Parte Seconda
Il Buen Vivir, una porta per uscire dal labirinto dello sviluppo
“Sumak Kawsay, tradotto letteralmente, sarebbe la vita in pienezza, l'eccellenza,
il meglio, il bello. Ma interpretato in termini politici, è la vita stessa, un mix di
lavoro e volontà politica che significa cambiamenti affinché alle persone
non manchi il pane quotidiano e affinché non ci siano disuguaglianze sociali
tra uomini e donne. Sumak Kawsay è il sogno non solo per i popoli indigeni,
ma per tutti gli esseri umani.”
(Blanquita Chancosa, leader kechwa ecuadoriana (2014)
Tutta l'umanità, non solo gli abitanti dei paesi impoveriti, si trova a un bivio. La promessa fatta più di cinque secoli fa, in nome del "progresso", e "riciclata" più di sette decenni fa, in nome dello "sviluppo", non è stata mantenuta. E non lo sarà. Pertanto, l'emergere di critiche allo "sviluppo" e alla sua matrice – il "progresso" – era inevitabile. E queste critiche si trasformarono in vigorose proposte post-'sviluppiste'.
La loro urgenza si diede in un momento di crisi diffusa dello Stato-nazione, oligarchico e radicato nel colonialismo, grazie alla crescente forza organizzativa e programmatica dei movimenti indigeni e popolari. La loro comparsa – come soggetti politici vigorosi – spiega l'emergere del Buen Vivir in Ecuador e del Vivir Bien in Bolivia. In questo contesto, iniziarono a consolidarsi anche questioni ecologiche e alternative, molte delle quali allineate alla visione di armonia con la Natura insita nel Buen Vivir.
Questa evoluzione ha coinciso con la crisi del neoliberismo, che ha portato all'emergere di governi progressisti, che hanno persino innalzato la bandiera del Buen Vivir, che alla fine è diventata uno strumento di propaganda e persino un dispositivo di potere [Gudynas, 2014]. Pertanto, la loro amministrazione non ha intrapreso un percorso post-'sviluppista', tanto meno post-capitalista. Il progressismo non ha trasformato la "matrice produttiva" dei loro paesi: al contrario, è affondato in nuovi e massicci estrattivismi. Non ha in alcun
modo avversato la logica dell'accumulazione di capitale. Così, finché è durato il boom dei prezzi elevati delle materie prime, si è arrivati a una riduzione delle disuguaglianze a livello di redditi, mentre i livelli di accumulazione di ricchezza sono rimasti stabili o addirittura aumentati. In definitiva, non hanno neanche messo da parte il neoliberismo. In alcuni casi, come in Ecuador, il progressismo ha finito per tornare alle pratiche neoliberiste, persino riscoprendo visioni aperturiste e liberalizzatrici. Tutto questo facendo affidamento s'una maggiore partecipazione statale, esercitando una sorta di neo-neoliberismo.
In definitiva, al di là dei discorsi "socialisti" e "rivoluzionari", i governi progressisti latinoamericani – patriarcali e coloniali – hanno mantenuto e continuano a mantenere il modello di accumulazione estrattiva di origine coloniale, dominante per tutta l'epoca repubblicana. Ciò che si può osservare è una transizione dall'estrattivismo tradizionale a un neo-estrattivismo – caratterizzato soprattutto dal suo gigantismo e da nuove tecnologie sempre più predatorie – che non mette in discussione la stessa matrice di accumulazione coloniale che esiste da oltre cinquecento anni. E non contraddice nemmeno le idee fondamentali del "progresso" o della sua progenie: lo "sviluppo".
È evidente che questo percorso “sviluppista” conduce a un vicolo cieco, all'interno del quale i movimenti progressisti sperano ingenuamente di superare i gravi problemi esistenti. Come diceva Albert Einstein, "nulla è segno più evidente di stupidità che fare la stessa cosa più e più volte e aspettarsi risultati diversi". La cosa grave è che, dopo quella che è nota come la prima ondata progressista, il neoliberismo è emerso con rinnovato vigore in diversi paesi della regione, accompagnato da un preoccupante consolidamento delle forze di estrema destra.
Buen Vivir, una proposta rivoluzionaria dalle periferie
Ciò che è interessante sottolineare a questo punto è che, in questo contesto di critica allo "sviluppo", il contributo dei popoli indigeni ha acquisito importanza. Così, dalla fine degli anni '90, sono emerse con forza le domande sullo "sviluppo" convenzionale. I popoli indigeni, con i loro valori, le loro esperienze, le loro pratiche, in breve, la loro cosmovisione (Weltanschaung), erano presenti prima dell'arrivo dei conquistadores europei e continuarono fino al periodo repubblicano, ma furono rese invisibili, marginalizzate o apertamente osteggiate. Ciò che conta è che le loro proposte includano diverse sfide profonde allo "sviluppo", sia nella sfera pratica che in quella concettuale. Queste proposte emersero in un momento di crisi diffusa dello stato-nazione oligarchico radicato nel colonialismo. Ciò fu il frutto, come affermato qui sopra, dalla crescente forza organizzativa e programmatica dei movimenti indigeni e popolari.
