6. Continuità storica della progettazione dell'estrazione mineraria.
È opportuno osservare la QMM attraverso la lente del paesaggio, perché in realtà non è semplicemente "una miniera". Un paesaggio cambia continuamente, e in ogni momento rappresenta un misto di processi geologici ed ecologici, di usi del suolo, di istituzioni e di "rivendicazioni sovrapposte” (Hunsberger et al., 2017, p. 314). Il territorio terroir di estrazione nel sud-est del Madagascar è nato a causa di una serie di circostanze che si sono intersecate: violenza storica ed esclusioni di classe; la geologia regionale e la distribuzione dei minerali sotterranei; la biogeografia regionale; storie complesse di utilizzo del paesaggio che hanno modellato l'estensione e l'ubicazione delle aree forestali, delle PA e degli insediamenti rurali e dei mezzi di sussistenza; riforme politiche liberali; le modalità imperialistiche, tra le quali l'aumento di rilievo del discorso dell'"economia verde"; l'espansione territoriale del sistema di aree protette del Madagascar (SAPM) e la decisione deliberata di QMM di integrare il suo operato nel "piano di sviluppo regionale a lungo termine "piuttosto che creare "un'industria di enclave" (Rio Tinto, 2016, p. 11). La spazialità di QMM è caratterizzata dall'intersezione di schemi di controllo dei conflitti diversi. Questa spazialità - la dinamica, o produzione, di questo paesaggio - può essere compresa più pienamente attraverso la lente della pacificazione che non attraverso i tradizionali approcci settoriali alla governance o gli approcci critici della sola teoria della controinsurrezione.
Fin dalla sua formalizzazione nel XIX secolo, la storia "ufficiale" è stata uno strumento di governance incredibilmente potente e continua a giocare un ruolo importante nelle discussioni politiche di oggi. La costituzione di una "nazione" non può essere scissa dalla normalizzazione della gerarchia razziale e di classe, né da una costruzione storica della "foresta politica" descritta da Peluso and Vandergeest (2011), dove - reali o immaginati – I membri di una sottoclasse sovversiva e pericolosa sono stati visti sia come minacce alla proprietà dello stato, sia come ribelli contro il progetto di civilizzazione associato alla costruzione dello stato. Influenzata dalle leggende sul degrado e dalla profonda matrice culturale euroamericana delle idee neomalthusiane, la rappresentazione dei malgasci poveri e delle popolazioni rurali malgasce come estranei e devastatori dell'ambiente si è istituzionalizzata e continua a rafforzarsi nelle narrazioni scientifiche e popolari del cambiamento ambientale in Madagascar. Queste vanno Diamond’s (1989) dall'uso estremamente problematico della metafora ‘sitzkrieg’ che equipara l'insediamento umano in Madagascar a una violenta invasione e a una guerra di logoramento realizzata attraverso la "distruzione massiccia dell'habitat" e l'estinzione della specie (si veda la critica di Huff, 2017) alle rappresentazioni mediatiche popolari del paese con "un cuore trafitto" (Draper, 2010), il suo cuore rosso che sanguina nel mare" (Morrell, 1999, p. 63), un "microcosmo per la fine dei tempi" (Allen, 2015).
Sotto il dominio coloniale francese (1896-1960) queste rappresentazioni hanno legittimato l'istituzione della prima generazione di aree protette ristrette in Madagascar e una serie di decreti che hanno posto severe restrizioni ai mezzi di sussistenza di origine forestale. Come rileva Kull (2002b: 2) la resistenza al dominio nelle zone rurali del Madagascar non è una semplice questione di mobilitazione e di protesta dei contadini, ma è spesso una prassi molto più sottile e una "strategia multiforme finalizzata al sostentamento che nasce dal contesto politico-ecologico e dalle contraddizioni insite nel dominio statale" Le popolazioni rurali, gli stili di vita e persino i paesaggi resistenti al dominio sono stati quindi considerati dalle autorità coloniali come poco disciplinati e ingovernabili e intrinsecamente minacciosi per l'obiettivo primario dell'estrazione di valore, intrappolati in uno status di "insieme umano ed ecologico usa e getta" che ne giustifica la repressione con qualsiasi mezzo (Nixon, 2011, p. 4).
