Paola Romero Niño, coordinatrice dell'organizzazione FIAN Colombia, è un'attivista femminista per il diritto all'alimentazione. Riflette sull'accesso al cibo, sul ruolo delle donne e sulle proposte comunitarie per contrastare il modello imprenditoriale di produzione alimentare. "È possibile realizzare un cambiamento radicale in termini di potere popolare alimentare", afferma.
Paola Romero Niño è la coordinatrice di FIAN Colombia, specializzata in genere, femminismi e sovranità alimentare. È autrice di diversi lavori sulle donne e l'accesso al diritto all'alimentazione. È membro del gruppo femminista Meccanismo per le Relazioni tra la Società Civile e i Popoli Indigeni del Comitato delle Nazioni Unite per la Sicurezza Alimentare (CFS). "Sono una madre adolescente, vendevo artigianato per strada e ho vissuto in condizioni di precarietà difficili. Questo mi ha resa
molto consapevole delle condizioni in cui le persone hanno accesso al cibo", racconta.
Durante gli studi presso l'Università Nazionale della Colombia, ha svolto uno stage presso la Campaña por el Derecho a la Alimentación, sempre in Colombia. È così che ha iniziato il suo percorso a sostegno del diritto a un'alimentazione e nutrizione adeguate.
"Sono figlia di una madre single, con molte sorelle, e credo che il femminismo sia da sempre dentro di me. Sono riuscita a unirlo al diritto al cibo", riflette. Riflette sulla situazione attuale del diritto all'alimentazione in America Latina, sulla resistenza delle donne di fronte alla fame e al sistema di alimentazione industriale, nonché sul potere popolare per cui si adoperano le comunità. Offre il suo punto di vista sulle politiche dell'amministrazione di Gustavo Petro, come i Territori Agricoli Contadini, e sul percorso verso la riforma agraria nel suo paese.
Dal Covid all'attualità
— Quale impatto ha avuto la pandemia sull’accesso al diritto alll'alimentazione in America Latina?
— In America Latina e nei Caraibi, il COVID-19 ha rappresentato una situazione molto critica perché ha innescato un'ondata di fame in varie città, soprattutto nelle periferie. La situazione era drammatica e il processo di ripresa è stato molto difficile. Esistono dati, soprattutto nelle indagini sull'uso del tempo e sul lavoro di assistenza non retribuito, che evidenziano la situazione delle donne in quel periodo. Povertà e disoccupazione erano molto più elevate tra le donne che tra gli uomini, e le famiglie con a capo una donna erano le più insicure dal punto di vista alimentare. E questo ha avuto un impatto molto significativo perché queste famiglie sono molto diffuse nella regione e generano condizioni di povertà per le generazioni future che sono più difficili da superare. C'è stato un sovraccarico, e questo ha generato anche una crisi di assistenza, perché le donne sono state oberate dalla cura dei loro figli, ma anche dall'assistenza domiciliare e, durante la pandemia, dalla necessità di produrre e distribuire cibo e di procurarselo per le proprie case.
— Come sono sopravvissute le comunità?
— Proteggendo approcci autonomi di produzione alimentare. Ad esempio, in Colombia e in altri paesi, le comunità che producevano alimenti sono riuscite ad avere condizioni migliori, anche per le donne, perché non c'era sovraffollamento, non ci sono state situazioni di crisi e di fame. Credo che questo ci abbia dato una grande lezione in America Latina e nel mondo: riflettere su quali siano i lavori vitali, quelli che realmente riproducono e sostengono la vita delle comunità. In America Latina, c'è un significativo processo di comunità contadine, agricole e di pescatori che sono riuscite a sviluppare determinati sistemi economici autonomi e a far fronte alla situazione. Ma l'impatto è stato molto significativo.

— Quali differenze esistono tra gli ambiti rurali e urbani per quanto riguarda le possibilità di lottare per il diritto umano a un'alimentazione adeguata?
— Nelle aree urbane, l'accesso a un'alimentazione reale è molto difficile perché ci si trova di fronte a una grande offerta di alimenti ultra-processati. Lì, l'insicurezza alimentare potrebbe non avere un impatto così importante in termini di deficit, ma piuttosto in termini di produzione di malattie croniche non trasmissibili causate dal consumo di questi prodotti, come l'obesità e il sovrappeso. Nelle città, esiste una diversità di marche, ma non di alimenti che provengono dalla natura, dalla diversità alimentare. Nelle aree rurali, invece, si verificano situazioni molto difficili per quanto riguarda le infrastrutture, l'accesso, il basso sostegno ai sussidi per i contadini e l'accesso limitato alla titolarità delle terre. Nelle campagne, c'è fame, ma in un modo o in un'altro, si arriva a ciò che viene prodotto dalla terra, e questo consente altri modi di vivere e di nutrirci direttamente con cibo vero, con circuiti ristretti. Tuttavia, stiamo ora assistendo al fatto che la dieta industriale si sta affermando in diverse aree rurali perché anche le campagne si stanno specializzando, si stanno producendo grandi monocolture e si sta verificando una perdita di biodiversità alimentare. Questo sta cambiando i modelli di consumo e di dieta nelle comunità.
