
Introduzione generale - Seconda parte
MESOAMERICA
Proponiamo di includere l'istmo centroamericano e il Messico in una nuova nozione che chiamiamo la "Grande Mesoamerica". La concettualizzazione della Mesoamerica, presentata da Paul Kirchhoff nel 1960 e originariamente pubblicata nel 1943, è stata di grande utilità per la sua specificità, che permette di distinguere una determinata area in termini geografici e culturali. La nozione di Mesoamerica ha risolto problematiche associate a concetti poco chiari, come quello della "Middle-America", usato nei Manuali degli anni '60, la cui traduzione in spagnolo non è mai stata chiara. Inoltre, geologicamente identifica il Messico come parte del Nord America e, allo
stesso tempo, come parte dell'America Latina. Tuttavia, la definizione di Kirchhoff omette il nord del Messico e parte del sud dell'America centrale, il che ci porta a proporre una nozione più inclusiva.
In questo volume considereremo come Grande Mesoamerica lo spazio geografico e socio-ambientale che comprende l'intero territorio messicano, le cinque nazioni centroamericane che nel periodo coloniale formavano la Capitaneria Generale del Guatemala (Guatemala, Honduras, El Salvador, Nicaragua e Costa Rica), così come gli attuali Belize e Panama. Con la Grande Mesoamerica, così come la concepiamo qui, non intendiamo omogeneizzare analiticamente la diversità bioculturale che la caratterizza; piuttosto partiamo dalla premessa che, nonostante questa diversità, hanno avuto luogo processi storici che presentano parallelismi nel campo delle relazioni socio-ambientali, differenziandola da altri territori latinoamericani.
In termini ecologici e socio-ambientali, la subregione messicana e quella dell'istmo centroamericano hanno particolarità e interrelazioni che dobbiamo sottolineare. Il Messico è un paese megadiverso grazie alla sua posizione geografica, che collega l'America del Nord con l'America Centrale, e alla sua posizione strategica tra due oceani: il Pacifico e l'Atlantico. Ciò permette in quel territorio la congiunzione della vegetazione neartica con quella neotropicale. Il Messico detiene il primo posto nella diversità dei rettili a livello mondiale. La metà del paese è deserta e più del 50% della sua superficie nazionale presenta una topografia accidentata, con terreni collinari e montuosi. La maggior parte del territorio è attraversata da forti siccità e la disponibilità di acqua si trova principalmente nella zona sud-est.
È un chiaro centro geografico di Vavilov, considerato il luogo di origine di specie vegetali domestiche di grande importanza economica. Con a capo il mais, che costituisce la base dell'approvvigionamento alimentare, queste specie includono peperoncino, pomodoro, zucca, cacao, amaranto ed altre che fanno parte del patrimonio alimentare mondiale. Il Messico conta più di 20 regioni bioculturali, dove la lingua e la cultura si combinano con le specie biologiche naturali per generare sistemi di conoscenza ampi e diversificati. La gastronomia messicana, come riconoscimento di questa ricchezza bioculturale, è stata dichiarata Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO. Tuttavia, questa ricchezza è minacciata e richiede misure di protezione urgenti.
L'America Centrale è l'unica regione al mondo con una posizione sia intercontinentale che interoceanica. Questo istmo collega il Nord e il Sud America, separando l'Oceano Pacifico dal Mar dei Caraibi. Si estende da Tehuantepec, nel sud del Messico, fino alla Valle di Atrato, nel nord-est della Colombia. Formatosi nel Pliocene, circa 3 o 4 milioni di anni fa, l'istmo è stato un ponte per gli spostamenti da nord a sud per circa 10 o 12 mila anni. La sua posizione unica gli conferisce una varietà di paesaggi contrastanti, tra cui catene montuose, valli intermontane (altipiani), pendii e coste. La regione è caratterizzata da una sua diversità climatica. Predominano i climi tropicali e subtropicali, ma con una significativa presenza di microclimi.
Esiste un grande contrasto tra le zone della cordigliera, composte da colline, montagne, vulcani altopiani e pendii. Questa diversità climatica si riflette nella ricchezza naturale della regione, con diverse zone vitali che vanno dalla foresta molto umida, umida e piovosa, fino alla foresta arida. La condizione istmica dell'America Centrale spiega la presenza di specie floreali e faunistiche provenienti dal Nord e dal Sud America. Persino in Nicaragua è presente una vegetazione neartica, mentre dal sud del Costa Rica la vegetazione diventa neotropicale. La combinazione di specie provenienti da queste regioni spiega la vasta biodiversità di questa subregione.
