ARGENTINA

Più agroecologia, meno popoli fumigati

di Lautaro Romero

A La Matanza gli abitanti lottano contro le malattie causate dalle fumigazioni sui campi della zona. Nel frattempo, a pochi chilometri di distanza, un'esperienza autogestita dimostra che è possibile produrre cibo di qualità senza prodotti agrochimici.

Qualche anno fa Erika Gebel e la sua famiglia decisero di trasferirsi in una zona rurale, aperta, lontana ma allo stesso tempo vicina alla grande metropoli, alla ricerca di aria fresca e di una migliore qualità della vita.

Avevano riposto il loro futuro a Virrey del Pino - periferia di La Matanza, uno dei comuni più popolati del paese. Credevano che lì avrebbero trovato tranquillità e benessere, che avrebbero ritrovato il contatto con la terra e la natura, che avrebbero avuto spazio sufficiente per coltivare un orto e produrre alimenti propri, sani e sicuri.

L'esperienza non è stata quella sperata, anche se all'inizio non se ne erano accorti. "Avevo un orto e pensavo di mangiare sano, ora mi rendo conto che è stato fumigato. Inoltre è diventata un'abitudine per me vedere un uomo su un trattore che lavorava in un campo, a pochi metri da casa mia, senza maschera protettiva. Pensavamo che stesse annaffiando le piante, ci hanno detto che era concime. Abbiamo persino naturalizzato l'odore, il mal di testa, il bruciore alla gola e il prurito agli occhi. Le allergie, le visite in ospedale, la diarrea, il vomito e i problemi respiratori", racconta Erika ricordando ancora, con tristezza, quei quattro mesi costretta a letto, senza forze, senza poter camminare a causa di un insopportabile dolore alla schiena.

Non avrebbero mai immaginato che la causa di tanta sofferenza nel quartiere Nicole fosse legata ai pesticidi - glifosato tra gli altri - spruzzati sul quel campo di soia transgenica di circa 300 ettari.

Quando Erika e la sua famiglia si sono alla fine rivolti alla medicina e hanno visto i risultati dei primi test sulla ricerca di pesticidi, hanno capito con cosa avevano a che fare: glifosato nel sangue. Le loro vite sono andate in pezzi. Con il passare del tempo hanno scoperto che non erano gli unici, che nel quartiere c'erano centinaia di persone infettate. L'avvelenamento si è diffuso rapidamente. Gli stessi sintomi. Gli stessi dolori.

"La gente pensa che questo sia l'unico modello possibile. Qui dobbiamo cambiare il modello e puntare sull'agroecologia", sostiene Erika che è panettiera e insegna yoga. "Nei quartieri l'acquisto di alimenti è un problema, sono di scarsa qualità e l'accesso ad alimenti agroecologici non è facile. È difficile sostenere una dieta sana per chi non ha soldi".
 

Un luogo dimenticato

Non appena scoperto che suo marito, uno dei suoi figli e forse anche lei stessa avevano il glifosato nel sangue Erika è uscita per annunciare al vicinato che erano tutti a rischio. Nell'ottobre 2021 gli abitanti hanno costituito l'Asamblea de Vecinos Envenenados por Glifosato La Matanza, per affrontare l'incuria e la mancanza di risposta da parte del municipio governato da Fernando Espinoza.

Alla fine dell'anno scorso hanno presentato una denuncia al comune di La Matanza, dove anche imprese come Klaukol e CEAMSE inquinano la terra e l'aria e dove da tempo si registrano morti silenziose. Di fronte a tanto sconcerto sono riusciti a ottenere un'ordinanza comunale che regolamenta la fumigazione di prodotti agrochimici tossici in tutta La Matanza. Erika spendeva fino a 10.000 pesos al mese per acquistare acqua minerale.

