienze sociali critiche - è la sua attenzione al ruolo delle relazioni di potere nei processi storici di costruzione sociale e, di conseguenza, lo scetticismo epistemologico verso approcci universalistici, riduttivi e 'categorici' alla conoscenza (Castree & Braun, 1998; Cronon, 1996). Di chi sono gli interessi, i valori e le visioni del mondo che si riflettono in autorevoli discorsi e rappresentazioni della "natura", delle "risorse", dello "sviluppo" e della "sostenibilità"? Chi è messo a tacere, escluso, emarginato o danneggiato (Death, 2014, p. 9)? Questo orientamento ha portato a un grande impegno critico e a lavorare sulla sicurezza ambientale e sui conflitti per le risorse, sfidando le narrazioni neo-malthusiane sul conflitto per le risorse e le cosiddette "guerre per le risorse", e andando oltre le questioni della "maledizione delle risorse" e le relazioni causali tra conflitto e scarsità o abbondanza delle risorse (Bond, 2014; Collier & Hoeffler, 2005; Grossman & Mendoza, 2000; Homer-Dixon, 1994; Humphreys, Sachs, & Stiglitz, 2007; Ross, 2013).

L'approccio dell'ecologia politica può infatti allargare il dibattito a temi quali il modo in cui le risorse sono rese oggetti regolamentabili dell'accumulazione, il modo in cui la governance è modellata dall'evoluzione delle costellazioni di potere e autorità e il modo in cui il potere è espresso, esercitato e sfidato nel tentativo di stabilizzare e sostenere quello che Watts and Peluso (2014) descrivono come il "complesso di risorse". Quindi l'ecologia politica contribuisce a chiarire la complessità sociale e spaziale dei conflitti per le risorse, non solo perché nasce dal cambiamento dell'accesso alle risorse a causa dei processi di privatizzazione e di enclosures contemporanei, ma anche perché emerge dalle lotte storiche e dai cambiamenti dei regimi di verità e di accumulazione che configurano gli immaginari coloniali e capitalistici della natura, della società, degli utilizzatori delle risorse e dello sviluppo (LeBillon & Duffy, 2018; Watts & Peluso, 2014, p. 196).

3.1. Sicurezza ambientale, guerra per le risorse e controinsurrezione

Nel corso degli anni '90, l'"ampliamento dell'agenda della sicurezza" del dopo-guerra fredda ha esteso e normalizzato le logiche di sicurezza in una serie di settori, collegando queste questioni alle questioni militari e inquadrandole come "equivalenti ai problemi militari" (Floyd, 2008, p. 54). Nella politica ambientale, si è esteso ai temi relativi al controllo delle relazioni delle persone con l'ambiente e le risorse naturali (Dalby, 1992, 2002; 2003; Eriksson, 1999; Homer-Dixon & Levy, 1995; Ney, 1999; Wæver, 1993). Le questioni relative alla fauna selvatica, alla terra, all'acqua, alle foreste, alle risorse minerarie e ai processi di cambiamento ambientale sono state riconcettualizzate in termini di "sicurezza ambientale", come minacce alla pace nazionale, internazionale o anche globale e alla stabilità sociale, politica ed economica (Barnett, 2001; Eriksson, 1999; Huff, 2017; Rothschild, 1995, pp. 53–98; Trombetta, 2006, 2010). Con le parole di Duffield (2011: 7–8), " … la guerra, l'economia e la natura diventano un'unica problematica di sicurezza, che siano esse naturali o create dall'uomo, e diventano un'unica cosa; una minaccia ora paragonata a un attacco militare". La nozione controversa di sicurezza ambientale si è evoluta fino a comprendere una serie di posizioni che attingono a presupposti neo-malthusiani sulle relazioni uomo-ambiente e considerano la scarsità e il degrado delle risorse come un driver di "conflitto ambientale"’ (Barnett, 2001, 2003; Barnett & Adger, 2007; Duffy, 2016; Floyd, 2008; Matthew, 1995; Ney, 1999).

