La democrazia interpellata dalla Madre Terra

di Alberto Acosta 

Versione originale, Rebelión  18/02/2022   

 

L'umanità è a un bivio. Non è affatto un'esagerazione affermare che, come mai prima d'ora, l'essere umano è ora costretto a trovare risposte strutturali e urgenti per cambiare il corso di un processo che si configura sempre più come suicidio collettivo, almeno per milioni di abitanti del pianeta. I sempre più gravi problemi sociali in termini di povertà e disuguaglianza, fame e malattie, violenza e molteplici inequità, con evidenti esempi di debolezza nelle già fragili istituzioni politiche, costituiscono un aspetto del problema. Sull'altra sponda, strettamente connessa a quanto sopra, il riscaldamento globale, la perdita di qualità e disponibilità di acqua, l'erosione della biodiversità silvestre e rurale, la scomparsa dei terreni agricoli, l'esaurimento delle risorse e l'accesso sempre più limitato alle stesse, le varie forme di inquinamento e l'enorme quantità di rifiuti che soffocano il pianeta, già comportano un collasso ambientale. E la cosa più preoccupante sta nell'assenza di risposte che vadano alla radice di tanti problemi e sfide.

La tragedia sanitaria ci ha aiutato a comprendere meglio queste interrelazioni tra il sociale e l'ambientale. Posto che la crisi ecologica sia all'origine della pandemia di coronavirus, sia nel caso che questo virus abbia una radice zoonotica, cosa molto probabile, sia che si trattasse di un incidente dovuto a una mutazione di laboratorio, sarebbe comunque un caso di alterazione del ciclo di evoluzione naturale di qualche altro virus o qualcosa del genere. E non solo, questa multifacetica crisi che ci soffoca, con evidenti tratti civilizzatori, non può essere letta semplicemente come un'azione generalizzata degli esseri umani, cioè dell'Antropocene. La realtà ci dice, se siamo diligenti nelle nostre analisi, che in realtà la forma con cui noi esseri umani ci organizziamo nella civiltà, il Capitalocene - aggravato dalla sua versione contestuale neoliberista -, è la causa di questo processo che mette a rischio l'esistenza di milioni di esseri, umani e non.

I rischi di negare l'innegabile

Ciò che è grave, e che oltretutto indigna, è la constatazione che le persone che incarnano posizioni di leadership politica, imprenditoriale, accademica o nella comunicazione, con pochissime eccezioni, neghino, con le loro azioni, questi vincoli. Sono più interessati al breve termine, a dare risposta ai loro interessi immediati, piuttosto che alla discussione, la ricerca e la cristallizzazione di risposte di fondo. Nel migliore dei casi, vanno alla ricerca di soluzioni che mitighino un po' questi gravi problemi che, molto spesso, finiscono per aggravare i problemi di fondo. Vediamo, a mò di riferimento, ciò che realmente significano queste economie pittate di colori o circolari che, al di là delle loro buone intenzioni, non mettono affatto in discussione la civiltà del capitale, anzi, in realtà, la proteggono. E nell'ambito politico, senza negare affatto che l'economia è sempre politica, chi ci governa si preoccupa più per le prossime elezioni che per le future generazioni.

La questione è ancora più complessa se riconosciamo che le grandi aziende e i governi dei paesi più ricchi hanno nascosto le informazioni e ritardato le azioni necessarie per affrontare il collasso climatico. Non solo: è cosa comune trovare potenti gruppi negazionisti, nonostante le prove sempre più inconfutabili dell'evoluzione incontrollata di fenomeni ambientali e processi sociali che stanno sconvolgendo le fondamenta del mondo in cui viviamo, che già di per sé erano insostenibili.

Quanto esposto sopra si complica ancor più quando constatiamo che le risposte per uscire dalla crisi del coronavirus, che ha acuito le tendenze recessive prevalenti, mirino a recuperare - a tutti i costi - il percorso di crescita economica nel quadro del business as usual. Questo, per i paesi impoveriti dal sistema capitalista, impone di scommettere sull'aumento delle esportazioni di materie prime, costringendoli ad allargare le frontiere estrattiviste, con il conseguente incremento della distruzione ambientale. Allo stesso tempo, per raggiungere livelli presumibilmente migliori di competitività, la flessibilità del lavoro viene ulteriormente approfondita, causando una maggiore precarietà del lavoro. E tutto questo cercando l'aiuto di società straniere, soprattutto transnazionali, che intaccano sistematicamente la capacità di risposta degli Stati sottomessi, cosa che indebolisce la stessa democrazia.