Nel corso degli ultimi anni, molti ricercatori e giornalisti hanno abbracciato il concetto che gli ultimi trent'anni circa rappresentano un'era di guerre "nuove" che comportano “conflitti a bassa intensità" e guerre "irregolari" o "asimmetriche", compresa la controinsurrezione (Kaldor, 2013; si veda la discussione in; Winter 2011, p. 489). Eppure, nonostante ci siano stati dei cambiamenti significativi, in particolare nei campi di battaglia e nelle tecniche di sorveglianza, le cosiddette "nuove" forme di guerra sono profondamente radicate nei progetti coloniali e postcoloniali europei e americani di pacificazione, "consolidamento" e territorializzazione post-conquista (Cassidy, 2006; Dunlap & Fairhead, 2014; Ferguson, 2014; Lackman, 2006; Peluso & Vandergeest, 2011; Ybarra, 2012). L'apparente rinascita della dottrina della controinsurrezione negli Stati Uniti, ad esempio, ha attinto in larga misura al lavoro specifico di David Galula (2002; 2006), un ufficiale e scrittore francese che ha combattuto in Algeria alla fine degli anni Cinquanta e ha teorizzato la COIN principalmente come una forma di guerra controrivoluzionaria. Tuttavia, le opere di Galula hanno dato per scontate molte "lezioni teoriche distillate da più di un secolo di pratica" nel contesto della colonizzazione francese (Rid, 2010, p. 728). Questo mascheramento occulta la storia della sperimentazione di forme di guerra ambientale e biologica accanto alle tecnologie sociali e alle tattiche di "pacificazione" utilizzate nelle più ampie campagne coloniali mirate a consolidare il controllo delle persone e del territorio. Tra queste, l'affinamento delle tattiche che, alla fine delle attività coloniali francesi del XIX secolo in Madagascar, hanno dato vita a una dottrina controinsurrezionale francese matura, sfaccettata e trasformativa (Rid, 2010, p. 731).
In Madagascar, la realizzazione della colonia ha comportato l'impiego di tecnologie sociali per instaurare un controllo inclusivo, ma anche la forza di sottomettere ed escludere la resistenza sia attiva che tacita all'espansione territoriale coloniale, allo sfruttamento della manodopera e all'estrazione di valore. Pioniere della colonizzazione francese del Madagascar, il metodo tache d'huile (‘a macchia d'olio’) o metodo Gallieni-Lyautey, è stato implementato e perfezionato dal governatore militare, e successivamente dal governatore generale Joseph Gallieni (1896-1905) e dal suo protetto Hubert Lyautey (1897-1902). Questo approccio "lievemente psicologico", privilegia l'azione politica rispetto all'intervento militare diretto per isolare l'opposizione e raggiungere un progressivo controllo del territorio (Betts, 2005, pp. 115–116; Venier, 1991). In conformità con questa politica, l'amministrazione coloniale francese ha adattato l'amministrazione coloniale alle istituzioni locali, favorendo così un governo indiretto e istituendo una tipica burocrazia coloniale. Per dividere le popolazioni rurali le forze francesi hanno armato in maniera differenziata i villaggi di frontiera e hanno usato un’occupazione progressiva "strisciante" con la creazione di avamposti militari di frontiera che si sono succeduti l’un l’altro. L'uso di "doni" locali per la collaborazione e lo sviluppo, insieme alla minaccia sempre presente del lavoro forzato, della prigionia o peggio, sono stati tutti mezzi importanti per stabilire il dominio e neutralizzare politicamente gli elementi locali "inutilizzabili" a livello territoriale (Griffin, 2009).
Oltre a giustificare una tale spaccatura sociale a favore della produzione e della riproduzione dell'autorità coloniale nel corso della progressiva occupazione, l'altra narrazione dell'insurrezione, ‘cotier ‘ largamente applicata ai contadini malgasci e alle loro ecologie sociali, è stata ripresa e strumentalizzata per trasformare l'isola in un territorio produttivo. In questo processo, la violenza "eccezionale", violenza che normalmente sarebbe stata vista dalla società come una violazione aberrante delle regole, è stata trasformata in una violenza "esemplare", la violenza che fa la regola (Springer, 2012). Per quelli che hanno rifiutato i "doni" della colonizzazione, in questo modo è stato legittimato un brutale sistema di repressione della polizia e della forza militare - oltre alla criminalizzazione dei mezzi di sussistenza, il sequestro delle proprietà, il rastrellamento dei villaggi, il lavoro forzato, l'insediamento forzato e, peggio ancora, la criminalizzazione dei mezzi di sussistenza.
