*** Zapruder ***

Eppure soffia ancora. Territori, salute, movimenti

di Archivio dei movimenti sociali – 14 dicembre e Ilenia Rossini

Dal mese scorso è disponibile in free download Ambienti ostili, il n. 58 di Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale edito in cartaceo un anno fa. Il volume contiene una miscellanea di contributi che tematizzano le contraddizioni e i conflitti ambientali emersi a partire dal secolo scorso fino all’attualità: dall’impatto ecologico dell’imperialismo italiano in Grecia agli effetti dell’industrializzazione nel Belpaese, con il suo carico di nocività (Taranto, Val Bormida, Sannazzaro de’ Burgondi, Manfredonia, Porto Marghera), dall’estrazione mineraria nelle Apuane alle lotte contro l’energia nucleare. Ampia la panoramica internazionale, dall’America Latina alla Nuova Caledonia, dal Kurdistan alla Cina.

Pubblichiamo di seguito l’editoriale a cura dell’Archivio dei movimenti sociali – 14 dicembre e di Ilenia Rossini, e l’indice della rivista con i link agli articoli liberamente scaricabili.


E l’acqua si riempie di schiuma, il cielo di fumi /
La chimica lebbra distrugge la vita nei fiumi Uccelli che volano a stento malati di morte /
Il freddo interesse alla vita ha sbarrato le porte [...]
Eppure il vento soffia ancora /
Spruzza l’acqua alle navi sulla prora E sussurra canzoni tra le foglie /
Bacia i fiori, li bacia e non li coglie

(Pierangelo Bertoli, Eppure soffia, 1976)


Ambienti ostili. Un doppio plurale per tentare di restituire l’ambiguità costitutiva del rapporto fra l’umano e l’elemento naturale di cui è parte.
Un rapporto segnato dalla costante negoziazione del significato dei termini che lo compongono e che, nell’attuale fase di capitalismo avanzato, si sono assestati in una polarizzazione inedita.
Ostile è infatti il contesto ambientale quando assume l’aspetto di calamità, di catastrofe o di terreno di coltura di malattie (virali, oncologiche, cardiocircolatorie, ecc.), così come ostile è l’attitudine predatoria attraverso cui l’umano dispone strumentalmente di tutto ciò che lo circonda.
Con l’ormai egemone modello estrattivista basato sul crescente sfruttamento del fattore ambientale a favore degli imperativi di “sviluppo” e di una certa idea di “progresso” (Behringer 2013, pp. 239-252; Mezzadra e Nielson 2020; Arboleda 2020) e nella misura in cui «la legge del valore è un modo di organizzare la natura» (Moore 2017, p. 102), la riproduzione del capitale si è infatti intrecciata indissolubilmente al depauperamento delle risorse naturali.

Negli ultimi anni, la constatazione degli effetti di un’azione antropica deleteria per l’ecosistema, unitamente alla presa di coscienza della necessità di un’inversione di rotta, ha innescato nuove mobilitazioni ambientaliste su scala globale (Extinction rebellion 2019; Thunberg 2019).
Al netto delle diversità di intervento praticate dalle nuove soggettività impegnate su questo fronte, ad accomunarle è la volontà di prendere in mano le leve di un conflitto che, storicamente, ha trovato terreno fertile nelle numerose esperienze di resistenza delle comunità locali allo sfruttamento del territorio (Richardson 2020), come dimostra tra le altre l’esperienza del movimento no tav in Val di Susa.
In questi percorsi è evidente l’importanza di un radicamento “indigeno”, che riflette un’attivazione militante nata a partire dal proprio quotidiano, da un “qui e ora” concreto e perciò tanto più urgente.
La posta in gioco non è astratta e distante, ma riguarda direttamente la qualità – o addirittura la possibilità – di un diverso rapporto tra le condotte di vita e i territori nei quali esse si riproducono. Le comunità contaminate, le comunità “di scarto” attraverso le quali il capitalismo (ri)produce esclusione e diseguaglianze, si trasformano così in comunità resistenti (Armiero 2021; Palidda 2018; Ghione 2011).

Tale discorso può riguardare una vallata subappenninica, come le Alpi Apuane – immortalate nella rubrica Immagini da Pietro Niccolò Baccellieri e Chiara Braucher – sventrate dall’industria estrattiva. O il territorio della Valle Bormida, dove il Centro di documentazione presentato in Luoghi da Annalisa Cannito raccoglie la storia di oltre un secolo di resistenza della comunità locale contro un’economia basata su sfruttamento, prevaricazione, depredazione e inquinamento.
Dimensioni che, per quanto locali, hanno la capacità di sviluppare una critica che investe il piano sistemico; soggetti sociali che sono «forzatamente obbligati a giocare un ruolo reattivo alle conseguenze dei mutamenti ambientali» (Adorno e Neri Serneri 2009, p. 22).
Non si tratta, come talvolta si è semplicemente voluto liquidarle, di resistenze dovute a una presunta “sindrome Nimby” (Not in my backyard, non nel mio cortile), quanto piuttosto della risposta – spesso spontanea, ma non per questo meno fondata su competenze e pareri tecnici e scientifici (Pellizzoni 2011) – al degrado ambientale e al peggioramento, materiale e visibile, delle proprie condizioni di vita, o alla sua minaccia.