La Grande Mesoamerica comprende chiaramente un periodo che precede l'inizio della genealogia dell'Antropocene che, nella prospettiva di questo progetto, deriva in gran parte dall'invasione europea. Tuttavia, in questi Manuali limiteremo il periodo di studio alla conquista dei territori in esame, cioè al cosiddetto periodo “coloniale”, basato sulla logica dell'intensificazione dei processi di sfruttamento. Pertanto, il concetto di Mesoamerica presente nei contributi di questi Manuali, deve essere inteso in senso ampio, geografico, culturale e socio-ambientale, come già anticipato. Si tratta quindi di un concetto operativo che non ignora le diffuse e sottili divisioni inter- e intra-regionali, né il carattere socialmente costruito di qualsiasi delimitazione spaziale, soprattutto - anche se non esclusivamente - quando si tratta di relazioni socio-ambientali.
CARAIBI
I Caraibi, il cui nucleo è stato delineato in diversi gruppi insulari di varie dimensioni, sono caratterizzati dall'interazione territoriale tra questi spazi insulari e marittimi e le aree costiere circostanti il Golfo del Messico. Si tratta del cosiddetto Circum-Caribbean, che includiamo nella nostra percezione di ciò che chiamiamo Gran Caraibi, che comprende anche la costa atlantica dell'America Latina settentrionale con Colombia, Venezuela e Guyana. E' stata la prima regione “scoperta” da Cristoforo Colombo, e in particolare l'isola di Hispaniola, (oggi Repubblica Dominicana e Haiti), divenne l'epicentro geopolitico degli spagnoli e delle altre potenze europee, tanto da essere definita “la porta delle Americhe”, almeno fino a quando non fu scoperta e conquistata la più promettente Tierra Firme.
Dal punto di vista della genealogia dell'Antropocene, i Caraibi formano una regione particolarmente vulnerabile in relazione al cambiamento climatico nel tempo storico, agli immaginari coloniali di “ingegneria climatica primitiva” ed anche per ciò che riguarda il cambiamento climatico antropogenico fin dalla “Grande Accelerazione”. In primo luogo, l'arcipelago caraibico è stato particolarmente esposto a fenomeni climatici estremi
come uragani, siccità e precipitazioni estreme, nonché a fenomeni geologici estremi come le eruzioni vulcaniche. In secondo luogo, questi piccoli ecosistemi insulari erano estremamente sensibili alle perturbazioni, come la deforestazione su larga scala intrapresa dai colonizzatori per far spazio alle piantagioni di canna da zucchero.
I Caraibi sono un punto di confluenza tra diverse aree geografiche del continente americano, essendo situati nella parte centrale del continente e in gran parte dell'Oceano Atlantico. Questo ha permesso ad ampi territori dei Caraibi di diventare porte d'accesso, sia via mare che via terra, per la migrazione di persone provenienti dai paesi europei e dallo stesso continente americano. I Caraibi sono stati anche la prima regione delle Americhe a sperimentare la migrazione di flora e fauna, soprattutto con l'arrivo dei coloni spagnoli, che hanno introdotto nuove varietà di bestiame e diversi prodotti agricoli. Il cambiamento antropogenico causato dall'arrivo dell'Europa è stato in gran parte legato all'introduzione di agenti patogeni, che hanno causato la morte di massa delle popolazioni native e l'abbandono della coltivazione della terra in diverse regioni caraibiche.
Non è un caso che, ancora oggi, i Caraibi siano riconosciuti nel mondo come una grande area tropicale e montuosa che contrasta con le attività costiere. Comprende vasti territori molto ricchi di biodiversità terrestre e marittima che, per secoli, sono stati un punto di incontro per i migranti provenienti da Europa, America, Asia e Africa. Le diaspore migratorie da e verso i Caraibi hanno avuto periodi così intensi che possiamo parlare di una regione che ha favorito le condizioni per un meticciato complesso e conflittuale.
