*** Quarta Parte ***

Europa, Guerra e Nocività/4L'approvvigionamento di gas, tra politiche energetico-economiche, estrattivismo, danni ecologici e legami con la guerra

di Piccoli Fuochi Vagabondi


IL RUOLO DELL’UNIONE EUROPEA

I piani europei di riarmo (ReArm EU) e quelli per l'approvvigionamento e la transizione energetica (RePower EU), dal gas al nucleare ma che non tralasciano le stesse rinnovabili, rispondono alle medesime logiche del complesso militar-industriale e viaggiano sostanzialmente sullo stesso binario. Le guerre sono un affare, ma anche un consumo. La produzione di carri armati, cacciabombardieri, droni, fregate, etc, è affamatissima di energia. Il sistema capitalista mondiale si impegna nella guerra, alla ricerca di un nuovo equilibrio per superare la crisi dell’unipolarismo statunitense emerso dal vecchio bipolarismo dell’epoca della Guerra Fredda. La volontà di riarmo dell’Unione Europa è una manifestazione degli interessi dominanti e si traduce in cospicui guadagni per la classe capitalista.

L'intenzione da parte degli Stati Uniti, manifestata dal secondo Governo Trump12, di alleggerire la propria presenza militare in Europa per concentrarsi su scenari geopolitici considerati più strategici, come l'Asia e il Pacifico, e la ripresa della guerra commerciale tra le potenze imperialiste, hanno generato nell'Unione Europea la corsa al riarmo. La spesa militare è destinata a salire vertiginosamente. La presidentessa della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, ha presentato il "ReArm Ue" plan da 800 miliardi di euro, che il parlamento europeo ha approvato a marzo del 2025 e ribattezzato “Readiness 2023”, ovvero Preparati per il 2030. Desiderosa di competere a livello globale con Stati Uniti, Russia e Cina, la UE corre a riarmarsi, svincolandosi dal patto di stabilità previsto per altri capitoli di spesa, come welfare e sanità, attraverso l’emissione di nuovo debito pubblico.

Le industrie del comparto bellico si stanno attrezzando per soddisfare la crescente domanda di carri armati, jet, missili, munizioni, droni, etc. Gli investitori internazionali corrono a comprare i titoli azionari delle maggiori industrie belliche europee, che stanno balzando alle stelle. Le tedesche Rheinmetall, ThyssenKrupp Marine Systems e Hensoldt, le francesi Thales, Safran, Dassault, Airbus, Naval Group, la franco-tedesca KNDS, le italiane Leonardo, Fincantieri, Iveco, Avio, la svedese Saab, le britanniche Bae Systems e Rolls Royce: queste aziende stanno scommettendo sulla guerra e stanno facendo soldi a palate13.

La spesa a livello globale nel settore della Difesa nel 2024 ha toccato un nuovo record, arrivando a sfiorare i 2.500 miliardi di dollari14. Una cifra otto volte maggiore di quanto stanziato alla Cop 29 di baku per il contrasto al cambiamento climatico. Il giro di affari ha generato 615 miliardi di euro per i bilanci delle maggiori aziende belliche. Ricavi destinata a salire nel 2025, addirittura c’è chi parla di un +12% 15.

La giustificazione dell’Unione Europea per il riarmo è sempre quella: dobbiamo difenderci dalla Russia. Ma forse il motivo non dobbiamo cercarlo ad est ma a sud. Infatti anche il governo russo, proprio come l’Unione Europea, guarda con sempre più interesse ai mercati africani, per mantenere attivo e possibilmente espandere il proprio business. La penetrazione dei capitali russi in Africa non datano dal conflitto con l’Ucraina ma sicuramente dopo le sanzioni europee e statunitensi questa capacità di penetrazione si è espansa. Una dimostrazione è stata l’accordo tra il governo militare del Mali e la famigerata compagnia di mercenari russi Wagner, in supporto alle forze armate locali nella lotta contro i ribelli jihadisti nel nord del Paese, parallelamente alla decisione di Emmanuel Macron di ridimensionare il supporto francese garantito a Bamako nel contesto dell’Operazione Barkhane, lanciata nel 2013 allo scopo di contrastare la crescita dei gruppi islamisti nella regione del Sahel. Contemporaneamente Mosca ha firmato ricchi accordi per lo sfruttamento dei giacimenti minerari del Mali.