È a partire da questi presupposti che, a quasi un decennio di distanza dal n. 30 di «Zapruder», Primavere rumorose. Ambiente e lotte sociali (2013, curato da Marco Armiero, Stefania Barca e Andrea Tappi), alla fine del 2020 abbiamo cominciato a pensare a questo numero, con impresso nelle nostre menti e nei nostri corpi il vissuto della pandemia da Covid-19.
La repentina presa di coscienza della relazione esistente tra l’inarrestabile riduzione degli ecosistemi naturali dovuta all’ampliamento delle colture e degli allevamenti intensivi e il fenomeno delle zoonosi di origine selvatica (Quammen 2017; Wallace 2016 e 2020) – cioè del “salto di specie” di un agente patogeno da un animale selvatico a un essere umano – ha introdotto concretamente l’ipotesi che la devastazione ambientale fosse all’origine anche della diffusione di un buon numero di malattie contagiose potenzialmente mortali da cui ormai, nel mondo occidentale, ci ritenevamo immuni. La spiegazione sistemica del fenomeno pandemico è stata così una spinta per provare a indagare nuovamente le relazioni di prossimità tra ambiente ed esseri umani (Economia politica network 2021; Vineis e Savarino 2021).
Consapevoli del fatto che proporre già una storicizzazione della pandemia da Covid-19 sarebbe risultata un’operazione prematura e pur avendo chiaro che «alla scienza dei salti di specie si è stati tanto sordi quanto a quella del cambiamento climatico» (Malm 2021, p. 66), abbiamo approfondito questa correlazione individuando i suoi punti di caduta nelle manifestazioni che – come Archivio dei movimenti sociali-14 dicembre e «Zapruder» – sappiamo riconoscere e analizzare con maggiore facilità: i conflitti sociali e, nel caso specifico, i conflitti ambientali.

Ci siamo dunque interrogati sul fenomeno pandemico entro la cornice più ampia costituita dalla relazione dialettica tra l’essere umano e il territorio in cui vive, in una considerazione sistemica del rapporto tra ambiente e salute. Volendo quindi rappresentare concettualmente i sintomi di una interdipendenza mai pacificata, abbiamo deciso di comporre questo numero come una «raccolta di schizzi paesaggistici» (Wittgenstein 2009, p. 3) in un arco temporale che dall’inizio del Novecento arriva – anche per gli effetti delle devastazioni ambientali – ai giorni nostri.

Vengono quindi presentati episodi di conflitto sociale che, in maniera più o meno intensa ed esplicita, tematizzano la questione ambientale tenendo conto della «grande accelerazione» dell’influenza dell’essere umano sulla biosfera – proliferazione dei processi di accumulazione delle risorse, incremento dell’utilizzo energetico, aumento demografico, erosione di ecosistemi e forme di vita, espansione dei complessi urbani – avvenuta soprattutto a partire dal 1945 (McNeill e Engelke 2018; Chakrabarty 2020 e 2021).
I contributi del numero utilizzano il metodo e le categorie della storiografia e delle scienze sociali, ma soprattutto condividono tendenzialmente l’analisi e gli strumenti dell’ecologia politica, intesa come forma di critica radicale allo sfruttamento dell’ambiente e delle risorse che tiene presente la divisione della società in classi. Come scrivevano già nel 2013 Armiero, Barca e Tappi, del resto, «la separazione tra le due sfere, quella sociale e quella ambientale, è fittizia e politicamente oppressiva, perché l’ingiustizia sociale riflette e (ri)produce l’ingiustizia ambientale in un metabolismo poroso tra corpi, lavoro e potere [...] È l’ingiustizia ambientale che distribuisce i costi della crescita tra i poveri e i marginali, permettendo, invece, ai ricchi di massimizzare i loro profitti» (p. 3).

