*** Quarta parte ***

Femminismi ecoterritoriali in America Latina. Tra violenza patriarcale ed estrattivista e l'interconnessione con la natura/4

di Maristella Svampa


 

8. Accesso alla terra e sovranità alimentare

Mai nella storia ci eravamo resi conto del valore che la campagna aveva per la sopravvivenza stessa dell'umanità. Siamo i custodi della terra, viviamo dove ci sono le risorse e il nostro compito è combattere e preservarle guardando alle generazioni future”.
Francisca Pancha Rodríguez, ANAMURI-La Vía Campesina, 2017

La grave crisi climatica che stiamo attraversando, soprattutto a causa del riscaldamento globale, non è dovuta solo all'aumento della combustione di fossili, ma anche ai cambiamenti nell'uso del suolo, al disboscamento e all'espansione della frontiera agricola. “Di tutti i terreni agricoli del pianeta, il 78% è utilizzato per l'allevamento di grandi dimensioni: sia per il pascolo che per la coltivazione del foraggio. Oltre il 60% dei cereali seminati nel mondo serve per nutrire gli animali in confinamento” (Gruppo ETC, 2014).

Ciò comporta due conseguenze, rispettivamente globali e territoriali. In primo luogo, in ambito globale, negli ultimi decenni abbiamo assistito a un passaggio verso un modello agroalimentare su larga scala, con enormi ricadute sulla nostra salute, sulla vita degli animali, delle piante e dei campi, promosso dalle politiche dello Stato, logica del marketing e potenti lobby commerciali che si organizzano alle spalle della società. Tale regime alimentare, costruito dalle grandi aziende agroalimentari del pianeta, è incentrato sull'elevata produttività e sulla massimizzazione del beneficio economico, a cui si accompagna un degrado di tutti gli ecosistemi: espansione delle monocolture —come soia e mais— che portano all'annientamento della biodiversità, alla tendenza alla pesca sovrabbondante, alla contaminazione da fertilizzanti e pesticidi, al disboscamento e alla deforestazione; land grabbing, tra i vari fenomeni associati.

In secondo luogo, a livello territoriale, l'espansione di questi modelli agroalimentari (soia, biocarburanti, foglie di palma) ha portato – per l'appunto – al land grabbing. Ad esempio, in diversi paesi sudamericani, l'espansione della frontiera della soia ha portato a una riconfigurazione del mondo rurale, a favore delle grandi corporazioni. Ciò ha generato, come è stato indicato, che l'America Latina è diventata la regione più diseguale del mondo, in termini di distribuzione della terra (Oxfam, 2016).

Le dispute per la terra e si territorio hanno rafforzato il ruolo delle donne nell'ambito rurale. Storicamente, queste hanno svolto un ruolo cruciale nella produzione alimentare e nella trasmissione del sapere ancestrale, ruolo strategico che si basa sulla divisione sessuale del lavoro. Secondo i dati del 2015, nel mondo sono 500 milioni le famiglie che praticano l'agricoltura su piccola scala e il 70% del lavoro agricolo è svolto da donne, soprattutto nelle regioni meridionali. Tuttavia, su scala globale, le donne possiedono meno del 3% della terra e hanno grandi restrizioni sul credito (Pappuccio de Vidal, 2016). Da anni le donne del Coordinamento Latinoamericano delle Organizzazioni Rurali (CLOC) e de La Via Campesina (LVC) Internacional scommettono su un "femminismo contadino, i cui assi centrali sono la cura delle sementi autoctone, la lotta per la sovranità alimentare e per la riforma agraria integrale e contro la violenza patriarcale” (Korol, 2016). La sovranità alimentare — come concetto-orizzonte e, da decenni, bandiera di lotta dei movimenti sociali, rurali, contadini e indigeni di tutto il mondo — è stata ideata da La Vía Campesina e portata all'attenzione pubblica in occasione del Vertice Mondiale dell'Alimentazione, nel 1996. Propone di dare priorità alla produzione per sfamare la popolazione; implica l'accesso alla terra (da cui la riforma agraria), il diritto dei popoli a dire cosa produrre e consumare e il diritto a proteggersi dalle importazioni e dal dumping.