Nella Nostra America, il modello statale è sfumato da un'ambiguità fondante nella costruzione della "nazione". Tale sfumatura, basata sulla colonialità del potere, si è rivelato escludente e limitante per il progresso culturale, produttivo e sociale in generale. I nostri stati-nazione in permanente germinazione, sono funzionali al sistema-mondo, in quanto sono dipendenti dalla logica dell'accumulazione capitalista globale. Nonostante ciò, le discussioni sullo Stato spesso si sono limitati a congiunture importanti ma essenzialmente minori. E proprio per questo motivo non siamo stati in grado di andare più a fondo per quanto riguarda le soluzioni desiderate.
Insomma, come risulta evidente, più dello stesso porta al massimo del peggio.
 

Il fallimento nel porre toppe al vecchio otre

A questo punto vengono in primo piano le cuciture delle politiche patchwork. Il conservazionismo non è sufficiente per risolvere i problemi: garantire l'intangibilità di importanti aree di vita silvestre, anche se importante, non è sufficiente se nello stesso tempo non si arresta l'espansione dell'estrattivismo in altre aree, solo per citare una questione. Allo stesso modo, attraverso le politiche sociali è solo possibile alleviare la povertà, la denutrizione, le malattie, cioè tutte quelle pandemie sociali tipiche della civilizzazione del capitale, ma le questioni strutturali in questo modo non vengono affrontate. Siamo anche in un momento in cui dobbiamo capire che nemmeno le risposte individuali sono sufficienti.

Accettiamo un'evidenza, ancora difficile da digerire da molte persone. La grande disponibilità di risorse naturali, in particolare minerali o petrolifere, accentua la distorsione delle strutture economiche e dell'allocazione di fattori produttivi nei paesi ricchi di risorse naturali; una situazione imposta dal consolidamento del sistema-mondo capitalista. Così, molte volte, il reddito nazionale viene ridistribuito regressivamente, la ricchezza si concentra in poche mani, mentre viene incoraggiato il risucchio di valore economico dalle periferie verso i centri capitalisti. Questa situazione è esacerbata da vari processi endogeni e "patologici" che accompagnano l'abbondanza delle risorse naturali. In questo contesto si genera una dipendenza strutturale, poiché la sopravvivenza dei paesi dipende dal mercato mondiale, dove si cristallizzano le esigenze dell'accumulazione globale.

Insomma, ripercorrendo le nostre tormentate storie di economie primarie esportatrici, di società clientelari e di regimi autoritari, sembrerebbe che i nostri paesi siano poveri perché "ricchi" di risorse naturali. La miseria delle grandi masse sembrerebbe quindi consustanziale alla presenza di ingenti quantità di risorse naturali (con alto reddito differenziale). La Natura ci "benedice" con enormi potenziali che gli esseri umani trasformano in una maledizione...una reale, complessa e cruda conclusione. E in questo impoverimento quasi strutturale, la violenza non solo è decisiva, ma è anche sistemica.

Questo è fondamentale. La violenza nell'appropriazione delle risorse naturali, estratte calpestando tutti i Diritti (Umani e e della Natura), non è una conseguenza ma una condizione necessaria per potersi appropriare delle risorse naturali. Appropriazione che viene effettuata indipendentemente dagli impatti nocivi – siano essi sociali, ambientali, politici, culturali e perfino economici – dell'estrattivismo stesso. L'estrattivismo, inalberando la promessa di progresso e sviluppo, si impone violentando territori, corpi e soggettività. Di fatto, la violenza estrattivista potrebbe anche essere vista come la forma concreta che assume la violenza strutturale del capitale nel caso delle società periferiche condannate all'accumulazione primario-esportatrice. Tale violenza strutturale del capitalismo è un marchio di fabbrica perché – come giustamente ha sottolineato Marx – questo sistema è venuto “al mondo grondando sangue e fango da ogni poro, dai piedi alla testa” 1.

Nonostante queste constatazioni, i dogmi del libero mercato, trasformato nell'alfa e omega dell'economia — ortodossa — e della realtà sociale in generale, continuano ostinatamente a ricorrere al vecchio argomento dei vantaggi comparativi. I difensori del libero scambio prescrivono di sfruttare quei vantaggi dati dalla Natura e di sfruttarli al meglio (come un torturatore che cerca una confessione ad ogni costo). A maggior ragione ora che si deve superare - così si dice - l'ostacolo del coronavirus. E, colmo dei colmi, i dogmi del libero scambio che accompagnano l'estrattivismo sono svariati: l'indiscutibile globalizzazione, il mercato come regolatore incomparabile, le privatizzazioni come unica strada per raggiungere l'efficienza, la competitività come virtù per eccellenza, la mercificazione di ogni aspetto umano e naturale...