Indicativamente, lo Zoom che apre questo numero offre una propedeutica tematizzazione dei rischi rappresentati da una sbrigativa liquidazione della questione ambientale. Secondo Xenia Chiaramonte, infatti, il principio di ostilità tra l’umano e l’ambiente risiede nell’utilizzo della categoria di «natura» come significante di un’entità eterna, pura e incontaminata, mentre tale idea è solo un costrutto sociale sedimentatosi nei secoli, dal quale è impossibile espungere una matrice occidentale, un riflesso coloniale e una pulsione (etero) normante. Un termine scivoloso, dunque, che dovrebbe spingere al rifiuto di una logica binaria fuorviante e, a tutti gli effetti, coercitiva.
Tale necessità di decolonizzazione del pensiero ha radici profonde, come ci ricorda l’intervista di Maura Benegiamo e Salvo Torre a Maristella Svampa ed Enrique Leff, che riporta al centro del dibattito l’attualità del pensamiento ecologista latinoamericano nell’interpretazione del rapporto tra società e ambiente circostante. Radici che affondano in terreni di lotta e rivelano il debito dell’ecologia politica nei confronti dell’America latina e di quei paesi, soprattutto Colombia e Messico, che contano settimanalmente gli assassinii dei propri ambientalisti da parte dei gruppi armati incaricati della difesa dei possedimenti di grandi imprenditori dello “sviluppo” economico. Una dinamica, questa, che nonostante le specificità dei contesti locali, si ripresenta a longitudini e latitudini diverse.
È quanto emerge, ad esempio, dalla Voce raccolta da Viola Paolinelli e Adriano Della Bruna dell’attivista curdo del Movimento ecologista mesopotamico Ercan Ayboga, coinvolto da più di due decenni nella lotta contro il megaprogetto idroelettrico lungo il fiume Tigri, nel Kurdistan turco.
L’invito ad apprendere da contesti in cui la questione ambientale si interseca con una storia e un presente coloniale è ribadito anche nel contributo di Claudia Ledderucci. Il suo focus sull’isola di Ouvéa, in Nuova Caledonia, è una sfida a leggere nelle conseguenze del cambiamento climatico – nel concreto, la sparizione di molte isole del Pacifico – le traiettorie dei gruppi ecologisti e della coscienza popolare sull’ambiente a partire dall’elaborazione locale della violenza fisica e simbolica perpetrata dalla repubblica francese.

Un’elaborazione che Filippo-Marco Espinoza ci presenta invece soffermandosi sull’occupazione coloniale italiana dell’isola di Rodi e, in particolare, sull’impatto delle politiche di riforestazione imposte dal regime fascista. L’autore ci ricorda come il “colonialismo verde” italiano impose la crescita di foreste alloctone a discapito dell’ambiente rurale che garantiva l’economia pastorale dell’isola, favorendo così l’espulsione della popolazione locale a vantaggio dei coloni italiani.
Col tempo emerge, però, una tensione: l’imposizione coercitiva di politiche ambientali finalizzate all’aumento dei margini di profitto di un territorio è avversata fino a quando, in una fase successiva, non viene assunta in nome della messa a valore di quello stesso territorio attraverso l’incremento del turismo.

La complessa relazione tra lo sfruttamento delle risorse in nome del profitto e la consapevolezza che tale modello può rivelarsi, sul lungo periodo, nocivo per quelle stesse popolazioni che lo hanno accettato – o subito forzatamente – in nome della necessità di lavorare è il nesso tra molti saggi presenti in questo numero: una contraddizione, quella tra (tutela della) salute e (necessità di) lavoro, che del resto costituisce i poli di un ricatto che il movimento operaio subisce da decenni e che, più in generale, colpisce le classi sociali più fragili (Barca 2011a, 2011b e 2019; Alier 2009). È il caso, per esempio, dei “conflitti a bassa intensità” individuati da Cecilia Pasini nella Lomellina, dove la presenza del petrolchimico Eni ha prodotto una dipendenza economica e sociale del territorio dall’azienda, che ha reso molto difficile l’articolazione di un movimento rilevante contro le nocività.
Un presupposto simile può essere individuato anche nello Zoom di Giulia Malavasi, incentrato sull’opposizione al petrolchimico di Manfredonia tra gli anni settanta e novanta. Anche qui il ricatto occupazionale ha ostacolato la costruzione di un discorso pubblico sull’incompatibilità tra lo stabilimento e la salute della comunità locale, almeno fino alla nascita del Movimento cittadino donne di Manfredonia. Il ruolo delle donne in questo contesto ha costituito infatti il motore fondamentale nella costruzione di una resistenza al progressivo sacrificio della città sull’altare dello sviluppo industriale e della sua eredità tossica.

La contrapposizione frontale tra lavoro e salute è anche al centro dell’Intervento di Salvatore Romeo, che ricostruisce la parabola del movimento ambientalista contro l’ex Ilva di Taranto negli ultimi dieci anni. I lavoratori e le lavoratrici del siderurgico hanno infatti maturato una diffusa consapevolezza dei rischi a cui sono esposti, rilanciando in diverse occasioni le proposte che vedono la soluzione più auspicabile nella dismissione dell’impianto, che era stato la più grande acciaieria d’Europa.
Al rigetto del ricatto tra salute e occupazione è corrisposta l’assoluta inadeguatezza delle forze politiche, che non sono state in grado di articolare un piano di sviluppo per Taranto che andasse incontro alle proposte avanzate dalla cittadinanza.

