Quando mi viene chiesto del sistema alimentare egemonico, di solito comincio col dire che non lo classificherei come “alimentare” perché non è progettato per produrre alimenti, ma per produrre denaro e concentrarlo in sempre meno mani. Basta vedere il sistema agroindustriale dominante, che nella nostra regione possiamo chiamare agroalimentare transgenico, per confermare che questo sistema non produce alimenti.
Pertanto, la prima parte dell'Atlante caratterizzerà questo modello che dà priorità alla produzione su larga scala di poche monocolture, sotto forma di commodities, destinate principalmente all'esportazione, sulla base di alcuni pacchetti tecnologici dominanti. Nei nostri paesi, la base è un pacchetto di transgenici, agrochimici e fertilizzanti sintetici che produce materie prime e non ha lo scopo di sfamare nessuno, ma piuttosto di produrre cereali per le aziende. Se ciò è redditizio per riempire i serbatoi di nafta attraverso gli agrocarburanti, allora finirà lì; se serve per ingrassare bovini provenienti da altri mercati, allora verrà utilizzato per quello. Ma non è progettato con la logica della produzione di alimenti.
La seconda parte ha a che fare con il fatto che questi pacchetti tecnologici dominanti hanno conseguenze devastanti nei territori e nel
Cono Sud è cosa che si sa assai bene. È un modello che ha moltiplicato esponenzialmente l'uso di agrofarmaci, che ha generato e continua a generare malattie sia nelle campagne che nelle città, che produce l'esodo dell'agricoltura familiare contadina e indigena, oltre a provocare sgomberi forzati di piccoli e medi produttori, che su questa scala non possono competere e che, quindi, sono destinati a scomparire. Non dobbiamo dimenticare che queste migrazioni interne sono violente, generano conflitti per la terra, oltre che mettere a repentaglio la vita di compagne e compagni delle comunità contadine e delle popolazioni autoctone. Questi gruppi resistono e difendono il territorio da questa avanzata del modello dominante, delle filiere agroalimentari che arrivano a bramare queste terre come mero bene finanziario, affrancato alla speculazione estrattivista legata alla produzione di commodities.
Allo stesso tempo, questo sistema agroindustriale ha distrutto foreste, giungle e zone umide, con tutto ciò che ciò comporta in termini di distruzione della biodiversità, flora, fauna, nonché la distruzione della capacità di tenere sotto controllo l'umidità e, infine, vale la pena ricordare che l'altro lato di tutto questo è la siccità. Non è un caso che si alternino cicli di inondazioni, con tutte le conseguenze umane, materiali che ciò può generare nei territori, a cicli molto gravi di siccità, che danno origine ad incendi. E molti di questi incendi sono tra l'altro agevolati o alimentati al fine di continuare a espandere la frontiera agricola estrattivista. A sua volta, ciò provoca anche la distruzione degli impollinatori e, dall'altra parte, è necessario aggiungere ed evidenziare il ruolo dell'agricoltura industriale come principale causa di emissioni di gas serra, ineludibile responsabile dell'attuale crisi climatica. Se analizziamo il sistema agroindustriale nel suo insieme, è chiaro che esso altera la possibilità di continuare a produrre cibo con sistemi alimentari resilienti nei diversi territori e che è un sistema che avanza nella privatizzazione di tutto: semi, acqua, i saperi e gli stessi alimenti. Per tutti questi motivi, non esitiamo a qualificarlo come un modello ecocida, che genera danni agli ecosistemi da cui dipendono tutte le forme di vita e che produce un lento, inesorabile genocidio. È un modello che sottopone i nostri popoli a condizioni di vita che li fanno ammalare e li uccidono attraverso gli agrofarmaci irrorati nei campi, e che non esaurisce lì la sua azione: produce anche malattie e morte attraverso i beni commestibili che questo modello pone sulle nostre tavole e attraverso le malattie trasmissibili associate alla produzione industriale di carne. Dobbiamo
tenere presente che, nello stesso tempo, tutte queste attività sono un terreno fertile per zoonosi di ogni tipo, basta guardare e pensare in questo contesto – anche oggi – alla pandemia globale di coronavirus, per capire l'impatto che questo modello genera sui popoli e sul pianeta. Senza dubbio, è un modello agroindustriale che degrada il sistema immunitario. Ed è anche un modello imposto dalle forze del capitale, dall'alto verso il basso, facendo tabula rasa dei diritti umani più elementari che trova sul suo cammino.
Vediamo anche un'alta concentrazione nella catena di distribuzione ed è, senza dubbio alcuno, una dinamica globale. Tra i tanti produttori e relativi convitati, ci sono pochi attori che fanno gli intermediari, quelli che lucrano e quelli che si prendono gran parte della torta. Quindi si paga sempre meno il produttore, si fa pagare sempre di più a noi, per massimizzare il loro margine di guadagno. Il grande vincitore di questa catena è l'industria alimentare, che è altamente concentrata e, attraverso soprattutto il modello della grande distribuzione – cioè i grandi supermercati e ipermercati – aumenta i suoi profitti in modo sempre più esponenziale.