Lo sviluppo del dibattito sulla sicurezza ambientale è legato alla svolta verso l'incorporazione esplicita del linguaggio e delle logiche operative della guerra nella conservazione e nello sviluppo delle risorse (Duffy, 2016; Neumann, 2004). All'inizio degli anni 2000, i ricercatori avevano cominciato a riconoscere come le richieste materiali e le pratiche associate alle cosiddette "nuove" modalità di guerra e di cartolarizzazione influenzassero i modelli e l'intensità dello sfruttamento delle risorse e lo stato dell'ambiente (Kaldor, 2013; Le Billon, 2001; Peluso & Watts, 2001). D'altro canto, la guerra stava diventando un 'modello e una metafora comune' associata alla conservazione dell'ambiente e alle rivendicazioni delle risorse naturali, in particolare nel sud del mondo (Neumann, 2004). Facendo leva su una radicata paura dei "poveri" e delle loro rivendicazioni sulle risorse e sullo spazio, i primi lavori su questa nuova dimensione della "guerra delle risorse" hanno associato la sua normalizzazione a una emergente "geografia morale" in cui la forza, sotto forma di coercizione, espropriazione e altre forme di violenza, era giustificata ed espressa attraverso tecniche di controllo territoriale e sociale e con la subordinazione dei diritti e dei mezzi di sussistenza delle persone alle preoccupazioni sulla "sicurezza" (Neumann, 2004, p. 813).

Di recente, i ricercatori hanno proposto nuovi paradigmi per riflettere su come il linguaggio, le logiche e le motivazioni della guerra siano confluite nelle pratiche di tutela e di sviluppo. Il lavoro sulla 'militarizzazione verde' (Lombard, 2016; Lunstrum, 2014), sulla ‘green security’ (Kelly & Ybarra, 2016) e "guerra per la preservazione (Duffy, 2016) hanno analizzato forme " dure", " dirette" o " cinetiche" di militarizzazione e di violenza associate all'intensificazione della protezione delle aree protette, alle campagne anti-bracconaggio (Massé, Gardiner et al., 2017) e alla salvaguardia di zone di guerra (Marijnen & Verweijen, 2016). Altri hanno sottolineato l'importanza di considerare le dinamiche spaziali e temporali di forme di violenza e di abbandono lente o " logoranti" che possono essere alla base di episodi "esplosivi e spettacolari" in contesti naturalistici ed estrattivi (Cliggett, 2014; Huff, 2017; Nixon, 2011, p. 2; Witter & Satterfield, 2018). Sulla base di lunghe storie di lotta per i cicli di penetrazione, violenza e abbandono che possono caratterizzare i luoghi "marginali", Huff (2017: 3) ha suggerito che le nuove tendenze nell'accaparramento delle risorse per la conservazione della biodiversità e l'estrazione del valore industriale possono in alcuni casi essere paragonate a una "fase d'assedio" in una prolungata guerra di logoramento per il controllo delle frontiere delle risorse.

Il confronto tra le intuizioni di questo lavoro e gli studi critici militari ha condotto a una riflessione più approfondita sull'ambiente e sulla governance ambientale nel dibattito sul "nesso sicurezza-sviluppo" (Duffield, 2010, 2011). Ha anche fornito una visione più ampia dei modi in cui le logiche della sicurezza, della guerra e dell'accumulazione di capitale sono co-istituite nella vita quotidiana e inscritte nel paesaggio attraverso pratiche di tutela e di sviluppo violente e militarizzate (Masse, 2017; Massé, Lunstrum, et al., 2017). A tale scopo, l'ecologia politica della contro-insurrezione (aziendale), in particolare, è emersa come una lente analitica importante che amplia le nozioni di conflitto e di guerra e approfondisce gli approcci metodologici per comprendere la fabbricazione di consenso e di coercizione intorno alla salvaguardia e agli interventi estrattivi (Brock & Dunlap, 2018; Dunlap, 2019; Anderson, 2011; Parenti, 2011).