Dopo la colonizzazione europea e l'inizio della tratta transatlantica degli schiavi, le industrie estrattiviste delle piantagioni, che sfruttavano la manodopera di un gran numero di africani schiavizzati, hanno dato origine a società altamente stratificate e socialmente vulnerabili in questo ambiente geograficamente fragile di piccole isole. Da questo punto di vista, esistono numerose analogie e una storia condivisa di migrazione forzata, stratificazione razziale e sistema di sfruttamento ecologico con il nordest brasiliano. Entrambe le regioni, con una popolazione umana all'incirca della stessa dimensione, sono nessi fondamentali del mondo afroatlantico e costituiscono spazi di circolazione ecologica paradigmatici per il sistema di piantagione coloniale, oltre che per il loro lascito duraturo nella creazione dell'Antropocene. La parte più settentrionale del nord-est del Brasile, ovvero gli Stati come il Ceará e il Rio Grande do Norte, sono a volte inclusi nelle classificazioni caraibiche.
Durante il periodo coloniale, i Caraibi sono stati uno dei più grandi mercati di persone sfruttate dalla tratta internazionale degli schiavi, finanziata dalle potenze economiche europee. In larga misura, le attuali migrazioni dai Caraibi sono dovute a processi molto complessi di degrado antropogenico dei territori e degli insediamenti popolari, nonché alla penetrazione violenta di gruppi criminali che hanno costretto ampi settori della popolazione civile a rifugiarsi nei paesi vicini o a cercare rotte migratorie verso gli Stati Uniti.
Sin dalla conquista, la violenza e l'instabilità politica hanno segnato la regione caraibica. Alla fine del XVIII secolo, Haiti è stata l'epicentro della prima grande rivolta popolare per liberarsi dal giogo della schiavitù in America. Da quel momento in poi, le condizioni di schiavitù e di sfruttamento del lavoro diventarono intollerabili per ampie fasce della popolazione civile. Allo stesso tempo, però, i Caraibi sono stati uno spazio di grande trasformazione e resilienza antropogenica, nonostante le politiche estrattiviste incentrate sui cambiamenti nell'uso del suolo, lo sfruttamento delle falde acquifere, l'introduzione di flora e fauna non endemiche, l'estrazione di petrolio, il disboscamento illegale e l'estrazione di minerali. Paesi come Cuba, Haiti, Barbados e Bahamas sono solo alcuni esempi di nazioni che hanno vissuto trasformazioni drammatiche con impatti importanti sui loro abitanti a causa delle politiche estrattiviste attuate dall'epoca coloniale a oggi.
In termini antropogenici, le comunità indigene e di discendenza africana sono state particolarmente danneggiate dall'occupazione dei loro territori ancestrali e dall'implementazione di monocolture su scala industriale. Esempi paradigmatici di queste monocolture sono quelle del banano, del cacao e del caffè, prodotti con una grande domanda mondiale che si producono attraverso una manodopera in condizioni precarie, spesso assimilabili alla schiavitù. Un'altra manifestazione della devastazione antropogenica nei Caraibi è data dalla produzione della canna da zucchero, che ha portato a vaste deforestazioni per coltivare tuberi importati dalle Filippine, una produzione che sta esaurendo le riserve idriche a causa dell'uso intensivo di acqua.
Allo stesso modo anche l'estrazione di metalli preziosi, come oro e argento, è stato un fattore significativo di devastazione antropogenica. Lo sfruttamento di terre e l'inquinamento dei fiumi con sostanze tossiche, come il mercurio e il cianuro, hanno gravemente danneggiato l'ambiente naturale. L'estrazione del rame del XIX secolo, e quella del nichel nel XX, hanno avuto un impatto globale e hanno causato devastazioni in diversi ecosistemi. Tali attività hanno anche profondamente trasformato le forme e le tradizioni culturali della regione.
In sintesi, l'Antropocene ha avuto un impatto significativo nella regione dei Caraibi, soprattutto dal XIX secolo ad oggi a causa di politiche estrattiviste abusive e incontrollate, e sulle popolazioni che hanno sofferto una lunga sequela di impunità sistematica, corruzione, abusi governativi, discriminazione e razzismo endemico. Inoltre, il fenomeno del "gran turismo" nel XX secolo ha contribuito alla massificazione del turismo, danneggiando le risorse naturali e la biodiversità presente in foreste, montagne e spiagge attraverso la vendita internazionale di terreni e proprietà a stranieri europei e nordamericani. Infine desideriamo sottolineare che, con l'eredità storica del colonialismo, della schiavitù, e la continua dipendenza economica dalle potenze europee anche dopo le indipendenza politiche, insieme al cambiamento climatico antropogenico questi piccoli Stati insulari continuano a rimanere vulnerabili. Ciò nonostante, stanno emergendo soluzioni regionali creative per affrontare la crisi climatica, in particolare sotto forma di programmi assicurativi contro le catastrofi, strutturati in modo specifico e innovativo.