Nel novembre 2024 anche il governo del Ciad ha chiesto la fine della cooperazione militare con la Francia, che ha portato al ritiro di 1.000 soldati presenti nel Paese. Diverse ex colonie francesi, Mali, Niger, Repubblica centrafricana e Burkina Faso, tutti Paesi interessati negli ultimi anni da colpi di Stato, avevano precedentemente sollecitato Parigi a ritirare le sue forze militari. Questi Paesi hanno poi stretto accordi commerciali e militari con la Federazione Russa. Russia e Bielorussia continuano ad espandere la propria influenza e presenza militare anche nella Cirenaica libica, per mezzo degli appoggi dati al generale dell’Esercito Nazionale Libico (ENL), Khalifa Haftar. La Russia, perso un alleato strategico in Siria con la caduta di Assad per mezzo dei ribelli islamisti, sta spostando il baricen- tro delle alleanze in Nord Africa e nel Sahel, Russia, Cina, Europa, Stati Uniti guardano all’Africa come a un proprio dominio, da costellare di basi e di compagnie private e statali, e non tollerano concorrenza. L’Africa, ancora una volta, come è stato durante le due guerre mondiali, diventa terreno di conquista, di influenza e di disputa armata da parte delle potenze imperiali. È una vecchia storia di colonialismo. Oggi guardiamo all’Ucraina e all’Europa orientale, oppure al contesto Mediorientale. Ma dovremmo stare attenti anche a quello che succede in Africa, perché un conflitto internazionale potrebbe essere causato dalla disputa sulle risorse di quel continente. Il “secolo africano” potrebbe aprirsi con una nuova guerra mondiale.

Se questi sono gli orizzonti, capiamo bene il perché del riarmo europeo, nella chiave della competizione inter-imperialistica per il dominio dei mercati e la spartizione delle risorse, in un quadro che ha visto mutare gli assetti geopolitici globali. Si cerca di abituare l’opinione pubblica al fatto compiuto e cioè che in guerra ci siamo già, anche se i missili ancora non esplodono sulle nostre case.

E mentre gli Stati europei, dai Paesi scandinavi alla Francia, forniscono ai loro cittadini i dépliant con le informazioni su cosa fare in caso di conflitto o guerra nucleare, e molte nazioni stanno pensando di accrescere il numero dei loro riservisti e di ricorrere nuovamente alla leva militare, già si sta affermando l’idea che anche le aziende in crisi, specie nel settore dell’auto, debbano essere riconvertite alla produzione bellica16. Non sarebbe certo la prima volta che l’industria civile si presta alle esigenze militari. A Bolzano nel 1939 l’allora stabilimento Fiat si convertì alla produzione di autocarri militari. E non è l’unico caso.

A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, i nomi sono sempre quelli: Famiglia Agnelli (Stellantis), Volkswagen, ThyssenKrupp. Le riconversioni verranno giustificate – è la facile previsione – con il pretesto di impedire la chiusura di stabilimenti e la perdita di posti di lavoro.
 

REARM EUROPE

Facciamo due conti. Con lo stanziamento dei 500 milioni di euro della legge ASAP per sostenere la produzione di munizionamento, i 300 milioni del programma EDIPRA per gli appalti congiunti, e i contributi per 1,2 miliardi del Fondo europeo per la Difesa (FED) che sostiene progetti industriali nel periodo 2021-2027 con una dotazione complessiva di 7,3 miliardi, il contributo della UE al comparto bellico ammonta già a 2 miliardi di euro, a cui si vanno ad aggiungere gli 800 miliardi di euro promessi dal piano “RearmEu”/Preparati per il 2030 della Von Der Leyen, di cui 150 miliardi finanziati dal bilancio della UE attraverso il fondo SAFE col meccanismo del debito comune (eurobond o simili, Banca europea per gli investimenti, etc) e gli altri 650 miliardi ancora da recuperare attraverso prestiti privati ai singoli Stati membri (da parte di finanziarie, banche e investitori17.