Influenzata dalle leggende sul degrado e dalla profonda matrice culturale euroamericana delle idee neomalthusiane, la rappresentazione dei Malgasci poveri e delle popolazioni rurali malgasce come estranei e devastatori dell'ambiente si è istituzionalizzata e continua a rafforzarsi nelle narrazioni scientifiche e popolari del cambiamento ambientale in Madagascar. Queste vanno dall'uso estremamente problematico di Diamond (1989) della metafora ‘sitzkrieg’ che equipara l'insediamento umano in Madagascar a una violenta invasione e a una guerra di logoramento realizzata attraverso la "distruzione massiccia dell'habitat" e l'estinzione della specie (vedi la critica di Huff, 2017) alle rappresentazioni mediatiche popolari del paese con "un cuore trafitto" (Draper, 2010), il suo cuore rosso che sanguina nel mare’ (Morrell, 1999, p. 63),un "microcosmo per la fine del tempo" (Allen, 2015).
Sotto il dominio coloniale francese (1896-1960) queste rappresentazioni hanno legittimato l'istituzione della prima generazione di aree protette ristrette in Madagascar e una serie di decreti che hanno posto severe restrizioni ai mezzi di sussistenza di origine forestale. Come rileva Kull (2002b: 2) la resistenza al dominio nelle zone rurali del Madagascar non è stata una semplice questione di mobilitazione e di protesta dei contadini, ma è spesso una prassi molto più sottile e una "strategia multiforme finalizzata al sostentamento che nasce dal contesto politico-ecologico e dalle contraddizioni insite nel dominio statale" Le popolazioni rurali, gli stili di vita e persino i paesaggi resistenti al dominio sono stati quindi considerati dalle autorità coloniali come poco disciplinati e ingovernabili e intrinsecamente minacciosi per l'obiettivo primario dell'estrazione di valore, intrappolati in uno status di "insieme umano ed ecologico usa e getta" che ne giustifica la repressione con qualsiasi mezzo (Nixon, 2011, p. 4).
Nel corso degli ultimi anni, numerosi ricercatori e giornalisti hanno abbracciato il concetto che gli ultimi trent'anni circa rappresentano un'era di guerre "nuove" che comportano "conflitti a bassa intensità" e guerre "irregolari" o "asimmetriche", compresa la contro-insurrezione (Kaldor, 2013; si veda la discussione in; Winter 2011, p. 489). Eppure, nonostante ci siano stati dei cambiamenti significativi, in particolare nei campi di battaglia e nelle tecniche di sorveglianza, le cosiddette "nuove" forme di guerra sono profondamente radicate nei progetti coloniali e postcoloniali europei e americani di pacificazione, "consolidamento" e territorializzazione post-conquista (Cassidy, 2006; Dunlap & Fairhead, 2014; Ferguson, 2014; Lackman, 2006; Peluso & Vandergeest, 2011; Ybarra, 2012). L'apparente rinascita della dottrina della contro-insurrezione negli Stati Uniti, ad esempio, ha attinto in larga misura al lavoro specifico di David Galula (2002; 2006), , un ufficiale e scrittore francese che ha combattuto in Algeria alla fine degli anni Cinquanta e ha teorizzato la COIN principalmente come una forma di guerra controrivoluzionaria. Tuttavia, le opere di Galula hanno dato per scontate molte "lezioni teoriche distillate da più di un secolo di pratica" nel contesto della colonizzazione francese (Rid, 2010, p. 728). Questo mascheramento occulta la storia della sperimentazione di forme di guerra ambientale e biologica accanto alle tecnologie sociali e alle tattiche di "pacificazione" utilizzate nelle più ampie campagne coloniali mirate a consolidare il controllo sulle persone e sul territorio. Tra queste, l'affinamento delle tattiche che, alla fine delle attività coloniali francesi del XIX secolo in Madagascar, hanno dato vita a una dottrina controinsurrezionale francese matura, sfaccettata e trasformativa (Rid, 2010, p. 731).