USO DELLA TERRA
Il primo volume dei Manuali di CALAS sull'Antropocene come crisi multipla, si concentra sul tema dell'uso della terra in America Latina durante l'Antropocene. Le metafore centrali nell'immaginario dell'uso della terra in America Latina sono state i miti duali della terra vergine da conquistare e dell'"El Dorado" da sfruttare. Queste immagini sono essenziali per capire la genealogia dell'Antropocene nella regione, dalla Conquista fino a oggi. È riconosciuto che l'homo sapiens ha sempre alterato i suoi habitat, anche prima della colonizzazione e della crisi del sistema capitalista mondiale. Prima dell'arrivo degli europei si erano già verificati massicci cambiamenti della terra nei sistemi agricoli, l'urbanizzazione della Mesoamerica e delle Ande, e l'agroforestazione amazzonica. Tuttavia, è necessario superare una visione semplicistica e omogenea degli ambienti e della vita sociale della regione prima dell'arrivo degli europei.
L'immagine del "El Dorado" non tiene conto della
diversità delle regioni ecologiche del continente, che includevano grandi foreste tropicali e alte montagne, nonché zone semiaride, savane, mangrovie e zone umide. L'immagine degli "indios", tipica costruzione coloniale, pretendeva unificare in modo semplicistico una grande diversità di società e di forme di uso della terra. La conquista dell'America Latina è considerata il motore della prima grande accelerazione globale nella trasformazione dell'uso del suolo, che ha fortemente influenzato la formazione dell'Antropocene iniziata nel 1950. Questo incontro degli europei con le molteplici realtà del continente ha segnato l'inizio di ciò che è noto come globalizzazione e costituzione della tecnosfera della modernità. Questo processo ha collegato mondi che fino ad allora non comunicavano tra loro, creando un'economia mondiale e una circolazione socioculturale che ha legato le società umane di tutti i continenti. E' stato paradossale, perché ha prodotto grandi sofferenze e costruzioni di fondamentale importanza storica. Tutte le grandi trasformazioni avvenute in seguito, comprese le rivoluzioni industriali e la modernità, non possono essere dissociate dalle conseguenze di questo incontro e dall'instaurazione del vasto sistema coloniale che ne è derivato.
L'intenzione di questo volume è quella di arricchire i dibattiti contemporanei che, intorno all'Antropocene, cercano di comprendere la formazione della tecnosfera del mondo globalizzato-capitalista in America Latina, partendo da prospettive critiche nelle scienze sociali e umanistiche. Per questo ci concentriamo sull'appropriazione sociale e l'uso della terra, partendo dalle trasformazioni della materia, le pratiche sociali, le sue regolamentazioni politiche e legali, così come gli immaginari dei territori considerati vergini. Il concetto stesso di territori vergini o vuoti è intrinsecamente legato alla dinamica della colonizzazione, e deriva in parte dalla significativa diminuzione demografica delle popolazioni indigene. Questa diminuzione è stata più forte in alcune regioni che in altre, a causa di conflitti violenti e shock epidemiologici provocati dall'introduzione di agenti patogeni sconosciuti al sistema immunitario delle popolazioni native.
Comprendere tutto questo processo implica, quindi, studiare e capire i conflitti spaziali per l'uso della terra in tutte le dimensioni precedentemente menzionate. In questi conflitti intervengono diversi attori, spinti dalle dinamiche di colonizzazione, appropriazione spaziale e mercificazione della terra. Studiando questi conflitti di lunga data tra gruppi indigeni e metodi di colonizzazione, abbiamo tenuto in grande considerazione le logiche e le conoscenze territoriali degli afrodiscendenti, dei contadini e dei movimenti ecologisti dell'inizio del XXI secolo. Lungi dal presentare una cartografia statica dell'uso della terra, cerchiamo di indagare le dinamiche e le numerose appropriazioni dei confini, nonché altre trasformazioni storiche presenti in questo uso.