Ma il governo della Germania da solo ha recentemente varato un piano da 500 miliardi di euro, che può arrivare a 1.000 in 12 anni, come misura per sostenere la sua industria degli armamenti e rendere così il Paese nuovamente una grande potenza militare. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, leader della Cdu, si è fatto approvare la riforma costituzionale che gli consente di sfondare il debito. La Germania ha dunque disponibile da subito risorse fresche, alla faccia dell’austerity sbandierata in tutti questi anni.

L’Italia nel corso del 2025 dovrebbe invece spendere circa 32 miliardi negli armamenti secondo il Milex, l’osservatorio sulle spese militari italiane18. Una cifra, che segna un costante aumento delle spese italiane nel comparto militare19, che non contempla comunque i fondi del nuovo strumento SAFE della UE a cui l’Italia può attingere per il suo riarmo e che potrebbero valere altri 20 miliardi.

Il piano di riarmo “RearmEu”/Preparati per il 2030 e il connesso Libro bianco sulla difesa europea, che delinea il nuovo approccio dell’Unione, rappresentano la strategia della Commissione europea per consentire agli Stati membri di aumentare la loro spesa militare, investendo massicciamente nella difesa. Gli investimenti nel settore militare potranno sforare le regole di bilancio per  mezzo  dell’attivazione  della  clausola  di salvaguardia nazionale del patto di stabilità, che consente agli Stati membri di sforare il tetto del deficit per il 1,5% in più del Pil annuo, per una durata di quattro anni, e così aggirare i limiti previsti per la spesa in deficit, ovvero quando si utilizzano più risorse di quelle che si ricavano dalle entrate statali. La spesa in deficit è un meccanismo che consente di pagare gli acquisti in un secondo momento, attraverso la concessione di prestiti e piani di pagamento differito. La clausola di sospensione del Patto di stabilità, con l’aggiramento del contenimento del deficit al 3% del Pil e del debito al 60%, era stata prevista dalla UE nel caso in cui si verifichi un evento eccezionale con una grave recessione economica, ed era stata applicata nel marzo 2020 per far fronte alla conseguenze economiche della pandemia di covid. Ora questa clausola viene prevista per trovare sui mercati i famosi 650 miliardi mancanti del piano ReArmEu. Più deficit non sanzionato dalla Commissione europea, in sostanza.

Il SAFE (Security Action For Europe) invece è il nuovo strumento europeo per concedere prestiti garantiti dal bilancio UE, dotato di un fondo di 150 miliardi di euro a cui gli Stati membri possono attingere, da raccogliere ricorrendo all’emissione di obbligazioni comuni (eurobond o altri titoli di debito simili) ovviamente con il risultato di un aumento del debito comune europeo ovvero il debito condiviso da tutti i Paesi membri. L’obiettivo di questo strumento finanziario è quello di promuovere grandi agglomerati societari, attraverso un aumento degli appalti collaborativi con dei progetti industriali da finanziare.

In più la UE intende modificare le regole di funzionamento della Banca europea per gli investimenti (BEI) che al momento non può effettuare prestiti per la produzione bellica ma solo per progetti dual use (civile e militare). Inoltre vuole dirottare verso l’industria degli armamenti anche i fondi di coesione per lo sviluppo delle aree povere. Ultima mossa della UE è quella di accelerare l’iter dell’Unione dei mercati capitali, per assicurare che i risparmi degli europei vengano investiti all’interno del blocco europeo e reindirizzati verso il comparto delle armi. Un piano, che comprende la rimozione delle barriere tra Paesi europei per la circolazione dei capitali e la spinta all’Unione bancaria, per incanalare quel 70% (10.000 miliardi) dei risparmi privati detenuti sotto forma di depositi bancari e postali che non vengono investiti in strumenti del mercato e quindi considerati “improduttivi”.

Lo spostamento di risorse pubbliche dalle tasche dei cittadini alle tasche dei proprietari privati delle aziende belliche, con il pretesto del sostegno all’Ucraina e della “minaccia russa”20, comporterà naturalmente, attraverso i meccanismi ben noti della spesa in deficit e del debito comune, una situazione di bilancio negativo e quindi l’aumento dell’indebitamento pubblico. Insomma, un disastro finanziario che è facile prevedere verrà ripianato in parte con nuove tasse, aumenti delle accise su gasolio e benzina, incremento dell’IVA e ulteriori tagli alla spesa sociale.
 

