Su Ecor.Network avevamo presentato tempo fa il testo di Alberto Acosta ed Enrique Viale, recentemente uscito per Siglo Veintiuno Editores, dal titolo La Natura sì ha dei diritti. Anche se alcuni non ci credono.
Proponiamo qui l'introduzione al testo, come prima puntata di una serie di alcuni capitoli del libro, tradotti in italiano, che riteniamo di particolare interesse.
Il sempre difficile primo passo
Forse non esiste causa più importante,
a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani,
della lotta per i diritti della natura.
(Fernando “Pino” Solanas, Tribunale internazionale per i diritti della natura, Parigi, 2015)
Quando all’orizzonte appare qualcosa di nuovo, come ad esempio i diritti della natura per molte persone, al disinteresse segue la derisione. Poco dopo, nella misura in cui queste idee innovative avanzano, pur mantenendo un’ignoranza abbastanza generalizzata, solitamente terreno fertile per alimentare le paure verso l’ignoto, non mancano minacce e anche violente azioni repressive.
Ricordiamo un episodio quasi aneddotico accaduto al Senato della Repubblica Argentina. Era martedì 3 novembre 2015. Fernando “Pino” Solanas, senatore nazionale e presidente della Commissione Ambiente della Camera Alta, aveva organizzato il primo “Incontro Latinoamericano per un’Agenda Comune sulle Alternative all’Estrattivismo”. Nel bel mezzo della discussione, quando si parlava dei gravi effetti causati dall’estrattivismo e delle possibili alternative a tanta distruzione, recuperando il valore dei diritti della natura, approvati costituzionalmente pochi anni prima in Ecuador, relatori e ascoltatori dovettero lasciare frettolosamente la sala. Il motivo? Minaccia di bomba nel Salone Illia, dove si svolgeva la conferenza. L'intero edificio fu evacuato e fu possibile ritornare solo dopo un'ora, al termine dell'ispezione da parte degli artificieri, a confermare l'assenza di esplosivi nella struttura. Riguardo a questo argomento, il senatore Solanas dichiarò alla stampa: "sembra che riflettere su questi temi dia fastidio ad alcune persone. La minaccia ci ha costretto ad evacuare mentre presentavamo alternative all’estrattivismo. Eravamo con sette senatori nazionali, un uruguaiano, sei deputati brasiliani, ospiti dall'Ecuador e trecento persone che riempivano anche la Sala Azzurra". Una vergogna internazionale.
Pino aveva aperto l'incontro affermando che l'obiettivo era generare un'agenda ambientale comune sulle principali questioni legate all'estrattivismo di cui soffriamo nei nostri territori. Inoltre, aveva sottolineato che quella riunione si era tenuta perché in Argentina non c'era ancora nessun tipo di dibattito s'un tema così urgente. Infine, affermò: "i paradigmi ufficiali sono le questioni che noi combattiamo con tutto il cuore: i grandi sfruttamenti estrattivi protetti dal puro neocolonialismo sono l’alienazione e la distruzione che attraversa questa civiltà del profitto. La nostra intenzione è promuovere progetti comuni e costruire un forum sulle questioni ambientali della regione".
Non c’è dubbio che, dopo quell’episodio, sia giunto il momento di avviare un dibattito politico serio e responsabile su questi temi, non solo in Argentina, ma in tutto il mondo. Questa è la volontà che ci anima quando proponiamo di dibattere sui diritti della natura.
Un'aberrazione trasformata in realtà
La possibilità che qualcosa di diverso dall’essere umano possa essere pensato come soggetto di diritti costituirebbe una “aberrazione”. Questo è un criterio abbastanza generale negli ambienti sociali considerati illuminati. Inoltre, molti giuristi riconosciuti e personalità influenti vedono grandi difficoltà nell’applicazione della giurisprudenza che riconosce la natura come soggetto di diritti.