Nella testimonianza di Francisca Pancha Rodríguez, leader di ANAMURI (citata all'inizio dell'epigrafe), emerge chiaramente la difficoltà delle donne all'inizio di La Vía Campesina a piantare bandiera e sfidare gli stereotipi di genere.

Il processo di discussione e dibattito sulla sovranità alimentare ci ha permesso di riconoscere e valorizzare le nostre attività contadine, ovvero le donne sono state fondamentali per lo sviluppo dell'agricoltura e continuano ad essere fondamentali per la produzione degli alimenti e la loro trasformazione. Pertanto, il nostro spazio all'interno di LVC è uno spazio non di decorazione, abbiamo parità di genere perché rivendichiamo e sosteniamo quel diritto di essere uguali, se siamo uguali nel lavoro e nel campo, lo siamo anche per la direzione del movimento. Per questo motivo, le donne tengono sempre un'assemblea prima della conferenza, in cui parliamo dei nostri temi, guardiamo la nostra attività e facciamo proposte al movimento (rivista Pueblos, 2017).

Accrescono sempre più le esperienze comunitarie che illustrano la relazione tra femminismi popolari, contadini e indigeni, e agroecologia, mettendo in discussione la presenza di una forte cultura patriarcale nelle campagne. Nelle parole di Rosario Pellegrini, referente del Sindacato dei Lavoratori della Terra, dell'Argentina:

Ci siamo accorti che il modello produttivo prevalente nelle fattorie, quello dell'agrobusiness e della dipendenza, dei pesticidi, degli agrofarmaci, in questo modello sono escluse le donne. Abbiamo lavorato più di dodici ore nella fattoria e abbiamo continuato a lavorare nelle case, ma non abbiamo preso parte alle decisioni su cosa comprare, cosa coltivare, quale seme usare, [questo] è diventato territorio degli uomini, [in questa linea] l'agroecologia deve andare di pari passo con un recupero del ruolo delle donne come custodi della terra, del pianeta, della famiglia, mentre gli uomini imparano a condividere i compiti di cura e assistenza. Dobbiamo capire che la violenza che facciamo alla terra con il modello agroindustriale è la stessa che noi donne viviamo nel nostro stesso corpo” (Intervistata da Castro, 2020).

In altre parole, sono soprattutto le donne le protagoniste della resistenza agli sgomberi, quelle che mettono il proprio corpo davanti ai bulldozer e denunciano la contaminazione con agrofarmaci. Sono anche loro che hanno rafforzato la scommessa a favore di un'economia contadino-indigena, sociale e solidale, hanno potenziato il modello agroecologico come paradigma opposto a quello dell'agrobusiness. Sono loro che difendono la terra e la natura al di fuori delle logiche commerciali. Come sottolinea Rocío Silva-Santiesteban nell'analisi del caso peruviano, "l'acqua, la coltivazione, la terra sono molto più importanti per le contadine di uno stipendio o di una casa in città, perché questa visione economicista non tiene conto della performatività identitaria delle stesse contadine e attiviste delle comunità» (Silva-Santiesteban, 2017: 40). Sono le donne che, prendendosi cura dei semi e dei saperi ancestrali, creano spazi di re-esistenza, dove l'agroecologia gioca un ruolo sempre maggiore. Nelle parole di Alicia Amarilla, del Coordinamento delle Donne Contadine e Indigene del Paraguay, CONAMURI:

“Le nostre proposte sono sempre state una lotta frontale contro l'agrobusiness e il land grabbing, che va di pari passo con la lotta contro gli agrofarmaci che stanno avvelenando intere popolazioni nelle campagne, la contaminazione dei nostri semi autoctoni e creoli e la distruzione dell'habitat e dei territori, la biodiversità. Siamo impegnate nella formazione politica e nella sensibilizzazione delle basi, che sono le cellule, la materia prima dell'organizzazione. Nelle basi ci sono le donne e gli uomini che quotidianamente lavorano la terra per produrre alimenti sani, dal modello biologico a quello agro-ecologico, ci sono quelle e quelli che lottano per un pezzo di terra dove poter crescere i propri figli e figlie e immaginare per loro un futuro non così deludente, un futuro che permetta loro di evitare la necessità dello sradicamento e della migrazione forzata verso la città o verso altri paesi, dove l'essenza e l'identità contadina e indigena si perdono facilmente. Contiamo s'un piano strategico dove si contemplano questi obiettivi, è molto difficile andare avanti, ma il processo, pur con i suoi alti e bassi, non si ferma.”

Un caso molto interessante di femminismo contadino è la lotta nella Riserva di Tariquía, in Bolivia. Nel 2015, il governo di Evo Morales ha cercato di consentire l'ingresso di attività di idrocarburi attraverso un ricollocamento illegale. Le comunità sono riuscite a mobilitarsi per impedire l'ingresso delle compagnie petrolifere. Sono le donne che dal 2016 sostengono una lotta continua, opponendosi all'espropriazione delle loro condizioni di vita, attraverso la difesa della produzione agroecologica, della pesca e dell'apicoltura. Dai sindacati agrari, lo sforzo di liberazione dalla chiusura reso più attuali altre chiavi per la difesa della riserva ("l'organico"), in nome della comunità, delle famiglie, dell'acqua e di tutta la flora e fauna di Tariquía ( López Pardo e Chávez León, 2019: 86-91).

Nelle parole della leader boliviana Bernarda Benítez 10, è una lotta che rivela “un legame con la natura al di fuori della visione mercantile della terra”.

Altra esperienza organizzativa differente, gestita da donne, è la cooperativa La Verdecita, azienda agroecologica che opera dal 2002 nella provincia di Santa Fe, in Argentina. Il suo documento fondativo punta alla lotta contro la fame e l'esclusione, per l'esercizio dei diritti all'alimentazione e alla salute sana, e la creazione della cintura orticola della città di Santa Fe attraverso l'accompagnamento verso la sua transizione agroecologica. Si tratta di un'esperienza nata in un territorio circondato dall'agrobusiness, e molti dei suoi membri sono migranti provenienti da altre province e paesi limitrofi. Allo stesso modo, dal 2010 è operativa la Scuola Professionale Agroecologica, una proposta di formazione non formale e aperta alla comunità (Papuccio de Vidal, 2020).

Nei paesi centroamericani, come Costa Rica e Nicaragua, troviamo anche numerose esperienze di femminismo agroecologico che sfidano gli stereotipi di genere, nelle mani di donne indigene, afro-discendenti, donne di tutte le età, che cercano di svolgere un compito di risanamento, contro le conseguenze della guerra, contro la siccità e le conseguenze dei cambiamenti climatici (La Agroecologia, 2020).

Insomma, la denuncia delle violenze corporative e ambientali – il cui volto scarnito rappresenta l'avanzamento, da parte dell'agrobusiness, attraverso il disboscamento, i bulldozer, gli sgomberi forzati, la mercificazione della terra – e ha come controparte un discorso e una prassi rigenerativa, attraverso la creazione di spazi di re-esistenza caratterizzati dalla cura delle sementi e della terra, dalla valorizzazione dei saperi ancestrali e agroecologici, e dal salvataggio delle piante medicinali, in nome della sovranità alimentare. A ciò si accompagna anche la denuncia del maschilismo e del modello patriarcale, non solo fuori ma anche dentro la comunità, in linea con un modello di abitare il territorio che includa la democratizzazione di genere in termini di accesso alla terra.
 