— Per esempio?
— Dove ci sono grandi piantagioni monocolturali di palma africana o canna da zucchero, come nella Valle del Cauca (Colombia), ci sono grandi zuccherifici che producono lo zucchero per bevande zuccherate. E le comunità vengono sgomberate dai grandi proprietari terrieri. Gli zuccherifici appartengono a persone con molto denaro, molto potere e vaste aree di terra, della migliore. Questa produzione richiede anche una grande quantità di prodotti agrochimici, e questo ha un impatto sulla produzione alimentare delle varie comunità che circondano questi territori. Questo impatto è molto forte e le relazioni sociali e comunitarie hanno un processo di frammentazione. Ma c'è un esempio molto bello: i Corridoi Afro-Alimentari, che resistono agli impatti negativi degli zuccherifici. Di fronte all'omogeneizzazione dei semi, conservano e scambiano semi autoctoni. Stanno resistendo alla dieta omogeneizzante con le proprie pratiche e usanze.
Territorio, imprese e risposte dal basso
— Come e quanto la concentrazione delle terre e gli sgomberi colpiscono le popolazioni?
— In America Latina, c'è una grande privatizzazione della terra come commodity da parte di chiese o imprese. I proprietari di queste terre sono pochi e generano ricchezza per altri che non vediamo nemmeno sul territorio. Sgomberano le persone, e questo ha un impatto enorme sulla sfera alimentare e ambientale. Ad esempio, c'è un impatto enorme dell'allevamento intensivo di bovini nella regione amazzonica, o della monocoltura della soia. Questo ha un impatto perché l'equilibrio amazzonico è fondamentale nella regione andina: l'Amazzonia è ciò che irriga le regioni andine per la produzione alimentare. Se questo equilibrio viene perso, non c'è produzione alimentare.
— Quali azioni pensi che le comunità dovrebbero intraprendere per contrastare l'acquisizione del controllo dei sistemi alimentari da parte delle imprese?
— L'agroecologia è una gran risposta politica, scientifica, tecnica e organizzativa al mantenimento di sistemi alimentari equilibrati. E ha anche generato autonomia nelle comunità. Esistono molti processi, come le cooperative o le piccole comunità, che hanno generato relazioni di pianificazione con la terra e la sua gestione economica. Hanno la capacità autonoma di produrre alimenti e di relazionarsi con lo Stato, ma non attraverso l'assistenzialismo, bensì come agenti politici delle decisioni riguardanti il loro territorio. E penso che sia molto importante pensare a processi si istituzionalizzano nei diversi territori, che ottengono il riconoscimento governativo e che costituiscono un governo nei territori. In America Latina e nei Caraibi, abbiamo i processi dei consigli comunitari o dei popoli quilombola in Brasile, delle comunità afro-colombiane che hanno raggiunto processi di produzione alimentare autonomi, delle comunità indigene e contadine. Esistono molte iniziative territoriali che possono darci indizi su come generare cambiamenti nei sistemi alimentari. Dobbiamo tornare a queste pratiche. È possibile realizzare un cambiamento trasformativo in termini di governance alimentare popolare, di potere popolare alimentare.
— Alla FIAN, lavorate con il concetto di "potere popolare alimentare". Come lo definireste?
—È una pratica politica emancipatoria, un esercizio a partire dal corpo-territorio che permette di generare le condizioni di potere per decidere del proprio territorio e del modo in cui ci si alimenta. È un elemento fondamentale della sovranità alimentare e del diritto umano all'alimentazione. Il potere popolare alimentare è il modo in cui le persone esercitano il potere attorno al cibo, e ciò implica la pianificazione di conoscenze tecniche e politiche: implica l'aggregazione e la comunità. L'aggregazione è il modo in cui ci riuniamo, ci esprimiamo e ci relazioniamo per confrontarci o per sostenerci. E questo potere popolare alimentare implica anche un esercizio di pensiero di classe, di base, che proviene dal basso, dalla gente comune, urbana, rurale, da ogni luogo, e che permette di generare esercizi di trasformazione quotidiana contro certi poteri che stanno danneggiando in maniera invisibile, a volte molto sottili, ma a volte anche molto evidenti.