In Madagascar, la realizzazione della colonia ha comportato l'impiego di tecnologie sociali per instaurare un controllo inclusivo, ma anche la forza di sottomettere ed escludere la resistenza sia attiva che tacita all'espansione territoriale coloniale, allo sfruttamento della manodopera e all'estrazione di valore. Pioniere della colonizzazione francese del Madagascar, il metodo Tache d'huile (‘a macchia d'olio’) o metodo Gallieni-Lyautey, è stato implementato e perfezionato dal governatore militare, e successivamente dal governatore generale Joseph Gallieni (1896-1905) e dal suo protetto Hubert Lyautey (1897-1902). Tache d'huile Questo approccio "leggermente psicologico", privilegia l'azione politica rispetto all'intervento militare diretto per isolare l'opposizione e raggiungere un progressivo controllo del territorio (Betts, 2005, pp. 115–116; Venier, 1991). In conformità con questa politica, l'amministrazione coloniale francese ha adattato l'amministrazione coloniale alle istituzioni locali, favorendo così un governo indiretto e istituendo una tipica burocrazia coloniale. Per dividere le popolazioni rurali le forze francesi hanno armato in maniera differenziata i villaggi di frontiera e hanno usato l'occupazione progressiva "strisciante" con la creazione di avamposti militari di frontiera che si sono succeduti. L'uso di "donazioni" locali per la collaborazione e lo sviluppo, insieme alla minaccia sempre presente del lavoro forzato, della prigionia o peggio, sono stati tutti mezzi importanti per stabilire il dominio e neutralizzare politicamente gli elementi locali "inutilizzabili" a livello territoriale (Griffin, 2009).
Oltre a giustificare una tale spaccatura sociale a favore della produzione e della riproduzione dell'autorità coloniale nel corso della progressiva occupazione, l'altra narrazione dell'insurrezione, cotier ‘ largamente applicata ai contadini malgasci e alle loro ecologie sociali, è stata ripresa e strumentalizzata per trasformare l'isola in un territorio produttivo. In questo processo, la violenza "eccezionale", violenza che normalmente sarebbe stata vista dalla società come una violazione aberrante delle regole, è stata trasformata in una violenza "esemplare", la violenza che fa la regola (Springer, 2012). Per quelli che hanno rifiutato i "doni" della colonizzazione, in questo modo è stato legittimato un brutale sistema di repressione per mezzo della polizia e della forza militare - oltre alla criminalizzazione dei mezzi di sussistenza, il sequestro delle proprietà, il rastrellamento dei villaggi, il lavoro forzato, l'insediamento forzato e, peggio ancora, la criminalizzazione dei mezzi di sussistenza. Questo riecheggia la riflessione di Mbembé’s (2003: 40) rsulla colonia in sé come uno spazio di frontiera "dove si ritiene che la violenza dello stato d'eccezione operi al servizio della "civiltà"" (vedi anche Cavanagh & Himmelfarb, 2014, p. 3).
Nel 1899, l'allora governatore generale Gallieìni, fornì un esempio eclatante di questo tipo di brutalità: era preoccupato che il vasto sud non conquistato del paese potesse diventare un centro di ribellione. Il sud era abitato da pastori nomadi che generalmente non avevano voglia di far parte della colonia e che avevano creato un'estesa ecologia pastorale e un'economia indipendente basata sul cactus fico d'India (una specie del genere Opuntia, introdotta nel 1700, e chiamata Raketa in malgascio). Per ordine di Galliéni, furono spediti al sud e liberati gli insetti cocciniglia, un parassita dei cactus. I parassiti divorarono velocemente i raketa provocando una carestia micidiale che si diffuse in tutto il paese perché distruggeva la specie preferita dai pastori, che era alla base del sistema di allevamento indigeno, impiegata per le recinzioni, per il foraggio del bestiame e come cibo per gli esseri umani. La carestia devastò intere regioni, provocando spostamenti demografici e uccidendo decine di migliaia - se non milioni - di malgasci e il loro bestiame (Kaufmann, 2000, 2001). Durante la ribellione anticoloniale del 1947, si stima che circa 100.000 malgasci furono giustiziati, torturati, affamati, o condotti nella foresta per morire poi di fame o per mano delle forze francesi e dei collaborazionisti (Cole, 2001).
Attraverso la storia 'ufficiale', le logiche della violenza esemplare e della guerra delle risorse hanno viaggiato e si sono evolute insieme alle istituzioni statali malgasce dal periodo precoloniale ad oggi. In questo modo è stato normalizzato l'esercizio di forme di violenza esemplare che oggi sono ampiamente associate all'estrazione di valore tecnico, alla messa in sicurezza dei confini e alla creazione di frontiere "dall'alto" - espropriazione attraverso la recinzione delle risorse su larga scala, la criminalizzazione dei mezzi di sussistenza, il sequestro delle proprietà, l'insediamento e il reinsediamento forzato, lo sfruttamento attraverso la negazione dei diritti umani e il lavoro forzato, considerati ammissibili per un "bene superiore". Nel caso della QMM, la pacificazione opera come e tramite mezzi per assicurare l'insicurezza dei confini. Le tattiche di controinsurrezione aziendale hanno generato delle spaccature nella società e nelle relazioni socio-naturali, allo scopo di ottenere un controllo "inclusivo" su popolazioni e risorse e di minare la capacità di resistenza, integrando in modo consensuale le persone in un sistema di potere gerarchico in cui i conflitti potrebbero essere gestiti in modo efficiente e i percorsi di resistenza potrebbero essere meglio nascosti o disincentivati (Cohen, 1991, p. 221; Dunlap & Fairhead, 2014).