INTERCONNESSIONI

In un momento storico in cui il ricorso alla guerra riveste un ruolo centrale, non solo per la ridefinizione dei rapporti internazionali e delle sfere di influenza, ma anche come metodo per pompare soldi pubblici nel sistema economico capitalista gonfiando così i Pil degli Stati attraverso una spesa pubblica che sostiene il comparto militar-industriale e i settori di produzione in crisi (come quello dell'auto ma non solo), la produzione di energia è sia strategicamente che economicamente correlata a queste politiche. Se approvvigionamento di energia, produzione militar-industriale, distruzione dell'ambiente e guerra sono aspetti dello stesso problema, allora anche le lotte devono essere collegate e rese interdipendenti. Chi non coglie le interconnessioni tra estrattivismo, distruzione dei territori, politiche energetiche e industriali, capitalismo e guerra, offre il fianco a posizioni ambientaliste ipocrite, superficiali e che volontariamente cercano di non criticare mai le cause strutturali che stanno dietro agli effetti più visibili.

Non si creda che quando si parla di comparto bellico si faccia riferimento solo a munizioni, esplosivi, carrarmati e veicoli corazzati. La guerra moderna necessita anche di droni, data center per l'immagazzinamento e l'elaborazione dati, nanotecnologie e scienze dei materiali, intelligenza artificiale, software, sistemi digitali e informatici, microchip, tecnologie spaziali e geo-satellitari, cyber-security…
Tutte tecnologie la cui produzione necessita altissimi costi economici ed energetici, oltre che l’esigenza di assicurarsi terre rare e minerali senza i quali non è possibile produrli (in pratica si fa la guerra per accaparrarsi le risorse per fare la guerra, in un ciclo senza fine). Difatti il Libro bianco sulla difesa europea prevede di “accelerare la trasformazione della difesa attraverso innovazioni dirompenti come l’IA e la tecnologia quantistica”.

Non si può essere ecologisti e limitare la critica a una singola opera nociva, o essere allo stesso tempo supporter della guerra, come chi il 15 marzo 2025 a Roma e in altre città italiane ha partecipato alla manifestazione lanciata da Michele Serra e da "Repubblica" a favore di un’Europa potenza armata da schierare in contrapposizione agli altri poli imperialisti per la spartizione del mondo. Il mito dell’Europa come patria delle libertà, unica depositaria della pace, della democrazia e della fratellanza è una favoletta rispolverata oggi per la propaganda guerresca. Una favoletta oltretutto razzista. Quello che i libri a scuola ci hanno evidentemente insegnato troppo poco è che la storia europea è disseminata di guerre di conquista, saccheggio di risorse, regimi fascisti, colonialismo, suprematismo bianco. Storia efferata che per buona parte continua ancora oggi.

Di quale Europa parliamo quando la evochiamo? Forse di quella "fortezza Europa" che si appresta ad approvare norme ancora più disumane contro le persone immigrate che cercano di mettere la maggior distanza possibile tra loro e le guerre, la miseria sociale e la crisi climatica che le compagnie pubbliche e private di casa nostra hanno provocato nei loro Paesi?​​​​​​​

Parliamo forse di quell’Europa che lascia annegare nel Mediterraneo le persone che parlano un'altra lingua, che le deporta in paesi terzi dove vengono torturate, che le schiaffa in lager amministrativi per mesi se non per anni? Sarà forse quella del nuovo Patto UE su migrazione e asilo, proposto dalla Commissione europea e approvato nell’aprile 2024 dal Parlamento europeo, che prevede un nuovo sistema europeo per i rimpatri e che aspetta l’adozione da parte dei singoli Stati membri, che lo devono adottare entro giugno 2026? Un piano infame che include la registrazione digitale obbligatoria di tutte le persone che arrivano alle frontiere esterne della UE, l’emissione di un ordine europeo di rimpatrio, il riconoscimento reciproco degli ordini di rimpatrio da parte dei Paesi membri, la possibilità giuridica di deportazioni in un Paese terzo e l’estensione del trattenimento nei CPR fino a 24 mesi, rispetto agli attuali 18 mesi.