Non è affatto una novità. Nel corso della storia, qualsiasi espansione dei diritti era inizialmente impensabile. Ricordiamo che quando ebbe inizio la colonia, i popoli indigeni non solo non avevano diritti, ma si affermermava addirittura che fossero privi di anima. L’emancipazione degli schiavi o l’estensione dei diritti agli afroamericani, alle donne e ai bambini furono allora respinte in quanto considerate assurde.
Basterebbe ricordare che, quando gli schiavi furono liberati, non mancò chi rivendicava le “perdite” subite dai loro “proprietari”, la cui “libertà” di commercializzarli, usarli e sfruttarli, risultava irrimediabilmente compromessa. Qualcosa di simile accadde quando il lavoro minorile – una gradita forza lavoro a basso costo nel nascente processo di industrializzazione – fu messo in discussione in Inghilterra all’inizio del XIX secolo. La polemica fu enorme. “La proposta mina la libertà contrattuale e distrugge le basi del libero mercato”, proclamavano gli illuminati dell’epoca. Alla fine si è potuto eliminare questo tipo di lavoro quasi schiavistico, almeno in termini legali, sebbene sia ancora presente anche in molte catene di valore transnazionali.
Nel mondo in cui viviamo, sembra “normale” che le aziende godano quasi dei diritti umani. In paesi come gli Stati Uniti, per alcuni un modello di giustizia universale, la legge ha esteso la portata dei diritti alle società private alla fine del XIX secolo. Da allora si riconoscono alle imprese diritti paragonabili a quelli degli esseri umani: diritto alla vita, alla libertà di espressione, alla privacy, ecc. Questa realtà – a nostro avviso distopica – è attuale in vari modi nel resto del pianeta. E nessuno ci presta attenzione perché è una tradizione di lunga data.
Il complesso compito di sfuggire alla propria ombra
Per superare questa posizione, ancora molto presente, che nega alla natura la possibilità di essere soggetto di diritti, vale la pena ricordare le origini profonde di una civiltà – la nostra – basata sul dominio imposto dall’uomo. Per cristallizzare la sua espansione imperiale, l’Europa consolidò una visione che poneva, in senso figurato, l’essere umano al di fuori e al di sopra della natura. Di tal maniera, ha aperto la strada per dominarla e manipolarla. E parallelamente ha fatto ricorso a una delle leve più potenti per attuare sistemi di dominazione tra gli esseri umani: il razzismo, ovverosia - per dirla con l’intellettuale peruviano Aníbal Quijano - “l’espressione più profonda e duratura del dominio coloniale, imposto alla popolazione del pianeta nel corso dell’espansione del colonialismo europeo”. Questo razzismo va di pari passo con il patriarcato, due assi fondamentali per comprendere il mondo in cui ancora viviamo e - di certo - per trasformarlo, se riusciamo a superarli.
Il desiderio di dominare la natura ha una lunga storia. I padri del razionalismo europeo, sviluppatosi nel corso dei secoli XVII e XVIII, erano convinti che occorresse torturarla per carpirne i segreti e così dominarla. Lo vedevano anche come una grande macchina soggetta a leggi, come un meccanismo a orologeria. Tutto si riduceva a materia (estensione) e movimento. E così, analizzando il metodo della nascente scienza moderna, postularono che gli esseri umani dovessero diventare padroni e signori della natura. Questa fonte razionalista, che ha anche profonde radici giudaico-cristiane, ha influenzato lo sviluppo della scienza, della tecnologia e delle tecniche.
Attualmente molte di queste posizioni rimangono più o meno stagnanti, al punto che aspettarsi che anche scienziati o giuristi rinomati comprendano e accettino la questione, equivale a chiedere loro di uscire dalla propria ombra. Ed è proprio questo il significato dei diritti della natura: dobbiamo fuggire dalle ombre della modernità. Solo con questa ferma convinzione possiamo superare i difetti che ci portiamo dietro da centinaia di anni. E questo non è facile, perché alterare quella verità quasi rivelata, che considera l’essere umano come una specie superiore, e accettare che la natura sia soggetto di diritti risulta essere un compito enorme.