9. Territori mascolinizzati, estrattivismo e catene di violenza

"Il patriarcato fa ai nostri corpi ciò che le economie estrattiviste e capitaliste fanno ai nostri territori".
XIII Incontro femminista latinoamericano e caraibico, Perù, 2015

Insieme all'espansione dei conflitti territoriali e socio-ambientali, la violenza estrattiva si è intensificata. Il rapporto Global Witness pubblicato a settembre 2021 rivela che tre quarti degli omicidi registrati contro attivisti ambientali nel 2020 sono avvenuti in America Latina: 165 persone sono state uccise per aver difeso la loro terra e il pianeta. A livello globale sono stati registrati 227 attacchi mortali, segnando un aumento rispetto ai dati storici per il secondo anno consecutivo. La Colombia è stata, ancora una volta, il paese più colpito al mondo, con 65 omicidi registrati, e il Nicaragua, con 12 morti, il luogo più letale per i difensori considerando gli omicidi pro capite (Global Witness, 2021).

In questo quadro, il neo-estrattivismo, soprattutto quando si esprime attraverso economie di enclave, ha portato ad un approfondimento delle catene della violenza, soprattutto contro le donne. Certamente, laddove esplodono attività estrattive, come quelle minerarie e petrolifere —caratterizzate dalla “mascolinizzazione dei territori” (Fondo de Acción Urgente-FAU, 2016) e dallo straordinario profitto –, non è un caso che intensificano ed esacerbano diverse problematiche sociali e forme di violenza, già presenti nel resto della società. Ciò incide enormemente sulla posizione delle donne: da un lato, in un contesto di marcate asimmetrie salariali, si accentuano le disuguaglianze di genere e si rafforza il loro ruolo tradizionale. Alla stessa maniera, assistiamo all'indebolimento dei ruoli comunitari e ancestrali delle donne, poiché l'arrivo delle imprese estrattive tende a rompere il tessuto comunitario preesistente, producendo uno spostamento delle attività e anche della popolazione. Aumenta lo sfruttamento sessuale e la violenza contro le donne (tratta, prostituzione, femminicidio). Infine, si aggravano anche le catene di violenze —fisiche e sessuali— contro le donne che difendono l'ambiente.

L'omicidio di Berta Cáceres e quelli che sono seguiti dimostrano che questo femminicidio non è stato un evento isolato. “Nel report di omaggio alle donne difenditrici dei diritti umani dell'Associazione per i Diritti delle Donne e lo Sviluppo (AWID, 2016), viene riportato l'omicidio di 87 donne impegnate in tutto il mondo, di cui almeno 17 erano attiviste ambientali e attiviste per la difesa dei diritti delle loro comunità” (Mazzuca, Mingorria, Navas e Del Bene, 2017). La maggior parte degli attacchi alle donne sono stati effettuati in contesti di sgombero forzato, dove sono state violentate fisicamente e sessualmente dalle forze di polizia o da gruppi paramilitari (FAU, 2015). Abbiamo già fatto riferimento agli attacchi subiti da Máxima Acuña in difesa delle lagune, a Cajamarca. La persecuzione assume anche la forma di forti pressioni giudiziarie, come nel caso di Aura Lolita Chávez Ixcaquic, del Guatemala, oltre alle minacce continue, che nel 2005 hanno portato la Commissione Interamericana dei Diritti Umani a ordinare misure di protezione a suo favore.