Da tempo le politiche e le retoriche contro l’immigrazione hanno assunto una dimensione centrale nel dibattito pubblico. Le politiche razziste dell’Unione Europea, ridisegnate dal clima di guerra attuale, si stanno trasformando in un sistema di disumanizzazione e pulizia etnica, alimentando le forme di nazionalismo e delocalizzando gli strumenti di repressione e annientamento, come i lager per migranti, in paesi terzi con cui esistono già degli accordi. Da questo punto di vista l’Italia ha fatto scuola, prima con il finanziamento delle milizie libiche e poi con l’accordo per istituire i centri detentivi in Albania.

Quella che viene indicata come crisi climatica, prima responsabile assieme alla guerre e alla miseria economica delle migrazioni, dovuta principalmente all’attività umana – o per meglio dire all’attività degli Stati e del capitalismo – è uno dei problemi più importanti del nostro tempo. In diverse aree del mondo le montagne vengono sventrate, le foreste disboscate, le risorse naturali saccheggiate, i fondali trivellati, gli spazi privatizzati, le campagne inaridite o cementate, i fiumi e le fonti avvelenati irrimediabilmente, l’aria contaminata e gli oceani surriscaldati. Il green washing è una pratica diffusa: i progetti ecocidi oggi ottengono il via libera in nome del progresso “verde”. Così passano come progetti eco- sostenibili, pigliando pure finanziamenti e sponsorizzazioni. Contro questo modello di sviluppo mortifero, che devasta ed uccide intere regioni del mondo, è urgente dare nuove possibilità alle proposte di una vita equa, solidale, ecologica, rispettosa nei confronti della terra e delle specie animali e, dunque, in totale contrasto col mondo del profitto e degli affari, degli Stati e delle frontiere. Una vita che si raccolga attorno al metodo libertario dell’autorganizzazione, dell’autogestione e del rispetto reciproco. E che si realizzi nella lotta.

Non si può credere, infatti, che per ostacolare i progetti di morte – che siano legati alla guerra o alle nocività del capitalismo – si possa far ricorso agli stessi strumenti legali offerti dallo Stato. Ce lo insegnano anche alcune vicende recenti. Il 9 gennaio 2025 il Tribunale delle imprese di Roma ha dichiarato inammissibile il ricorso di 104 persone attiviste No Ponte che si erano opposte al riavvio delle procedure per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, condannandole alle spese processuali, nell’ordine di circa 348mila euro. Il Tribunale di Gela il 20 marzo 2025 ha invece chiuso un lungo iter processuale che, partito dalle denunce di cittadini, proprietari terrieri e associazioni ambientaliste, coinvolgeva manager e operatori di alcune società del gruppo Eni. Il processo riguardava il disastro ambientale con annessa contaminazione ambientale e della falda acquifera derivato dall’attività della raffineria di Gela. Assoluzione perché il fatto non sussiste. Il Tribunale di Gela aveva già assolto i dirigenti Eni in una lunga serie di processi. Citiamo per ultimo il caso del Tar della Toscana che a gennaio 2024 ha dato il suo via libera al rigassificatore di Piombino, e condannato alle spese legali sia l’amministrazione comunale piombinese (90mila euro) che Usb, Wwf e Greenpeace (15mila euro) colpevoli di aver sostenuto i ricorsi contro l’opera. Prova evidente che non ci si può attendere nulla dalle soluzioni miracolose che arrivano dall’alto. È un dato lampante l’esistenza di rapporti di sudditanza verso i poteri  economici  delle  istituzioni  statali. Solo lottando la prospettiva può cambiare.

In un presente segnato da massacri e genocidi che si stanno compiendo sotto i nostri occhi – pensiamo solo a quello in corso a Gaza, commesso per mezzo delle armi che transitano anche nel porto di Ravenna21 – non può esserci ecologismo possibile senza antimilitarismo e anticapitalismo. La nostra unica salvezza è fare fronte comune contro i progetti dei governi e delle compagnie private, che sia un rigassificatore, un impianto nucleare, una legge repressiva, come l’idea di trascinarci in una guerra che potenzialmente può annientarci.