Le pratiche di cura, chiavi del diritto al cibo
— Nel mondo le donne producono una grande quantità di alimenti, ma sono il 70% delle persone che soffrono la fame, secondo le Nazioni Unite. Qual è la ragione di questa situazione?
— A un regime patriarcale imprenditoriale. Il processo alimentare è incrociato da molteplici forme di potere, e una di queste è proprio quella patriarcale, che ha un impatto enorme a causa della divisione sessuale del lavoro, in cui le donne sono responsabili della produzione e della distribuzione del cibo. Dal seme al piatto, c'è energia vitale: c'è un lavoro che le donne svolgono che non è riconosciuto. Sono loro a soffrire di maggiore insicurezza alimentare, soprattutto le donne vittime del razzismo, le donne povere.
— Quali immaginari sessisti incidono in tutto ciò?
— Ci sono cose concrete che si possono osservare nelle case, come la logica di dare priorità agli uomini. In molti luoghi, le donne affermano che le loro nonne davano la porzione di proteine più grande all'uomo, al marito, e che loro mangiavano meno proteine, meno verdure, o che venivano serviti prima gli uomini, non i bambini o le bambine. C'è una geopolitica del piatto in
casa che è patriarcale. Nella logica del lavoro, questo lavoro di trasformazione del cibo, che non è né riconosciuto né sostenuto, priva le donne dell'opportunità di sviluppare altri progetti di vita, altre autonomie. Questo influisce anche sulla salute delle donne: tendono a essere più obese, più sovrappeso e anche più inclini all'anoressia o alla bulimia, a causa di modelli sessisti che che riguardano ciò che consumiamo e lo stereotipo tradizionale di ciò che è essere una bella donna.
— In che modo le pratiche di cura si relazionano con il diritto all'alimentazione?
— Le donne afroamericane ci ricordano spesso che esiste un rapporto intimo tra cura e nutrimento, ad esempio, fin dal momento in cui siamo nel grembo materno. Stiamo parlando di relazioni estremamente intime, che appartengono alle donne, ma che a volte naturalizziamo, dimenticando le condizioni che queste relazioni richiedono. Quali sono le condizioni che una persona che allatta, una persona che si prende cura di qualcuno, deve soddisfare per lo sviluppo dignitoso di questa situazione? Dobbiamo riconoscere socialmente questo lavoro; dobbiamo ridistribuire il lavoro di cura. Nei sistemi di misurazione del tempo che misurano il tempo dedicato al lavoro di cura, è evidente che l'attività che richiede più tempo è la distribuzione del cibo. E chi lo fa in misura maggiore, secondo queste indagini, sono le donne. E se si distribuisce, ci saranno condizioni migliori nelle famiglie e nelle comunità. La cura del cibo include la protezione della vita, delle piante, dei semi, e questo non viene preso in considerazione quando si misura la "distribuzione del cibo", come se distribuire cibo fosse semplicemente distribuire cibo. Ci sono relazioni d'amore, un trasferimento generazionale di conoscenze che preservano la biodiversità del pianeta, e questi sono compiti che anche le donne svolgono. Nei Corridoi Afro-Alimentari, le donne sono riuscite a salvare semi autoctoni, a mantenere pratiche culinarie ancestrali, a impegnarsi nella resistenza e a generare biodiversità. Esiste un'enorme relazione tra cibo e cura, che implica anche la cura dei beni comuni.
— Come possiamo sostenere questo programma o queste lotte in un contesto in cui il discorso anti-genere e razzista è in aumento?
È una grande sfida. C'è un avanzamento di progetti politici che vogliono negare il potere delle donne diverse e il potere dei popoli. Ma con il fatto di volerli cancellare, ne riconoscono il potenziale emancipatorio. Vedono un pericolo. E penso che dobbiamo mantenere una visione molto ampia delle alleanze, di processi politici diversi e ampi, di creazione di condizioni per l'unità e l'articolazione strategica. C'è una situazione di crisi multiple che può essere affrontata solo con prospettive sistemiche. Dobbiamo rispondere con la forza e il potenziale di quella diversità, una diversità non solo in termini di oppressione e vulnerabilità, ma anche di potenziale politico emancipato. Questo si genera attraverso le pratiche, attraverso il riconoscimento, attraverso la solidarietà e attraverso la pratica dell'assistenza organizzata.
"La chiave è mobilitare, avere coscienza e formare le nuove generazioni"
— In termini di incidenza politica, come possiamo rendere applicabile il diritto a un'alimentazione e ad una nutrizione adeguate?