In un lavoro del 2019, la ricercatrice Mina Navarro offre un elenco scioccante di donne attiviste a difesa dei territori assassinate in Messico, che ora cerco di riassumere. Tra i casi più noti di violenza estrema contro le donne legate a una lotta per la difesa del territorio, c'è quello di Alberta "Bety" Cariño, assassinata nel 2010. Nel 2012, Fabiola Osorio Bernáldez, membro dell'organizzazione Guerreros Verdes, è stata assassinata da un gruppo di uomini armati che hanno fatto irruzione a casa sua e uccisa a colpi di arma da fuoco insieme a una vicina che era con lei in quel momento. Fabiola era contraria alla realizzazione del progetto turistico. Nel 2012, Juventina Villa Mojica — leader della Organización de Campesinos Ecologistas de Petatlán e Coyuca de Catalán, nello stato di Guerrero, è stata uccisa insieme a suo figlio di 17 anni da un gruppo di 30-40 uomini armati. Nel gennaio 2018, il femminicidio di María Guadalupe Campanur Tapia, membro della comunità di Cherán e partecipante attiva per la sicurezza e ricostituzione del territorio della comunità purépecha, che dal 2011 ha acquisito la sua autonomia politica per essere governata da usi e costumi (Navarro Truillo, 2019: 7-8).

Insomma, in tempi in cui il femminicidio e altri tipi di violenza e crudeltà sul corpo delle donne acquisiscono una centralità impressionante, si osserva una nuova articolazione tra redditività straordinaria e iperappropriazione accelerata, con forti strutture di disuguaglianza. Seguendo la rotta mineraria e petrolifera, nel fervore dell'espansione dell'estrattivismo nel XXI° secolo, è possibile vedere come si stiano espandendo tratta, prostituzione, violenza fisica contro le donne, rivelando la riattualizzazione di una matrice di dominio che, nella sua intersezione, mostra l'esacerbarsi dei meccanismi di sottomissione e di espropriazione, legati alle forme più tradizionali del patriarcato.
 

10. A titolo di chiusura. "Me l'ha detto il fiume"

Viviamo in tempi in cui la pluralità ontologica si basa sull'idea della molteplicità dei mondi, di "pluriversi", e si nutre dell'interculturalità, del rispetto per altri modi di intendere la cultura e di organizzare la vita. I femminismi ecoterritoriali latinoamericani aggiungono agli ecofemminismi già esistenti una prassi e una narrazione incentrate sulla difesa dell'acqua, sui corpi-territori, sulla sovranità alimentare, sulla giustizia ambientale come giustizia sociale e di genere, associata alla spiritualità e all'emozione, illustrando un'interconnessione con la Terra e l'insieme della vita, opposta a quella dominante.

La pandemia da COVID-19 e il collasso ambientale che stiamo vivendo hanno mostrato quanto sia necessario trasformare il rapporto tra società e natura, superando il paradigma dualistico e antropocentrico, concezione e legame che è all'origine dei modelli di cattivo sviluppo che sostengono l'idea di una crescita illimitata e l'espansione delle frontiere della mercificazione della vita. Allo stesso modo, la pandemia ha reso visibile l'importanza dell'assistenza, nelle sue molteplici dimensioni. In tempi di pandemia stiamo assistendo a una vera esplosione di workshop e dibattiti nella regione latinoamericana sull'assistenza, guidati da donne leader, attiviste e organizzazioni di diverse correnti femministe ecoterritoriali e comunitarie, sull'aumento della violenza patriarcale e coloniale, al calore della crisi economica e dell'accelerazione dell'estrattivismo. Più che mai, la crisi sanitaria e il suo impatto sull'economia hanno messo in luce l'insostenibilità dell'attuale organizzazione dell'assistenza e il ruolo dell'autogestione comunitaria, che ricade sulle donne, soprattutto quelle povere. Già prima della pandemia, “le donne dedicavano il triplo del tempo degli uomini al lavoro di assistenza non retribuita, situazione aggravata dalla crescente domanda di cure e dalla riduzione dell'offerta di servizi causata dalle misure di confinamento e distanziamento sociale adottate per frenare la crisi sanitaria” (ECLAC, 2020). Pertanto, qualsiasi discussione sull'assistenza come diritto umano passa più che mai attraverso la sua democratizzazione e universalizzazione. In altre parole, pensare a politiche pubbliche attive, attraverso sistemi di assistenza globale che concepiscano la cura come un diritto (Pautassi, 2017) e riducano il divario di genere, è la chiave per la ripresa post-pandemia.