Detto questo, c'è da chiedersi come affrontare le sfide che abbiamo tra le mani, quando la real politik non mostra di essere in sintonia con queste urgenze. Non solo questo. La mancanza di comprensione di ciò che sta accadendo da parte di coloro che potrebbero guidare le transizioni che sono indispensabili per affrontare queste sfide complesse, è aggravata dall'emergenza di discorsi e gruppi politici che incoraggiano risposte nazionaliste estreme, intolleranti e autoritarie, xenofobe e razziste, con spunti di un fascismo che comincia a farsi presente in vari governi. Riconoscere queste tendenze non può portare a minimizzare le risposte espresse in modi diversi dal più profondo delle società in movimento che non sono disposte ad accettare tanta distruzione e ingiustizie. Vediamo solo le esplosioni sociali registrate in diversi paesi della Nostra America/Abya-Yala dalla fine del 2019: Ecuador, Colombia, Cile, Perù, Brasile.


Colombia, uno sguardo da fuori

Senza entrare in un'analisi dettagliata dell'importanza di questi diversi processi diversi e persino contraddittori, vorrei dedicare qualche riga alla realtà colombiana anche senza esserne un cittadino o un esperto di tutta la sua complessità.

L'anno 2016 sembrava segnare un nuovo inizio nella storia della Colombia. Con la ratifica dell'accordo tra lo Stato colombiano e le FARC, si intendeva porre fine a un periodo di oltre 50 anni di conflitto. Allo stesso modo, la porta è stata lasciata aperta per i negoziati tra il governo nazionale e l'Esercito di Liberazione Nazionale (ELN). Come è ben noto, queste aspettative non sono state soddisfatte come si auspicava. Ci sono molte questioni da risolvere oltre alle azioni violente proprie di alcuni gruppi di potere - formali e informali - che non sono disposti a percorrere la via della Pace.

Con la fine del conflitto armato in Colombia, come opportunamente anticipato si fece largo un inasprimento dei conflitti socio-ambientali che hanno caratterizzato la lunga storia di attività estrattive e di modalità violente che hanno prevalso in questo Paese nell'affrontare i conflitti in questione. Ricordiamo che il governo della Colombia dipende dal settore estrattivo come generatore di risorse economiche, e ha assegnato vaste aree a investitori privati ​​per lo sviluppo di attività legate all'estrazione del petrolio, all'estrazione mineraria e alle monocolture per l'esportazione. Per superare la crisi del coronavirus, come fanno tutti i governi dei paesi limitrofi, il governo colombiano intensifica ancor più l'estrattivismo, che viene visto addirittura come una fonte fondamentale per finanziare i numerosi oneri che comporta il processo di transizione verso la pace.

In alcune aree in cui il conflitto armato è diminuito e scomparso, è stato aperto l'accesso alle aree precedentemente colpite dalla guerra. Cosa che ha esacerbato la violenza del caso. In questo contesto, incoraggiati dalle richieste conseguenti alla crisi e spinti dagli interessi dei grandi gruppi estrattivisti, si è visto come sono andati chiudendosi quegli spazi di partecipazione democratica che avevano cominciato a costruire forme concrete di intervento vincolante e conseguente delle comunità, specie nelle decisioni sull'uso delle risorse naturali locali in attività che potrebbero riguardare l'impatto sui loro mezzi di sussistenza e sul loro ambiente. Mi riferisco in particolare al freno tirato al fine di fermare le consultazioni popolari che ebbero inizio il 28 luglio 2013, nel comune di Piedras, Tolima. Lì, l'alleanza tra i contadini, i grandi produttori di riso e gli enti comunali, insieme al supporto di vari comitati ambientali, studenti e consulenti legali, attivarono il meccanismo di consulta popolare, che poi si è diffuso in tutto il paese e che ora, essendo stato bloccato, aumenterà le tensioni e la violenza, in un contesto di crescenti pressioni estrattive.

Quello che preoccupa è che il messaggio centrale delle mobilitazioni per la democratizzazione ambientale, cioè di riconsiderare il rapporto delle nostre società con la Natura, non ha un posto effettivo nelle discussioni dell'istituzionalità democratica esistente.
 