La consapevolezza che il lavoro salariato, così come declinato all’interno dei rapporti di produzione capitalistici, non può prescindere da una dinamica di sfruttamento all’interno della quale è compresa anche la biosfera è un’altra importante riflessione che fa da sostegno teorico a questo numero (Barca e Leonardi 2018; Leonardi 2017).
Durante la sua gestazione, infatti, avevamo ancora impresse le immagini del lockdown vissuto tra marzo e giugno 2020, quando la prima, incontrollata, ondata di contagi costrinse molti governi a decretare la cessazione immediata delle attività produttive ritenute «non essenziali».
La richiesta arrivò in prima battuta dal mondo della sanità, consapevole dell’impossibilità di affrontare l’emergenza in mancanza di mezzi adeguati, al quale si aggiunsero ben presto le lavoratrici e i lavoratori del comparto industriale e di quello logistico.
Coloro che si trovavano costretti a recarsi sul posto di lavoro senza la benché minima tutela sanitaria, infatti, nel marzo 2020, attraverso un’ondata di scioperi spontanei, espressero la volontà di interrompere qualsiasi tipo di attività 1. Ciò avvenne in aperta contestazione alle indicazioni di Confindustria, che nei giorni precedenti aveva affermato che fosse «indispensabile la necessità di tenere aperte le aziende» 2, palesando così la mancata risoluzione della contraddizione tra lavoro e salute che sottostà a molte lotte operaie degli ultimi cinquant’anni.

In questa recente vicenda, si sente l’eredità virtuale – di cui ci parla Marie Thirion – del Comitato operaio al petrolchimico di Porto Marghera, che negli anni settanta articolò una riflessione che univa il rifiuto della «monetizzazione del rischio» al rifiuto operaista del lavoro.
La nocività, in questo senso, era rappresentata tanto dall’ambiente lavorativo in sé quanto dal sistema di sfruttamento capitalistico che definiva l’organizzazione del tempo di lavoro interno alla fabbrica.
Analoghe risonanze si avvertono nell’intervento politico dell’autonomia operaia all’interno del movimento antinucleare tra anni settanta e ottanta. Eugenio Tradardi ci spiega, infatti, come l’interpretazione della questione ecologica all’interno del paradigma della lotta di classe prese le mosse dal rifiuto delle produzioni nocive a tutela della salute operaia e, successivamente, avversò il ricorso al nucleare in quanto passaggio fondamentale della ristrutturazione capitalistica.
Un dibattito che, ricorda Gianluca Pittavino nell’articolata recensione che chiude il numero, il celebre libro di Dario Paccino, L’imbroglio ecologico (1972), recentemente riedito, articolava attorno a una durissima critica dell’ecologismo incapace di fare i conti con la materialità della composizione di classe.
Una posizione per certi versi analoga a quella adottata più di recente dal geografo anarchico francese Philippe Pelletier nel suo provocatorio j’accuse contro i nuovi movimenti per la giustizia climatica (2021). Senza un radicamento nella riproduzione della vita umana – ci ammoniscono, da prospettive diverse, entrambi – qualunque discorso a salvaguardia dell’ambiente rischia di rimanere aleatorio, se non addirittura strumentalizzabile da quelle stesse istanze, ostili e predatorie, che le soggettività e le realtà raccontate in questo numero hanno sfidato e contro cui tuttora occorre lottare.

 

*  L’Archivio dei movimenti sociali - 14 dicembre è composto da Luca Miotto, Giulia Novaro, Marcello Nuccio, Anna Quintelli e Tommaso Rebora.
** Foto di Manuele Marraccini e Melissa Mariotti


Zapruder 58 - Ambienti ostili



Indice n. 58 (mag-ago 2022)

EDITORIALE

ZOOM

LE IMMAGINI

SCHEGGE

LUOGHI

IN CANTIERE

LA RICERCA CHE NON C’È

VOCI

COMICZ

RI-VISTE

INTERVENTI

RECENSIONI


Note: 

1) Cillis, L., Emergenza coronavirus, la rabbia nelle fabbriche aperte. Scioperi spontanei: “Non siamo carne da macello”, 12 marzo 2020, https://www.repubblica.it/economia/2020/03/12/news/ fabbriche_scioperi_coronavirus-251055353/.
2) Comunicato stampa di Confindustria Lombardia - 11 marzo 2020, https://confindustria.lombardia.it/comunicazione/ comunicati-stampa-e-dichiarazioni/coronavirus-autoregolamentazione-e-continuita-produttiva.


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(2009) Ricerche filosofiche
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Tutti i link di questo articolo si intendono consultati l’ultima volta il 5 marzo 2022.


 

07 settembre 2023 (pubblicato qui il 10 settembre 2023)