Da segnalare anche il cambiamento epocale in termini di protagonismo sociale, ora incentrato su donne e giovani. Se all'inizio dell'ascesa dei governi progressisti — con il boom delle commodities (2000) e la messa in discussione del neoliberismo — il ruolo di primo piano nelle lotte e nell'elaborazione di un linguaggio emancipativo era quello dei popoli indigeni (Buen Vivir, Diritti della Natura , Autonomia, Stato Plurinazionale), al termine del ciclo progressista (2015) — e con l'inizio di una nuova era segnata dall'aggravarsi della crisi socio-ecologica e dal sorgere di nuove destre autoritarie —, sarà per le donne, attraverso i diversi femminismi ecoterritoriali e urbani, con un'importante presenza di giovani donne di diverse origini sociali ed etniche. Siamo di fronte alla configurazione di un nuovo spazio ecofemminista, plurale e diversificato, con diversi strati e trame che si intrecciano: Giustizia ambientale e zone di sacrificio (grammatica del riconoscimento e accesso ai diritti fondamentali), Acqua per la vita (grammatica di ciò che è comune e della sostenibilità della vita), i fiumi e le foreste come entità senzienti (Diritti della Madre Terra, Diritti della Natura); denuncia della violenza patriarcale ed estrattivista, difesa dei corpi-territorio (Autonomia e Risanamento, contro-mappatura del corpo-territorio), accesso alla terra, cura dei semi e trasmissione di saperi ancestrali (Sovranità alimentare e agroecologia).

In altre parole, tra il 2000 e il 2015 si è passati dal “momento indigenista” al “momento femminista”, una tendenza che accompagna e aggiunge alla narrazione del Buen Vivir e dei Diritti della Natura il linguaggio ecofemminista della difesa del corpo come un territorio contro ogni tipo di violenza, della difesa dell'acqua per la vita, della convinzione che le donne stanno diventando sempre più le guardiane della terra. Si tratta, insomma, di un'epistemologia ecofemminista sempre più politica che dialoga con altre tradizioni (ecofemminismo classico, economia femminista e femminismo urbano) nell'impegno di costruire altri orizzonti di vita, più giusti, democratici e resilienti, di fronte al collasso ambientale e della civilizzazione. Detto questo, non bisogna dimenticare che l'emergere di nuove donne leader e attiviste in difesa della terra e del territorio ha avuto come contesto l'aumento della violenza estrattiva e il rafforzamento del vincolo patriarcale, nell'ambito dei territori mascolinizzati.

D'altra parte, è noto che, nell'ambito urbano, la marea verde femminista ha portato con sé importanti cambiamenti culturali nella società di diversi paesi dell'America Latina (Argentina, Uruguay, Cile ed Ecuador, tra gli altri), visibili nel processo di decostruzione della mascolinità dominante, e nel potenziale emergere di un nuovo ethos femminista, che si traduce nella denaturalizzazione del potere patriarcale, a partire dalla richiesta di una legislazione che espanda e generi diritti (come il diritto all'interruzione legale della gravidanza). In questo senso, il dialogo tra femminismi urbani, che rivendicano l'autonomia dei corpi, e femminismi ecoterritoriali, che difendono l'acqua e i territori, non è né scontato né lineare. Così come c'è un linguaggio di valorizzazione che colloca la sostenibilità della vita al centro e non accetta di discutere su alcune questioni come la legalizzazione dell'aborto, esiste anche un femminismo urbano egocentrico che è indifferente alle lotte delle donne contro l'estrattivismo e contro le grandi corporazioni. Bisogna però insistere sul fatto che è possibile costruire dei ponti tra quei femminismi ecoterritoriali che pongono come punto di partenza l'associazione tra violenza patriarcale, estrattivista e violenza coloniale — dove il corpo appare come il primo territorio da difendere —, e i femminismi urbani. In altre parole, la connessione delle diverse forme di violenza, patriarcale, capitalista ed estrattivista, consente un dialogo più aperto e forse più privo di pregiudizi e tensioni, in quello spazio a geometria variabile dove si inseriscono oggi le lotte delle donne nella regione latinoamericana. Ebbene, "se il corpo è territorio, allora intendiamo la lotta per la depenalizzazione dell'aborto come una lotta territoriale", afferma il gruppo Geografía de Ecuador (2018: 22) in un opuscolo, il cui obiettivo non è altro che la creazione di ponti tra le diverse correnti del femminismo latinoamericano.