“Solo el pueblo salva el pueblo” era lo slogan in uso tra gli anarchici e le anarchiche durante la rivoluzione spagnola. Lo abbiamo sentito risuonare in occasione dell’alluvione di Valencia, quando i politici accorsi sul luogo della tragedia per la loro squallida passerella elettorale sono stati cacciati a male parole, lanci di fango e pietrate. Impariamolo, questo slogan, e cominciamo ad usarlo anche da noi.
 

(4. Fine)
 

    Tratto da Piccoli Fuochi Vagabondi.


Note: 

12) Il 25 gennaio 2025 il nuovo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, al suo secondo mandato, ha esortato i Paesi europei ad aumentare gli investimenti nel settore militare, dichiarando il graduale disimpegno statunitense dalla difesa comune in ambito Nato, aggiungendo che d’ora in poi la priorità degli Stati Uniti sarà la difesa nazionale. Secondo uno studio del Forum Ambrosetti, dei 100 miliardi di euro di spesa militare dei Paesi UE della Nato, dal conflitto Russia- Ucraina in poi, il 78% è stato speso per fare acquisti da paesi extraeuropei, di cui l’80% dagli Usa. Le armi arrivano in particolare da Lockeed Martin con l’F-35, da Raytheon per i missili e da Boeing per veicoli ed elicotteri. Mentre nei servizi satellitari gli accordi con Starlink di Elon Musk si stanno diffondendo anche in Europa, anche se Leonardo ha in progetto di lanciare in orbita una nuova costellazione di satelliti militari finanziati direttamente dal Ministero della Difesa italiano.
13) www.pressenza.com/it/2025/04/lindustria-bellica-al-tempo-di-trump
14) Secondo i dati del Sipri, Istituto internazionale di ricerche sulla pace con sede a Stoccolma.
15) Rapporto di Mediobanca sul Sistema Difesa 2024.
16) Sul tema delle riconversioni di aziende civili in militari, rimandiamo al nostro articolo Al mercato delle riconversioni belliche: https://piccolifuochivagabondi.noblogs.org/riconversioni-belliche/

17) A proposito di banche, Intesa Sanpaolo e Unicredit confermano il loro storico ruolo di protagoniste nel settore bellico, con un coinvolgimento significativo sia in termini di partecipazioni azionarie che di concessione di prestiti e finanziamenti, ma anche di supporto all’export di armamenti tramite servizi finanziari e assicurativi.
18) www.milex.org
19) Negli ultimi 10 anni, a partire dal 2016, la spesa militare italiana è cresciuta del 60%; attualmente ha toccato l’1,57% del Pil, verso il 2% richiesto dalla Nato, un impegno sottoscritto nel 2014 dal governo Renzi e confermato dai successivi, compreso il governo Conte. L’Italia, allo stesso tempo, è anche diventato il sesto Paese esportatore di armi nel mondo nel quinquennio 2020-2024.
20) Già nel corso del 2024 la spesa militare della UE aveva toccato i 730 miliardi di dollari, il 58% in più rispetto ai 462 miliardi spesi dalla Russia.
21) Ci stiamo riferendo al sequestro, da parte della guardia di finanza, di un carico di 14 tonnellate di componenti metallici al porto San Vitale di Ravenna, destinato all’industria bellica israeliana, in particolare alla Israeli Military Industries (Imi Systems Ltd)), parte del colosso Elbit Systems, uno dei principali produttori israeliani di armamenti. Il materiale, prodotto in Italia e dal valore di oltre 250.000 euro, una volta assemblato sarebbe stato utilizzato per la fabbricazione di armi. Un imprenditore della provincia di Lecco, amministratore dell’azienda fornitrice, la Valforge srl di Cortenova (LC), è stato indagato per violazione delle norme sull’export di materiale bellico. Da ricordare che secondo quanto riportato da The Weapon Watch, nel 2023 sono state 12 le aziende italiane a esportare armi all’entità sionista: Aerea, Agenzia Industrie Difesa, ASE, Battaggion, Calzoni, Invernizzi Presse, Leonardo Spa, LMA, Masperotech, OMA, RWM Italia, Secondo Mona.


 

11 luglio 2025 (pubblicato qui il 12 luglio 2025)