"Ci occupiamo anche delle indagini sulla salute, chiediamo ai vicini i loro nomi, dove vivono, quali sintomi hanno, quante persone vivono in ogni casa, se hanno malattie precedenti, da quanto tempo vivono lì", racconta Erika, mentre genera consapevolezza a partire dal territorio.
È l'assenza dello Stato nella sua massima espressione

"Esigiamo dal Ministero della Salute l'invio dei test", dice Gebel. "Loro chiedono prove che non ti danno, non mandano persone a fare i test, non vengono a testare l'acqua di casa mia e il terreno. Non so se mio figlio può giocare nel parco giochi. Quella del governo è una campagna di disinformazione. Nel quartiere potrebbero essere coinvolte centinaia di persone, molte delle quali vivono nella paura. Il quartiere non se ne andrà e il campo di soia non può stare lì".

Dallo scorso novembre non sono state effettuate fumigazioni nei campi di soia. Erika e la sua famiglia non soffrono più di quotidiani mal di testa, come in passato. Lo scorso maggio hanno interrotto la raccolta, mentre i risultati delle indagini sanitarie condotte dalla stessa organizzazione degli abitanti sono preoccupanti e indignano: si sono già presentati casi di cancro tra chi vive lì da più di cinque anni.

"Il veleno entra nella pianta, arriva alla radice e la uccide. Nell'uomo fa qualcosa di molto simile, entra nel corpo e si insinua nel midollo, nel cervello e nelle cellule. Si attacca alle proteine. Produce un'alterazione genetica, motivo per cui provoca malformazioni, aborti, cancro, diabete, ipertensione, ipertiroidismo", aggiunge Erika.

A 700 metri dal campo fumigato ci sono tre scuole: la Technical 13 (scuola secondaria), la 210 (scuola primaria) e un asilo infantile che ogni giorno, a Nicole, riuniscono circa 3.400 alunni. Un luogo dimenticato dove vengono messe a nudo le conseguenze di un modello vorace e di quello che gli esseri umani chiamano progresso: malattie, disuguaglianze, responsabilità ambientali, inquinamento e morti di cui nessuno vuole farsi carico.

"Dobbiamo riparare la terra, dare lavoro alle famiglie produttrici", precisa Erika. "La soia non ha risolto il problema della fame o della povertà. Perché ci siano più ricchi devono esserci più poveri. Se aumentano i campi a monocoltura, aumentano la deforestazione e i cambiamenti climatici. Più impatto sulla biodiversità, sulla flora e sulla fauna".
 

Agroecologia dal basso

Daniel Marcos proviene da una famiglia di agricoltori in cui l'allevamento e la produzione, nella loro piccola fattoria, erano cose di tutti i giorni. Ha vissuto tutte le fasi, la "mazzata" del dollaro e della soia. Ha visto come hanno irrorato il suo campo con il glifosato e come sono morti gli animali e tutti gli esseri viventi. Gli era stato detto che, in termini economici, questo modello avrebbe funzionato. Ha scoperto che non era vero e, prima di perdere ogni speranza, ha imparato a conoscere l'agroecologia.

Tutto è cambiato quando ha scoperto il grado di fertilità di queste terre, per lo più inattive, ai margini dell'agglomerato urbano di Buenos Aires. Daniel: "Qualsiasi terreno può essere recuperato attraverso queste pratiche. Può fornire alimenti, alloggio e reddito a una famiglia. Dobbiamo recuperare il mercato locale. È possibile farlo a breve termine attraverso cooperative, schemi associativi e processi di innovazione".

"La gente pensa che questo sia l'unico modello possibile.
Qui dobbiamo cambiare modello e puntare sull'agroecologia"

 

"Questo ci ha fatto spalancare gli occhi. Stiamo parlando di un sistema sostenibile, non complesso da implementare" spiega Daniel, del gruppo La Foresta, e prosegue " stiamo parlando di una piccola produzione che si trova in periferia e rifornisce le città e che ha un grado di diversità e di qualità dei suoi alimenti molto importante. Questo è alimento, il resto è cibo buono solo per essere masticato ma non nutre".