Pertanto, quando si tratta di ripensare il nostro legame con la natura nel contesto della crisi ambientale e di civilizzazione, il contributo dei femminismi ecoterritoriali del sud risulta tanto necessario quanto vitale. Questi contribuiscono a riformulare i legami tra umano e non umano, a mettere in discussione la falsa autonomia o esteriorità rispetto alla natura e il ruolo negativo dell'androcentrismo, fatti che stanno alla base della nostra concezione moderna del mondo, della scienza e la tecnologia al servizio delle multinazionali, della convinzione di una crescita illimitata. I contributi dei femminismi ecoterritoriali sono fondamentali ed imprescindibili sia nell'impegno a costruire un movimento transambientale e intersezionale — di natura anticapitalista e antipatriarcale che metta al centro l'opposizione tra vita e capitale — sia quando si tratta di discutere cosa si intende per una giusta transizione ecosociale, dal Sud del mondo.

Insomma, nella lotta unitaria per la difesa della terra e dei territori, le donne si sentono e vivono se stesse come "guardiane della natura", ma lungi dal cadere in una sorta di ecofemminismo essenzialista, questa convinzione va articolando una narrativa che mette in discussione capitalismo e patriarcato, mentre va forgiando un'epistemologia degli affetti e delle emozioni, in contatto spirituale e materiale con altri esseri senzienti, non umani, come l'acqua, le colline e montagne, i semi e le piante. Questa interconnessione e spiritualità è quella che appare riflessa nella breve e concisa frase della grande attivista honduregna Berta Cáceres: "Me l'ha detto il fiume". Una frase che sembra detta di sfuggita, ma che segna una prassi politica precisa nonché l'orizzonte di un'epistemologia ecofemminista relazionale, che insiste nel ricordarci che siamo parte di un insieme interconnesso che si chiama in maniera indistinta Pacha, Madre Terra, Natura.
                                                                         

(4. Fine)

* Maristella Svampa è sociologa, scrittrice e ricercatrice presso il Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (CONICET) Argentina. Professoressa all'Università Nazionale di La Plata. Laurea in Filosofia presso l'Università Nazionale di Córdoba e PhD in Sociologia presso la School of Advanced Studies in Social Sciences (EHESS) di Parigi. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il platino Kónex Prize in Sociology (2016) e il National Prize for Sociological Essay per il suo libro "Debates latinoamericanos. Indianismo, sviluppo, dipendenza e populismo" (2018). Nel settembre 2020 ha pubblicato "El colapso ecológico ya llegó. Una brújula para salir del (mal)desarrollo", insieme a Enrique Viale, per la casa editrice Siglo XXI (www.maristellasvampa.net).


** Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network

 



Feminismos ecoterritoriales en América Latina Entre la violencia patriarcal y extractivista y la interconexión con la naturaleza
Maristella Svampa
Fundación Carolina, Documentos de Trabajo 59 / 2021 (2ª época) - octubre 2021 - 30 pp.

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Note:

10) Appunti tratti dalla conversazione tenuta dal Southern Women's Fund, il 29/09/2021, a cui ho partecipato insieme ai leader territoriali di Bolivia, Paraguay e Argentina. Bernarda Benítez è una leader contadina che rappresenta l'Associazione delle Donne della Provincia di O'Connor (AMPRO), di Tarija, Bolivia.



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14 dicembre 2022 (pubblicato qui il 18 dicembre 2022)