Questi nuovi diritti – che in realtà sono una sorta di diritti originari, come vedremo più avanti – non sono semplicemente un altro campo del diritto il cui scopo è garantire un ambiente sano per gli esseri umani: questo è compito dei diritti umani nel loro aspetto ambientale. I diritti della natura sono qualcosa di diverso, rappresentano un cambiamento radicale. Anche se fin dall’inizio va notato che essi non si oppongono ai diritti umani, ma piuttosto si completano e si rafforzano a vicenda.
Se si accetta tutta la loro complessità giuridica, questi diritti della natura rompono con i fondamenti stessi della modernità, aprendo la porta alla sovversione epistemica in tutti gli ambiti della vita umana, compresa la sfera economica. A partire da questi diritti si possono quindi prefigurare cambiamenti strutturali che prima o poi ci permetteranno di muoverci verso altri orizzonti di civiltà.
È giunto il momento di un cambio di direzione
Accettiamo come punto di partenza il fatto che nessuna regione, nessuna popolazione, nessun mare della Terra è al sicuro dai danni causati dal collasso ecologico, che potrebbe essere inteso come la ribellione della Terra contro un sistema di dominio e di morte. Il capitalismo è insostenibile: questo è ciò che ci dicono con assoluta chiarezza i Rapporti del Gruppo intergovernativo sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (IPCC).
L’innalzamento del livello del mare, le ondate di caldo e le tempeste senza precedenti nei secoli, le siccità che ostacolano o rovinano i raccolti, le tempeste che provocano brutali inondazioni, le ondate di caldo che uccidono migliaia di persone e scatenano massicci incendi boschivi in tempi e latitudini prima inimmaginabili, sono inequivocabilmente associati alle attività umane che causano il cambiamento climatico, uno dei fattori del collasso ecologico globale.
La concentrazione di CO2 nell’atmosfera, generata dalla combustione di combustibili fossili, ha causato dal 1970 ad oggi un riscaldamento della superficie terrestre più rapido che in qualsiasi altro periodo degli ultimi due millenni. Secondo le osservazioni satellitari effettuate a partire dal 1979, la superficie ghiacciata dell'Artico continua a ridursi. Anche l'Antartide non è esente da questi cambiamenti. E la riduzione di cui soffrono oggi i ghiacciai terrestri non si verificava da duemila anni. Per finire, dal 1900 il livello medio del mare è aumentato più velocemente che in qualsiasi altro secolo negli ultimi tre millenni. E in questo contesto, circa 3,6 miliardi di persone sono direttamente vulnerabili a questo collasso.
L’accumulo di dati e prove che attestano il cambiamento climatico e le sue conseguenze per tutte le popolazioni continua a crescere. I rapporti dell’IPCC mostrano che le emissioni di gas serra sono responsabili di 1,1°C del riscaldamento generato sulla Terra dal 1900 e avvertono, nel 2023, che la temperatura globale supererà il fatidico obiettivo di 1,5°C entro il 2035... se non molto prima, come rilevano recenti misurazioni.
Il permanente deterioramento che causiamo all’ambiente ci mette a dura prova più volte, come gli impatti sempre più frequenti e distruttivi del collasso globale localizzato, menzionato all’inizio di questa sezione, o dello stesso Covid-19. Non dimentichiamo che più del 70% dei virus che hanno colpito e colpiscono l’umanità da trent’anni a questa parte sono di origine zoonotica, cioè malattie che possono essere trasmesse dagli animali all'uomo a causa della distruzione dell'habitat, sia per la deforestazione e perdita di biodiversità o anche per alterazioni dei cicli vitali di un virus in laboratorio.
Insomma, l’umanità, non solo a causa di pandemie come quella del Covid-19, si trova brutalmente e a livello globale di fronte alla possibilità certa della fine della sua esistenza. Questa situazione è andata rapidamente deteriorandosi almeno dalla fine degli anni ‘40 – nel mezzo della corsa disperata e inutile alla ricerca dello “sviluppo”: un fantasma irraggiungibile – ma anche con maggiore velocità e brutalità negli ultimi tempi a causa di un capitalismo globalmente fuori controllo.