— L'applicabilità inizia con l'esercizio di determinate condizioni di consapevolezza politica che consentono di riaffermare gli obiettivi che si hanno come organizzazione, come comunità, e come intendiamo rendere tale applicabilità sociale,
politica e legale. Uno degli aspetti fondamentali è la formazione: sapere cosa sta succedendo nel proprio territorio per sapere esattamente come esigere dai governi e quali strategie sono disponibili per la difesa del diritto umano all'alimentazione e della sovranità alimentare. La sovranità alimentare come diritto umano sta ricevendo il suo quadro giuridico attraverso la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Contadini, ed è importante essere in grado di attuarla nei paesi e, a tal fine, fornire strumenti di garanzia ai titolari di diritti. La chiave è mobilitare, essere consapevoli ed educare le nuove generazioni. Non è possibile parlare di applicabilità senza pensare alle generazioni future: non è possibile parlare di applicabilità senza pensare al rapporto e all'interdipendenza con la natura, senza pensare a quegli altri ambiti della vita che ci permettono di alimentarci.
— Quali sono le sfide del Meccanismo della Società Civile e i Popoli Indigeni presso il Consiglio per la Sicurezza Alimentare delle Nazioni Unite?
— Una sfida enorme è riconoscere le condizioni per la partecipazione politica. C'è una crisi e una frammentazione da parte della FAO nel sostenere il meccanismo in termini di bilancio e in termini di spazio. È molto difficile generare risorse specifiche per garantire la partecipazione della società civile e delle popolazioni indigene. C'è un elemento chiave qui, che è la questione delle risorse economiche, e questo è vincolato alla volontà politica. La resistenza e la costruzione politica in atto sono costanti: credo che questo contribuisca a mantenere vivo questo meccanismo. Ma la conquista da parte delle imprese degli spazi di governance globale è la sfida più grande, perché le decisioni vengono prese da coloro che violano anche il diritto all'alimentazione e creano difficoltà alla società civile e alle popolazioni indigene di partecipare in condizioni di parità. Alcuni sostengono che per ragioni di democrazia sia importante la presenza di questi attori imprenditoriali e che debbano essere ascoltati, ma non saranno mai nelle stesse condizioni della società civile organizzata, che sta essendo attaccata da questo tipo di attori. Forse anche questo equilibrio di potere deve essere ripensato.
Democrazia, sì. Ma quale democrazia? Quali condizioni stiamo ponendo agli attori che hanno un peso politico e che hanno la possibilità di partecipare realmente?
La Colombia oggi
— Qual è la sua opinione sulle Aree di Protezione per la Produzione Alimentare in Colombia, la politica del Presidente Gustavo Petro volta a regolamentare territorialmente la produzione alimentare?
— Le aree di protezione sono una scommessa dell'attuale governo e un modo per articolare i processi istituzionali volti a organizzare la produzione alimentare, sulla base della comprensione della situazione attuale e di come si produce nel territorio. Pensare e pianificare il territorio dal punto di vista della produzione cambia completamente la prospettiva, generando persino un diverso tipo di territorialità. Ma presenta le sue difficoltà. L'istituzionalizzazione delle pratiche all'interno delle forme di governo statali crea tensioni con l'autonomia dei territori. Non è così facile, ma penso che sia un ottimo tentativo di pensare a queste iniziative dalla prospettiva del territorio. E le soluzioni vengono fuori anche dai conflitti.
— Quali sono le prospettive in Colombia per la Seconda Conferenza Internazionale sulla Riforma Agraria e lo Sviluppo Rurale?
— C'è grande attesa perché il governo colombiano si è impegnato nella riforma agraria. Molte politiche di riforma agraria sono in fase di attuazione, e questo è molto importante in un paese in cui la concentrazione di terre è pazzesca. Ci sono molti ostacoli, molte difficoltà, ma c'è un impegno molto forte e concreto per la riforma agraria. C'è grande aspettativa riguardo a come impostare la questione della riforma agraria nel paese e a livello globale. Credo che la Colombia voglia avere un ruolo- guida, in questo processo.
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Questa intervista fa parte della copertura collaborativa dell'Agenzia Tierra Viva e Huerquen Comunicación del Seminario "Il futuro del nostro cibo" tenutosi a Buenos Aires il 13 e 14 giugno 2025 e organizzato dalla Oficina Cono Sur de la Fundación Rosa Luxemburgo (FRL) insieme al Centro de Estudios Legales y Sociales (CELS), il Movimiento Nacional Campesino e Indígena – Somos Tierra (MNCI-ST) e il Grupo ETC.
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* Traduzione Giorgio Tinelli per Ecor.Network