Ma la pacificazione ricostruisce lo spazio di sviluppo, ri-ordinando la vita sociale e la natura per allinearla alle preferenze e alle aspettative dei politici, degli attori del mercato e degli azionisti. Conferisce forme di ordine più accettabili e gestibili a quelli che, dall'alto, sono visti o inquadrati come spazi altrimenti insicuri, sottosviluppati, non governati e improduttivi di minacciosa autosufficienza (Duffield, 2010; Hanssen, Rouwette, & van Katwijk, 2009). QMM ha capitalizzato le forme di discriminazione preesistenti e gli stereotipi associati alla narrazione storica dell'insurrezione ambientale per giustificare il "green grabbing" (accaparramento di verde) e, allo stesso tempo, ha capitalizzato il fatto di avere uno svantaggio utile, una vasta categoria di persone svantaggiate da incolpare quando le strategie aziendali non funzionano o vanno male.
La QMM ha usato questo "altro da sé", lavorando con e tramite partner locali e nazionali, per chiudere lo spazio politico alla contestazione pubblica e delegittimare le richieste di risarcimento danni o di indennizzo. Si tratta di una pacificazione che opera, nel tempo, tramite la depoliticizzazione della contestazione e del conflitto. Quando un "dono" viene rifiutato o vi si ribella, non è perché era inappropriato, sottovalutato o dannoso per il benessere delle persone, ma perché i contadini malgasci sono mediamente ignoranti, ingrati, avidi, irragionevoli o testardi. Quando la depoliticizzazione non basta e il dissenso non può essere ignorato, la QMM ricorre all'uso della polizia di stato e delle forze militari, alle manovre legali, ai rimborsi strategici e al blocco del dibattito contro la miniera. Fondamentalmente, la QMM offusca la linea di demarcazione tra la sfera pubblica e quella privata incarnata dalla partnership stessa, come nell'esempio dei cittadini espropriati a livello economico di Antsotso, al fine di creare una confusione giuridica tra i ricorrenti in relazione alla rovina dei mezzi di sussistenza e alla scarsa compensazione. E mentre non tutte queste manovre sono sempre reciprocamente vantaggiose o concordate tra le parti della partnership, il controllo territoriale, il controllo sociale e la generazione di entrate creano una costellazione di interessi condivisi. Pertanto, l'alleanza - la 'vera' QMM - è molto più forte della somma delle sue parti.
Le società minerarie multinazionali, comprese le filiali di Rio Tinto (si veda per esempio Kapelus, 2002; O'Connor & Montoya, 2010), si affidano spesso a strategie sociali come il coinvolgimento della comunità, i progetti di protezione ambientale, i programmi sociali e lo sviluppo delle infrastrutture in base alle direttive della CSR, che rappresentano la proverbiale "carota" per sottomettere l'opposizione a fianco di forme più visibili e dirette di violenza "dura" (Lasslett, 2014; Rosenau, Chalk, McPherson, Parker, & Long, 2009). Anche se sono parte delle tattiche di controinsurrezione aziendale, l'approccio allargato alla pacificazione aiuta a spiegare come la violenza della messa in sicurezza e dell'ordine spesso sfugga alla dicotomia "morbido" e " duro". Al contrario, la combinazione di strategie sociali, poteri di polizia, violenza sociale e forza militare coinvolti nella pacificazione, ora come in passato, sono considerati come aspetti o parti di una unità di violenza di classe imperialista o 'guerra sociale' (Baron et al., 2019; Dunlap, this issue; Neocleous & Rigakos, 2011, p. 16).