Contrariamente a quanto sostengono i negazionisti dei più diversi schieramenti ideologici, stiamo vivendo una crisi generalizzata, multiforme e interconnessa, oltre che sistemica, con chiari segni di debacle di civilizzazione. Mai prima d’ora erano emerse così tante complicazioni contemporaneamente. E il punto centrale sta nel riconoscere che, alla base di questo caos, troviamo che la distruzione della natura è una delle sue cause principali, se non la più grande.
Sappiamo che non è più possibile ritornare al punto di partenza, come in altre crisi cicliche del capitalismo, perché molte delle conseguenze del processo accumulato sono irreversibili. In realtà, dopo una grave crisi sistemica non si tornava mai al punto di partenza, ma c’era sempre la possibilità di riprendere il percorso ascendente di accumulazione, la tanto auspicata crescita economica (causa diretta di molti dei problemi che ci attanagliano).
Riconosciamo questa realtà, per quanto difficile possa essere. Facciamo un ulteriore passo avanti. Utilizziamo le parole con precisione. Smettiamola di riferirci al cambiamento climatico come a un fenomeno straordinario. Non possiamo ignorare che i cambiamenti climatici sono stati parte integrante della lunga storia geologica della Terra. A dirla tutta, il termine “crisi ambientale” non riflette pienamente ciò che stiamo vivendo. In tempi lontani e non così lontani si sono registrate crisi ambientali dalle conseguenze imprevedibili, come quella causata dalla caduta dell’enorme meteorite Chicxulub in quello che oggi conosciamo come Golfo del Messico, che cambiò per sempre la storia della Terra già 66 milioni di anni fa. Oppure l’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia nel 1815, che oscurò il pianeta e ne cambiò il clima. Definiamo la cosa con precisione: siamo di fronte ad un collasso ambientale architettato da noi stessi, esseri umani, nel quadro dell'"Antropocene", che in termini corretti corrisponde al "Capitalocene", cioè l'attuale civiltà organizzata attorno al'accumulazione permanente e sempre più accelerata del capitale. Da questa prospettiva, la ricerca di alternative strutturali e radicali ci obbliga a lasciare da parte le false soluzioni, che spesso non contribuiscono nemmeno a cercare di ricucire problemi estremamente complessi.
Un percorso per avanzare in questa transizione verso un’altra civiltà si avvia partendo dai diritti della natura in crescente e permanente simbiosi con i diritti umani, senza rimanere impantanati in una semplice lettura giuridica. Questa è la chiave: quando apriamo la porta ai diritti della natura, non solo non rimaniamo nel labirinto della giurisprudenza tradizionale ma, oltre a sovvertirla, proponiamo cambiamenti che rendano possibile la costruzione di un’altra civilizzazione.
Per chiudere questa breve introduzione, vorremmo sollevare una rilevante distinzione tra ecocentrismo e biocentrismo. Se il primo concetto è inteso come un insieme di etiche che si fondano sul valore intrinseco di tutta la natura e su una visione globale degli ecosistemi, della biosfera e della Terra, il secondo si concentrerebbe esclusivamente sulla considerazione morale dell'essere vivo. Sperando che i puristi non si sentano a disagio, in questo testo parleremo soprattutto di biocentrismo, intendendo che la Terra stessa è un essere vivente, in sintonia con le visioni provenienti da quelle letture ispirate alla Pacha Mama.
(1. Continua)
* Economista ecuadoriano e giurista ambientalista argentino, coautori del libro "La Naturaleza sì tiene derechos. Aunque algunos no lo crean". Giudici del Tribunal Internacional de los Derechos de la Naturaleza. Membri del Pacto Ecosocial, Intercultural del Sur.
** Traduzione Giorgio Tinelli per Ecor.Network
Tratto da:
La naturaleza sí tiene derechos. Aunque algunos no lo crean
Alberto Acosta, Enrique Viale
Siglo Veintiuno Editores, Argentina, 09/2024 - 208 pp.