La cosiddetta guerra "convenzionale" punta a controllare il territorio e a distruggere il potere militare dell’avversario (Parenti, 2011). Sulla base della teoria militare francese e statunitense (esistono varie "tradizioni" nazionali di contro-insurrezione), la contro-insurrezione, o COIN, è una forma variegata e adattiva di guerra "interna", "asimmetrica" o "irregolare" in cui si preferiscono tattiche politiche, economiche e psicologiche per condurre una guerra "incentrata sulla popolazione", ma affiancata alla violenza militare (Anderson, 2011; Belcher, 2012; FM3-24, 2014; Galula, 2002). Il lavoro svolto in precedenza nell'ecologia politica di COIN ha indagato i ruoli storici dell'insurrezione e della guerra controinsurrezionale nella costruzione dei territori statali e delle "nature nazionali" (Peluso & Vandergeest, 2011; Ybarra, 2012). Brock and Dunlap (2018: 34) identificano nella COIN aziendale le azioni intraprese dalle aziende "per mitigare la violenza e promuovere la stabilità attraverso misure di sviluppo sociale e di sicurezza con l'obiettivo primario di "conquistare cuori e menti" delle popolazioni locali". COIN - come costellazione tattica - è utilizzata per legittimare le operazioni estrattive, ottenere un tacito controllo politico sulle popolazioni e sulle risorse e minare la capacità di resistenza alla chiusura e alla penetrazione aziendale

Che l'obiettivo sia il controllo militare o dell'impresa dello spazio, la COIN è concepita per lavorare a livello "capillare" delle relazioni sociali di una popolazione (Parenti, 2015, p. 47). Crea " fratture" e lacerazioni nel tessuto sociale che separano l'"amico" dal "nemico" e attraverso queste divisioni controllano la società (Belcher, 2012). In questo senso, la COIN privilegia pratiche come la messa in sicurezza del territorio, la fornitura di infrastrutture fisiche e l'istituzione di programmi di sviluppo sociale ed economico, la distribuzione di aiuti, l'istituzione di scuole e altre strategie volte a conquistare la fidelizzazione, mentre le campagne di propaganda e la promozione di reti di sostegno e patrocinio mirano a isolare o a minare l'opposizione politica e a cooptare i membri della classe politica. Parallelamente, la sorveglianza, le azioni militari e la minaccia di usare la forza sono strumenti efficaci per disciplinare le popolazioni, consolidare la cooperazione e rafforzare le divisioni sociali (cfr. Brigham, 1968 citato in Dunlap, this issue; FM 3–24, 2014).

3.2. Pacificazione e geografie della violenza nella pianificazione dell'estrazione

Questo corpus crescente di lavori ha una particolare attinenza con il programma di ricerca in corso sulle geografie della violenza che richiede una maggiore sensibilità per le forme, le espressioni, la relazionalità e le dimensioni procedurali della violenza e la reciproca costituzione della violenza e dello spazio (Blomley, 2003; Gregory & Pred, 2013; Laurie & Shaw, 2018; Springer & Le Billon, 2016; Tyner & Inwood, 2014). Ha contribuito ad aiutare a chiarire il concetto di come le diverse forme di violenza e le tecnologie di sicurezza si manifestano attraverso iniziative di sviluppo (Tyner & Rice, 2016; Verweijen & Marijnen, 2018; Ybarra, 2012). Questo, a sua volta, permette di capire come le "geografie immaginative" (Springer, 2011, p. 90) e le tecnologie del neoliberismo associate allo sviluppo, alla sostenibilità e alla guerra, possano guadagnare terreno e interagire per costruire legittimità e validità nel contesto di lotte per il territorio e le risorse, spesso violente.

I tentativi di controllare la terra e le persone sono spesso violenti e il ricorso a tattiche militari per assicurarsi il controllo del territorio, della fauna selvatica e di altre risorse da parte di élite e stranieri ha una lunga e sanguinosa storia nell'Africa subsahariana, anche quando non è stata definita in termini di "guerra" (Duffy, 2016; Gregory & Pred, 2013; Ybarra, 2012). Come sostengono Rasmussen e Lund (2018) "[c]onfrontazioni, che spaziano dagli sfratti al genocidio, hanno contrassegnato lo schieramento di un potere politico schiacciante per aprire le frontiere, dalle conquiste coloniali che hanno distrutto e trasformato i sistemi di diritto degli indigeni, alla contemporanea espropriazione dei genomi". Gli strumenti, e per estensione le manifestazioni e gli effetti della violenza, sono modellati dalle forme di potere che li manovrano. Le geografie della violenza sono "disparate, eterogenee, e variegate", poiché le sue manifestazioni possono essere "eccezionali" e spettacolari o invisibili e insidiose (Springer, 2012, p. 136).