Come abbiamo detto, rendere più visibile l'"ordine" del mondo ci permette di svelare come la violenza dello "stato di eccezione" sia in realtà non eccezionale, ma normale e permanente nel quadro del meccanismo del potere (Agamben, 2005; Foucault, 2003, pp. 61–62; Neocleous & Rigakos, 2011, 2013; Mbembé, 2003; Neocleous, 2006; Springer, 2012). Con ciò si intende sottolineare il fatto che la violenza non è naturale, insensata o inevitabile. Piuttosto, è politica, relazionale e contestuale. I suoi strumenti sono sia le armi convenzionali sia quelle invisibili della coercizione, della rappresentanza e dell'esclusione che esistono grazie alle vaste disparità di potere. Nel caso di QMM, si tratta di promesse non mantenute, disinformazione, riduzione alla fame, esclusione politica, incuria, minaccia, “gaslighting”, espropriazione e disarticolazione sociale che plasmano le difficoltà che le popolazioni incontrano, le scelte che possono fare e le forme che possono assumere le "reazioni dal basso" come la resistenza e il rifiuto.
7. Conclusioni
“Sicurezza”, così come “sviluppo” e “sostenibilità” sono costruzioni potenti, fondamentali per le logiche, gli interessi e gli immaginari che costituiscono la 'politica alta' della gestione delle risorse naturali. Ognuno di questi termini è normativamente associato a valori sociali di stampo liberale, a presupposti sulle relazioni tra istituzioni formali e società, e ad aspirazioni politiche universalizzate e "positive". Eppure, tutti e tre sono “scivolosi” e controversi. Gran parte della "scivolosità" e della controversia che li circonda deriva da un lato dalle contraddizioni tra il modo in cui possono essere depoliticizzati nei discorsi di alto livello e strumentalizzati nella politica, e dall'altro da i modi in cui modellano la politica quotidiana e si manifestano nella pratica "sul campo". Come dimostra il caso della QMM, non si può dare per scontato che ciò che è " securizzato", "sviluppato" o "sostenuto" sia un ordine politico stabile o socialmente, economicamente e ecologicamente giusto (Dalby, 1992).
In questo articolo, abbiamo mostrato come ripensare la 'guerra delle risorse' usando una concettualizzazione più ampia della pacificazione consenta di mettere l'approccio dell'ecologia politica alla politica della natura, delle risorse e dello sviluppo maggiormente in dialogo con le questioni centrali della geografia politica, degli studi critici sulla sicurezza e della ricerca sulle geografie della violenza. Con questo approccio è possibile comprendere le geografie emergenti del controllo delle risorse, della violenza e del conflitto in modo da andare oltre e contro la depoliticizzazione e l'egemonia del discorso dominante sulla sicurezza. Al contrario, possono agevolare una comprensione più profonda di come i fattori trainanti globali dell'investimento e dell'isolamento implichino politiche complesse, localizzate e intersecanti di violenza, spazio e luogo nella progettazione di siti di sfruttamento minerario.
La pacificazione è una violenza che, quando opera in modo efficace, appare come assenza di violenza. Questo perché produce ciò che riconosciamo non solo come sicurezza, ordine o pace, ma anche come forme di sostenibilità, sviluppo o progresso che fanno appello ai valori sociali liberali, ma che sono tuttavia carichi di contraddizioni. Come strumento analitico, la concettualizzazione della pacificazione che proponiamo ci aiuta a osservare come i momenti di "rottura violenta" non siano semplicemente aberrazioni di un mondo di ordine (Baron et al., 2019, p. 10), ma siano piuttosto momenti in cui la violenza dell'ordine del mondo può diventare più visibile. Questo comprende le architetture di sicurezza e sviluppo basate sulle logiche e le tecnologie sedimentate dei passati regimi di estrazione del valore, incluso il razzismo, la dominazione ecologica e le tecniche di guerra sociale. Le logiche di pacificazione agiscono come strumenti di connessione, "fili" che collegano luoghi, attori, idee e tecnologie sociali nel tempo e nello spazio e rendono possibile "progettare l'estrazione". Parafrasando Butler (2009: 29), quando si considerano le circostanze storiche, non c'è modo di separare la materialità della violenza e della dominazione dai regimi rappresentativi e produttivi che la generano, attraverso i quali opera, e che le conferiscono legittimità.
* L'articolo è stato pubblicato dalla rivista Political Geography, Volume 81, ed è scaricabile da www.sciencedirect.com. La traduzione all'italiano è di Lodovica Mutarelli.
(3. Fine)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Resource warfare, pacification and the spectacle of ‘green’ development: Logics of violence in engineering extraction in southern Madagascar
Amber Huff, Yvonne Orengo,
Political Geography, Volume 81, August 2020 - 15 pp.
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