La radicalizzazione della democrazia come percorso

In questo scenario, con violenze, disuguaglianze, inequità, ingiustizie e distruzioni senza precedenti negli ambiti più diversi delle nostre società, risulta imprescindibile il dar passo a forme basilari di democratizzazione. Consentire, difendere e promuovere la partecipazione della società ai processi decisionali in materia ambientale e territoriale nel contesto della transizione verso una società in grado di risolvere i propri conflitti senza l'uso della violenza, rappresenta una trasformazione dei conflitti ambientali in scenari di democratizzazione. La democratizzazione ambientale è una questione fondamentale per raggiungere la pace con la giustizia sociale e ambientale, poiché l'una non esiste senza l'altra.

Dobbiamo tenere presente che i governi di queste economie primarie esportatrici non solo dispongono di risorse importanti – soprattutto nel momento apice dell'impennata dei prezzi – per intraprendere le opere pubbliche necessarie e finanziare le politiche sociali, ma possono anche mettere in atto misure e azioni che cooptino la popolazione per garantire una "governabilità" che consenta l'introduzione di riforme e cambiamenti pertinenti in base ai propri interessi.

Inoltre, la maggiore erogazione pubblica in attività clientelari riduce le pressioni latenti per una maggiore democratizzazione. C'è una "pacificazione fiscale", indirizzata verso la riduzione della protesta sociale. Un esempio sono i vari vincoli utilizzati per alleviare la povertà estrema, soprattutto quelli inquadrati in un clientelismo puro e semplice che premia i fedeli più devoti e sottomessi.

Gli alti redditi del Governo permettono l'estromissione dal potere e scongiurare la configurazione di gruppi e fazioni ribelli o indipendenti, che rivendicano diritti politici e di altro tipo (diritti umani, giustizia, co-governo, ecc.). Vengono persino stanziate risorse considerevoli per perseguitare i contrari, compresi coloro che non intendono né accettano i "benefici indiscutibili" dell'estrattivismo, nonché le politiche "aperturiste" classiche dell'estrattivismo. Questi governi possono stanziare ingenti somme di denaro per rafforzare i loro controlli interni, repressione degli oppositori inclusa. Inoltre, senza un'effettiva partecipazione dei cittadini, la democrazia è vuota, anche se il popolo viene ripetutamente consultato alle urne. Ecco perché le buone intenzioni portano spesso a governi autoritari e messianici travestiti da sinistra. Questo è stato il percorso dei governi progressisti in America Latina.

Alla fine, la più grande delle maledizioni è l'incapacità di affrontare la sfida di costruire alternative all'accumulazione delle esportazioni primarie, che sembra eternizzarsi nonostante i suoi innegabili fallimenti. È una violenza soggettiva potente, che impedisce una visione chiara delle origini e anche delle conseguenze dei problemi, cosa che finisce per limitare e persino impedire la costruzione di alternative.

Emerge un nuovo orizzonte storico, dove irrompe l'emancipazione dell'eurocentrismo. Emancipazione che richiama ad una lotta sociale per superare il capitalismo. Sarà l'unico modo per abbandonare un'esistenza sociale carica di dominazione, discriminazione razzista/etnica/sessista/di classe, sfruttamento economico, dove lo Stato è solo un mattone in più nella grande muraglia chiamata capitale. Ciò richiede nuove forme di comunità e di espressione della diversità sociale, della solidarietà e della reciprocità. Mira anche a porre fine all'omogeneità istituzionale dello Stato-nazione, costruendo istituzioni diverse, cercando uguaglianze nelle diversità. Questo nuovo Stato deve accettare e promuovere autonomie territoriali dei popoli e nazionalità, delle comunità e degli individui. Tutto ciò, in sostanza, significa creare democraticamente una società democratica, come parte di un processo continuo e a lungo termine, in cui la radicalizzazione permanente della democrazia è inevitabile.
 

Traduzione a cura di Giorgio Tinelli, per Ecor.Network


Note:

Alberto Acosta, economista ecuadoriano. Compagno di lotte dei movimenti sociali. Professore universitario. Ministro dell'Energia e delle Miniere (2007). Presidente dell'Assemblea Costituente (2007-2008). Autore di diversi libri.

** Questo articolo è stato pubblicato su Revista Foro, numero 105, dicembre 2021, Colombia.

1) Marx, Karl. Il Capitale, Volume I, Vol III, p. 950. Messico, XXI Secolo, 2005 [1975]



 

24 febbraio 2022 (pubblicato qui il 27 febbraio 2022)