Nella dottrina militare e in molte ricerche sulla COIN, i termini "pacificazione" e "controinsurrezione" sono spesso usati in modo intercambiabile (si vedano ad esempio Belcher, 2012; Brock & Dunlap, 2018; Dunlap, 2019; FM3-24, 2006, 2014; Galliéni, 1900a, 1900b; Galula, 2002, 2006). Ma il lavoro sulle politiche di Anti-sicurezza (Manolov & Rigakos, 2014; Neocleous, 2011, 2013), la teoria critica della pacificazione (Rigakos, McMullan, Johnson, & Özcan, 2009; 2016) e la fenomenologia della violenza (Baron et al., 2019)offrono riconcettualizzazioni interessanti e radicali della pacificazione che la differenziano dall'uso comune e dalla COIN. I teorici dell'Anti-sicurezza e della pacificazione critica considerano la pacificazione, definita come la necessità di " proteggere l'insicurezza ", come fondamentale per i rapporti sociali - e, sosteniamo noi, socio-naturali - della modernità capitalista, e mirano a mettere in atto una politica radicale, critica e transdisciplinare per " spiazzare l'ubiquità e la portata " del discorso liberale sulla sicurezza (Neocleous, Rigakos, & Wall, 2013; Neocleous & Rigakos, 2011; Rigakos, 2011, p. 63).

Ispirandosi al pensiero anarchico e postcoloniale, Baron et al. (2019: 5), considerano la pacificazione come un'architettura di sicurezza invisibile che opera come un regime di costrizione o di dominio naturalizzato e interiorizzato. Mentre le forme di violenza diretta corrispondono al "potere obbligato" e la violenza indiretta al "potere istituzionale e strutturale", la pacificazione, sebbene "supportata" attraverso l'esercizio di altre forme di violenza, opera principalmente attraverso il "potere produttivo" e produce gli elementi di "pace" e di "stabilità" liberale - garantendo l'insicurezza - che è tanto necessaria all'ordine mondiale contemporaneo. Ne consegue che le strutture dell'ordine creano ed espandono spazi e luoghi di pacificazione, non limitati agli spazi del "capitalismo liberale, del colonialismo e delle conseguenze postcoloniali" (Baron et al., 2019, p. 6). Riallacciandosi al concetto di "garantire l'insicurezza" di cui si è parlato sopra, sostengono che "il segno distintivo della pacificazione è che le strutture di dominio garantiscono che la resistenza sotto forma di violenza diretta contro quest'ordine sia meno frequente". In altre parole, gli episodi di violenza "spettacolare" rivelano guasti o debolezze nell'architettura di sicurezza della pacificazione, o situazioni in cui la pacificazione opera su un terreno che può sempre superare le sue capacità.

Questo primo piano sulla pacificazione è particolarmente importante per la nostra analisi perché sottolinea la centralità delle storie di dominio - sia della natura che della società - nel plasmare sia le architetture di sicurezza contemporanee, sia i terreni di lotta (Neocleous & Rigakos, 2011, p. 18). Rigakos (2016: 27) ipotizza la pacificazione come un processo stratificato e storico, che comporta espropriazione, sfruttamento e mercificazione, che riflette la necessità del capitale di creare territori produttivi e di "disciplinare in modo permanente" le persone nel loro ruolo di lavoratori e soggetti che favoriscono lo sfruttamento. Ciò è importante per tre motivi principali.

Primo, per quanto riguarda le questioni di territorializzazione e di espropriazione associate alla tutela e allo sviluppo estrattivo, ciò implica la necessità di tenere conto dei confini geografici e politici, non come spazi vuoti o non governati che hanno bisogno di essere addomesticati, civilizzati o "sviluppati", ma come sono stati creati storicamente. A tal fine è necessario riconoscere che i confini sono spazi che comprendono sia complesse relazioni socio-naturali che coinvolgono diversi attori, sia "rivendicazioni sovrapposte" ’ (Hunsberger et al., 2017, p. 314), che esistono in una condizione di sovrapposizione istituzionale che può creare una forte ambiguità nelle relazioni tra stato e società (Graeber, 2007), e che sono prodotti " in mezzo " e anche in relazione alle enclave che sono state protette attraverso la globalizzazione (Ferguson, 2005, p. 379).