Parliamo infine di un consumo dominante di alimentri, in cui questi ultimi sono stati trasformati in mera merce, lasciati ai giochi della domanda e dell'offerta nelle economie di mercato capitaliste. Ma è un mercato in cui dominano tutte le distorsioni esistenti e future della libera concorrenza: dove spiccano monopoli e oligopoli, grandi attori che controllano quei sistemi agroindustriali che modellano i modelli di consumo alla ricerca della loro standardizzazione e omogeneizzazione. Spazzare le gastronomie locali, distruggere le culture alimentari alla ricerca di quella standardizzazione o omogeneizzazione in cui prevale un consumo crescente, sempre crescente, del prodotto protagonista di questo modello, che è l'ultra-lavorazione: la materia prima prodotta su larga scala da un pugno di corporazioni, a cui l'industria alimentare aggiungerà la più alta quantità possibile di zucchero, sale e additivi chimici, per creare quell'illusione di diversità, per renderli ricchi, durevoli, deliberatamente generatori di dipendenza. I prodotti ultralavorati vanno molto bene solo per gli azionisti dell'industria alimentare, perché è lì che trovano il loro maggior margine di guadagno; ma sono terribili per le persone che li mangiano, perché sono chiaramente associati alla pandemia globale di sovrappeso, obesità e malattie croniche non trasmissibili associate, come il diabete Tipo II e l'ipertensione.
I Big Five
È un modello agroindustriale dominante in termini di produzione, distribuzione e consumo che è essenzialmente capitalista, che vede il cibo come una mera merce e che ha una produzione dominante, una distribuzione dominante e un consumo dominante.
Questo modello avvantaggia chiaramente una manciata di società transnazionali molto forti e interrelazionate. Tutta la produzione di semi oleosi e cereali, a livello mondiale, è concentrata in cinque multinazionali, le famose “Big Five”: Cargill, ADM, Dreyfus, Bunge e Cofco. Sono responsabili della commercializzazione globale di cereali e semi oleosi, sia in Senegal che in Argentina. Nel settore alimentare si parla di dieci multinazionali globali che svolgono il compito di trasformare le materie prime prodotte su scala, per generare l'illusione di una diversità del super-elaborato e inondando i mercati con gli stessi marchi in Asia, Europa e America Latina. È
presente anche l'industria farmaceutica, legata all'industria chimica e all'industria delle sementi, dove quattro multinazionali monopolizzano la vendita di sementi commerciali, i transgenici e i prodotti agrochimici. L'esempio più chiaro è la Bayer-Monsanto, che vende glifosato e anche farmaci antitumorali.
E dietro a tutto questo ci sono i fondi di investimento e le banche, che speculano e finanziano tutti gli anelli di questo sistema agroindustriale. Società puramente speculative, che vedono la terra e le sementi come meri assets finanziari, come semplici oggetti di speculazione.
In breve, è il fulcro del capitalismo globale, fortemente concentrato e interrelazionato, vincendo in ognuno degli anelli di questo sistema agroindustriale dominante. Da quel potere concentrato, espandono le loro ramificazioni su altre aree di influenza: nei governi di qualsiasi segno politico, nei media, nella scienza, nel mondo accademico; configurandolo intorno ai propri interessi.
Non c'è dubbio che è un modello che fa ammalare, uccide, che distrugge i beni comuni naturali, che genera povertà e che non solo non può sfamare le persone, ma genera anche malnutrizione, sovrappeso e obesità.
Di fronte a questo modello dominante, la prima cosa che dovremmo sapere è che non esiste una via d'uscita individuale. L'unica via d'uscita possibile che vediamo è collettiva. Il nostro paradigma – la sovranità alimentare – è un invito a costruire altre epistemologie, legate al buon vivere, legate ad altri modi di concepire il nostro posto in questa casa comune, in armonia con la natura. L'alimentazione - per la sovranità alimentare - non è una merce come un'altra, lasciata ai giochi della domanda e dell'offerta, ma un vero diritto umano che deve essere riconosciuto dallo Stato, che deve garantire a tutti i livelli e quindi non può essere governato dalla logica del mercato. Abbiamo bisogno di nutrirci per vivere, per condurre una vita dignitosa, sana e, per questo, lo Stato deve organizzare l'aparato di governo e, in generale, il sistema agroalimentare, per garantire che tutti noi siamo adeguatamente nutriti, e avere accesso regolare, permanente e gratuito all'alimentazione quantitativamente, qualitativamente e culturalmente adeguata.
* Marcos Ezequiel Filardi è un avvocato per i diritti umani e la sovranità alimentare. È membro della Cattedra libera di sovranità alimentare della Scuola di nutrizione dell'Università di Buenos Aires, del Museo della fame, della Rete degli avvocati per la sovranità alimentare e dell'Unione degli scienziati impegnati per la società e la natura in America Latina (UCCSNAL ).
** Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network
Atlas de los Sistemas Alimentarios del Cono Sur
Patricia Lizarraga, Jorge Pereira Filho
Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Fundación Rosa Luxemburgo, 2022 - 98 pp.