In questo quadro concettuale ci siamo concentrati su sei aree di ricerca relative all'uso della terra. Questi campi non sono strettamente separati, ma si sovrappongono e si articolano in percorsi ramificati. Il primo ambito di interesse in questo primo volume della serie è quello delle trasformazioni dei terreni incolti. Il termine “terra incolta” nei suoi vari usi, dal deserto dell'Argentina a quello del Brasile, all'“inferno verde” della giungla o al panorama andino, è problematico per la sua connotazione antropocentrica di inutilità, senza alcun rispetto per l'importanza che riveste per l'ecosistema, al pari delle zone umide. L'immaginario dell'uso della terra e la possibilità di ampliarne l'utilità è stato fondamentale per le narrazioni nazionali. Qui sono comprese anche le parti del territorio considerate "terreni incolti di secondo grado" o quelle la cui inutilità è dovuta a sfruttamento eccessivo, come le zone di desertificazione o le "discariche industriali".
Di seguito, esaminiamo tre campi che coprono tutte le attività dell'uso della terra direttamente o esplicitamente legate alla biosfera. Ciò include attività e sistemi di utilizzo del suolo basati sulla rimozione diretta della flora e della fauna, come l'estrazione del legname, raccolta di frutti come la palma, o di pesci e animali attraverso la caccia. Un altro grande approccio è quello dei campi che trasformano la terra (colture). Affrontiamo l'agricoltura dall'emergere della piantagione e del latifondismo, passando per gli impatti dell'agricoltura industriale, la Rivoluzione Verde e i transgenici, fino all'agricoltura afrodiscendente e indigena-contadina e all'agroecologia.
Nel contesto della silvicoltura, esploriamo le leggi relative all'attività e alla formazione di aree protette, nonché l'emergere di piantagioni forestali e il processo di deforestazione. Analogamente, abbiamo analizzato gli impatti dell'allevamento, in particolare l'introduzione di nuove specie come la pecora, la capra e la mucca, o di erbe "più efficaci". Un fattore fondamentale per pensare ai cambiamenti nell'uso del suolo nel continente, a partire dalle conquiste europee, è legato ai macrofattori ecologici, tra cui l'elevata capacità di propagazione nella regione di specie esotiche di fauna e flora, che erano funzionali al modello socioeconomico del colonialismo e non avevano barriere naturali di contenimento negli ecosistemi locali.
Infine, esploriamo le dimensioni della tecnosfera relative ai processi di urbanizzazione e infrastruttura. Attualmente l'America Latina è una delle regioni più urbanizzate del mondo, con un impatto considerevole sul metabolismo socio-ambientale delle diverse regioni, sull'impermeabilizzazione del suolo e il cambiamento climatico, tra i vari impatti. Per quanto riguarda le infrastrutture, spiccano le strade e l'uso dell'energia idroelettrica.
A CONCLUSIONE
Siamo orgogliosi di presentare questo volume come parte di una serie di Manuali che hanno portato avanti il compito pionieristico di affrontare l'Antropocene da una prospettiva regionale specifica. La sua realizzazione è stata possibile grazie al lavoro dedicato di un team di 20 editori e più di 70 autori provenienti da diverse regioni da America Latina, Stati Uniti e Europa, nonché da varie discipline accademiche.
Nel corso di due anni e mezzo, ci siamo riuniti in conferenze editoriali e workshop nelle sedi del CALAS a Guadalajara, Buenos Aires, Quito e San José de Costa Rica, nonché in diverse conferenze editoriali virtuali. Questi incontri hanno favorito dibattiti vivaci e talvolta controversi. Vi presentiamo qui il prodotto di questa fruttuosa collaborazione internazionale e interdisciplinare.
Abbiamo dato un contributo significativo affrontando la scala planetaria dell'Antropocene da una prospettiva regionale. Mostriamo cosa può significare l'Antropocene nelle sue dimensioni socio-ambientali e socio-tecniche, nonché in una prospettiva a lungo termine. Adottare un approccio latinoamericano significa attingere a dibattiti e problemi esistenti relativi ai molteplici conflitti socio-ambientali che richiedono prospettive critiche da parte delle scienze sociali e umane. Con il nostro lavoro speriamo di aver stimolato il dibattito sull'Antropocene da prospettive critiche latinoamericane e fornito ispirazione per prospettive su come affrontare le molteplici crisi dell'Antropocene. Speriamo infine di essere un esempio per altre “prospettive regionali sul pianeta” in relazione all'Antropocene, soprattutto nel Sud del mondo.
(4. Fine)
* Traduzione Marina Zenobio per Ecor.Network
El Antropoceno como crisis múltiple. Perspectivas desde América Latina
Volumen I - Uso de la tierra
Olaf Kaltmeier, María Fernanda López Sandoval, José Augusto Pádua, Adrián Gustavo Zarrilli
CALAS - CLACSO, Buenos Aires, 2024 - 624 pp.
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