Secondo, concentrarsi sulla storia significa concentrarsi sulle logiche di dominio che giustificano e naturalizzano lo sfruttamento e la violenza. Questo comprende i modi in cui il razzismo rientra nella costruzione dell'"altro" - la produzione e la proiezione dell'"insurrezione" - che crea e normalizza il rischio, la paura, il pericolo e l'urgenza - il senso di insicurezza - con cui la "cartolarizzazione" è fatta apparire socialmente necessaria. L’altro da sé isola coloro i cui diritti, dignità o vite sono scomodi o che rifiutano le forme di sviluppo, di sensibilizzazione o di modernizzazione offerte loro, giustificando il disinteresse e l'incuria (Andreucci & Kallis, 2017, p. 96; Springer, 2011).

Terzo, guardando alla "natura", abbiamo introdotto l'idea che la pacificazione è fondamentale per consentire i rapporti socio-naturali della modernità capitalistica. Data l'evoluzione della sicurezza ambientale e l'obiettivo della pacificazione di creare "territori produttivi" e sudditi, la pacificazione non dovrebbe essere rilevante solo per comprendere il ruolo della violenza nel ri-ordinare i rapporti tra gli individui e le istituzioni sociali. Dovrebbe anche essere importante per capire le tecnologie che ri-ordinano la "natura" - le relazioni materiali, biologiche, politiche, socioculturali e affettive tra le persone e le cose che non sono persone. In questo ambito, è particolarmente significativo e pertinente mettere in relazione il lavoro degli ecologisti politici sulla conservazione e la neoliberalizzazione e la commercializzazione della natura con il lavoro sulla fenomenologia e le geografie della violenza.

Negli ultimi anni, le risposte politiche alle crescenti crisi dei cambiamenti climatici, al degrado ecologico, alla volatilità economica e alle crescenti disuguaglianze basate sull'economia neoclassica e sull'ambientalismo di mercato hanno comportato un'azione coordinata per creare una "economia verde" globale basata sulla crescita "verde", in parte con l'uso di strumenti di mercato per valorizzare economicamente, rappresentare e commercializzare il "capitale naturale" e i "servizi ecosistemici" (Sullivan, 2009). La logica alla base della "commercializzazione della natura" è che rendere la natura "visibile" nel PIL incentiverà la gestione delle risorse private e, in ultima analisi, finanzierà la salvaguardia e la "riparazione" della biodiversità, dell'atmosfera e di altri aspetti vitali della natura (Fairhead et al., 2012; Fletcher, Dressler, Anderson, & Büscher, 2018).

La compensazione è un sottoinsieme di tecniche, pratiche e presupposti che rispecchiano tendenze più ampie di commercializzazione e mercificazione della natura. Secondo le idee di Baron et al. (2019) e Rigakos (2016) di cui sopra, la compensazione può essere vista come una tecnologia di pacificazione che capitalizza la rottura e il dissesto - sia quello ambientale causato dall'industrializzazione sia quello delle forme di espropriazione - e agisce attraverso la rielaborazione produttiva dei rapporti tra persone, istituzioni e natura non umana per trasformare la natura danneggiata, minacciata o improduttiva in un territorio economicamente produttivo. Anziché produrre materie prime attraverso la coltivazione di colture o l'estrazione di minerali, la compensazione introduce forme di sorveglianza e di controllo, regimi metrologici e principi commerciali nella gestione, nella valutazione e nella vita sociale di un territorio. Così come la pacificazione "protegge l'insicurezza" in modi che possono mantenere o rafforzare le strutture di dominio sociale, la compensazione "protegge l'insicurezza" dei cambiamenti ambientali producendo ed attuando le forme della "sostenibilità" che facilitano una crescita industriale continua.