Afferma Daniel: "In crisi è il modello imposto negli anni Novanta, un modello che ha concentrato non solo la proprietà, ma anche il processo di produzione e persino la commercializzazione degli alimenti. Hanno fallito, non hanno garantito la sicurezza o la sovranità alimentare, né la qualità o i prezzi. C'è una lotta politica. La Legge sull'agricoltura familiare - che non è regolamentata - facilita lo sviluppo di questo settore come garante della sicurezza e della sovranità alimentare. È una follia gettare tonnellate di veleno sugli alimenti".

A pochi chilometri da questa cittadina fumigata, dall'altra parte della Strada Nazionale 3, c'è un campo che produce alimenti, non fa ammalare le persone e si oppone al sistema estrattivo e predatorio.

Agroecología La Foresta è un'esperienza concreta, dimostra che è possibile produrre alimenti locali di qualità senza l'uso di prodotti agrochimici. In questo campo, spazio per l'insegnamento, la pratica e il lavoro, le famiglie - circa 80 persone - dedicano il loro tempo al giardinaggio, all'incorporazione e alla trasmissione del sapere, alla semina e al raccolto eseguito con le mani.

Vendono frutta, verdura, piante aromatiche e medicinali, ortaggi, miele e frutta secca. Producono compost, piantine, biofertilizzanti e substrati organici. Seminano mais e grano, lo lavorano ottenendo diversi tipi di farina che in molti casi viene utilizzata nelle mense del quartiere. Producono anche carne di manzo e di maiale.

Tutto viene fatto senza diserbo, senza trattori. Senza veleno. Generano eccedenze che permettono loro di pensare non solo all'autoconsumo ma anche alla commercializzazione.

Parte della produzione viene offerta ai quartieri dell'agglomerato più densamente popolato, oltre che distribuita ai fruttivendoli e nei ristoranti. Il resto degli alimenti viene ripartito tra le famiglie produttrici. La Foresta - organizzazione che fa parte del Movimiento La Dignidad Rural e opera come cooperativa - partecipa spesso ai Verdurazos davanti al Congresso, dove i consumatori hanno accesso a ceste con una varietà di verdure a prezzi equi.
 

“Dimostriamo che il cibo può essere
prodotto dove vivono le persone.

Questo ti trasforma, è molto potente”

 

I movimenti sociali generano dapprima lavoro negli orti urbani, per poi passare a unità produttive più grandi, fino a 500 ettari. Pongono un'attenzione reale sul compostaggio dei rifiuti organici e sulla gestione integrale degli alimentari. Le diverse unità produttive costituiscono la cosiddetta zona produttiva, ad esempio quella di Matanza-Cañuelas.

Daniel Marcos ci racconta come funziona la dinamica: "Queste esperienze vengono riprodotte in diverse parti della provincia di Buenos Aires e del paese, da Avellaneda a La Plata, Bahía Blanca, Córdoba, Formosa, San Juan, produciamo alimenti persino a Caleta Olivia. È una produzione che richiede manodopera e un tipo di lavoro che non è quello che siamo abituati a vedere. Le giornate lavorative non sono molto lunghe. Qui le persone sono contente".

Daniel spiega che la novità di queste esperienze di produzione alimentare agroecologica sta nella partecipazione di lavoratori provenienti dalle periferie delle città che, in alcuni casi, lavorano per la prima volta nelle aree rurali o sono produttori in transizione verso l'agroecologia.

"Abbiamo capito che potevamo generare alti volumi di produzione", dice Marcos. "Abbiamo dimostrato che si può produrre cibo dove la gente vive. Questo ti trasforma, è molto potente. È un altro ritmo, c'è un altro rapporto con i cicli della natura, abbiamo molto da imparare. Bisogna armare un altro schema di produzione e di vita nel campo”.

 

*  Articolo tratto da Revista  - Originale in spagnolo qui  
** Traduzione di Marina Zenobio per Ecor.Network 


 

06 febbraio 2023 (pubblicato qui il 10 febbraio 2023)