Così come avviene per le aree protette tradizionali, i sostenitori della compensazione si affidano all'autorità morale dell'ambientalismo tradizionale del nord per invisibilizzare la violenza e, in particolare, l'espropriazione violenta delle popolazioni rurali. Sostenuta dal potere istituzionale e strutturale degli stati, delle organizzazioni internazionali e dei partner del settore privato, la compensazione fondiaria comporta anche il trasferimento e la formalizzazione dei diritti di proprietà e/o di gestione delle risorse a investitori, ONG, agenzie ambientali o altri beneficiari riconosciuti. In contesti di tutela convenzionali, l'espropriazione è spesso giustificata attraverso rappresentazioni di minacce, degrado e necessità di interventi esterni per la tutela (Huff, 2011; Huff, 2017, p. 6; Kull, 2002a, 2002b). La compensazione è diversa in quanto opera secondo i principi produttivi della "riparazione" e del "restauro" della natura piuttosto che della sua salvaguardia. Affinché la compensazione abbia luogo, deve esserci l'ipotesi, fin dall'inizio, che, all'interno di un'area delimitata, si sia verificato o si verificherà un deterioramento ambientale o che progredisca in assenza di un intervento esterno per impedirlo. La creazione di una compensazione, in quanto tecnica di attenuazione ambientale, consiste nell'intraprendere "attività supplementari benefiche per l'ambiente" in un unico luogo "al fine di compensare i danni ambientali di altri luoghi" (Lovell, 2018, p. 223; Mahanty, Milne, Dressler, & Filer, 2012; Lohmann, 2012).

Gli ecologisti politici e i geografi critici hanno individuato una varietà di "rischi" sociali e tecnici che sorgono intorno ai cambiamenti associati alla compensazione ambientale (Awung & Marchant, 2017; Bennett & Dearden, 2014; Dooley & Gupta, 2017; MacKenzie, 2009; McAfee, 2012, 2014; Pelletier, Gélinas, & Skutsch, 2016; Peluso & Lund, 2011). Per mostrare addizionalità è necessario dimostrare un qualche tipo di beneficio ambientale quantificabile al di sopra di un livello di degrado giudicato "di base". Spesso questo avviene limitando l'uso delle risorse a livello locale o allontanando le persone politicamente emarginate da un'area protetta, di ripristino o di risanamento. La compensazione è in grado di riconfigurare permanentemente, in modi complessi e spesso dannosi, le modalità di accesso alle risorse, i ruoli di genere e le istituzioni del lavoro, le istituzioni di governance consuetudinarie e la distribuzione della ricchezza e della proprietà tra la popolazione (Awung & Marchant, 2017; Pelletier et al., 2016). Come in altre forme di salvaguardia escludente, queste restrizioni sono spesso applicate attraverso provvedimenti di natura militare, tra cui la recinzione, la sorveglianza e l'uso della forza, e la criminalizzazione dei mezzi di sussistenza.

La salvaguardia e la compensazione privata si intrecciano sempre più con l'espansione e l'intensificazione delle attività estrattive nei paesi ricchi di risorse dell'Africa subsahariana e sono associate a contestazioni, resistenze e conflitti in scenari di risorse locali (Bond, 2018; Castree, 2008; Freslon & Cooney, 2018). Grazie a iniziative politiche, standard di settore, direttive aziendali e strategie di marketing, la compensazione consente anche alle industrie più inquinanti o ecologicamente dannose di effettuare operazioni di "greenwashing", o di sostenere di aver "neutralizzato" o addirittura invertito forme di danno ambientale, come le emissioni di carbonio, il degrado del territorio o la perdita di biodiversità (Chiapello, 2015; Lohmann, 2012; Lovell, 2018; Mahanty et al., 2012). In questo modo gli attori industriali possono apparire sensibili e quindi essere meno soggetti a critiche ambientaliste, o addirittura possono affermarsi come leader del settore in materia di "sostenibilità" (Huff & Brock, 2017; Mol & Spaargaren, 2000).

* L'articolo è stato pubblicato dalla rivista Political Geography, Volume 81, ed è scaricabile da www.sciencedirect.com. La traduzione all'italiano è di Lodovica Mutarelli.

(1. Continua)

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI


Resource warfare, pacification and the spectacle of ‘green’ development: Logics of violence in engineering extraction in southern Madagascar
Amber Huff, Yvonne Orengo,
Political Geography, Volume 81, August 2020 - 15 pp.

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04 maggio 2021 (pubblicato qui il 05 agosto 2021)