È importante comprendere che quando si parla di Buen Vivir o sumak kawsay, si propone – prima di tutto – una ricostruzione basata sulla visione utopica di futuro andino e amazzonico [Pacari, 2014; Huanacuni, 2010]. Questo approccio non può essere esclusivo né conformarsi a visioni dogmatiche. Deve necessariamente essere integrato e ampliato incorporando altri discorsi e proposte provenienti da diverse regioni del pianeta, spiritualmente connesse nella loro lotta per una trasformazione della civiltà ispirata da visioni che puntano alla costruzione e alla ricostruzione del pluriverso [Kothari, et al., 2019]. Questa sfida implica la disobbedienza e il confronto con il potere per seppellire il mondo del capitale e creare un mondo nuovo:
l'obiettivo è costruire un mondo che accolga molti mondi, concepito a partire dalle prospettive, dai desideri e dalle lotte dei popoli e dei loro diritti.
I popoli indigeni di Abya-Yala, in questa impresa, non sono gli unici portatori di queste proposte. Il Buen Vivir – la sua essenza – è stato conosciuto e praticato in diverse epoche e regioni della Madre Terra, sebbene con nomi diversi. Pertanto, il Buen Vivir può essere visto come parte di una lunga ricerca di modi di vita alternativi, forgiati nel calore delle lotte dell'umanità per la sostenibilità ambientale e anche per realizzare le reciprocità sociali. L'importante è riconoscere che in tutto il mondo esistono memorie, esperienze e pratiche di individui comunitari che praticano stili di vita non ispirati al concetto tradizionale di "progresso". È quindi urgente recuperare queste pratiche ed esperienze, molte delle quali provengono dalla indigenità, come diceva Aníbal Quijano, accogliendole così come sono, senza romanticizzarle.
Questo ci porta a sottolineare che questi tipi di approcci e proposte sono simili per molti aspetti, ma non necessariamente del tutto identici. Si tratta di valori, esperienze e, soprattutto, pratiche esistenti in diversi periodi della storia umana e in quasi tutte le regioni della Madre Terra. Degni di nota sono il comunitarismo dello zapatismo, l'ubuntu in Africa (un senso di comunità: una persona è tale solo attraverso le altre persone e gli altri esseri viventi) e lo swaraj in India (democrazia ecologica radicale). Qui emergono anche il kyosei in Giappone, oppure le cooperative della marca (Markgenossenchaften) degli antichi germanici, che interessarono Karl Marx [2009 / 1857-1858] nei suoi ultimi anni di vita. Allo stesso modo, si potrebbero incorporare le potenti riflessioni sull'autosufficienza dello svadeshi, che riflette gran parte del pensiero di Gandhi [1990]. Si potrebbero anche menzionare le proposte di convivialità di Ivan Illich [1973]. Tra i molti altri approcci al tema, menzioniamo anche la sobrietà felice di Pierre Rahbi [2013]. Sebbene possa essere considerata un pilastro della contestata civilizzazione occidentale, in questo sforzo collettivo di ricostruire/costruire un rompicapo di elementi che supportino nuove forme di organizzare la vita, si potrebbero persino recuperare alcuni elementi della "vita buona" di Aristotele. Il compito sarebbe quello di costruire ponti tra di essi.
In breve, per comprendere appieno cosa comporti realmente il Buen Vivir, che non può essere semplicemente associato al "benestare occidentale", c'è da capirne l'origine. Ciò implica il recupero dei saperi e delle culture dei popoli indigeni, senza negare, come già detto, altri contributi che ne garantiscono la cristallizzazione. Lo sforzo trasformativo implica il recupero del Buen Vivir in termini di una diversità che apre le porte a molteplici proposte provenienti da realtà diverse. Pertanto, per evitare un concetto unico e indiscutibile, sarebbe meglio parlare di "buenos vivires" o "buenos convivires" . Vale a dire, buon convivere degli esseri umani in comunità, buon convivere delle comunità con altre comunità, buon convivere di individui e comunità nella e con la Natura. 2
Ricordiamo che il Buen Vivir sintetizza realtà concrete così come visioni utopiche del futuro: ci troviamo di fronte a un processo permanente di costruzione e ricostruzione. Questo aiuta a chiarire un equivoco comune sul Buen Vivir, che viene liquidato o minimizzato come una mera aspirazione di ritorno al passato o al misticismo indigenista (un rischio latente, tra l'altro).
Il Buen Vivir esprime esperienze e costrutti che esistono da moltissimo tempo e che sono ancora in marcia proprio in questo momento, dove saperi e sensibilità interagiscono, si mescolano e si ibridano. Azioni e pratiche di vita che condividono cornici simili, come la critica pratica dello "sviluppo" o la ricerca di altre correlazioni con la Natura [Acosta e Viale, 2024].
Il Buen Vivir come alternativa allo sviluppo
Quanto esposto implica certamente una corretta valorizzazione del sapere considerato ancestrale, riconoscendo la complessità di definirne la natura ancestrale. Farlo richiede la costruzione di ponti di relazionamenti rispettosi tra sapere e conoscenze. Questo processo ci invita a decolonizzare la storia, così come a superare lo stupido senso comune e le immagini ingannevoli della Modernità. Rompere con le sue molteplici e diverse camicie di forza, quelle reali e quelle simboliche, è un compito urgente.
È anche necessario recuperare il passato come parte di una continuità storica con una proiezione verso il futuro, come processo legato alle lotte di resistenza e ri-esistenza di fronte agli interminabili processi di conquista e colonizzazione. In definitiva, ciò che conta è recuperare, senza idealizzazioni, il progetto collettivo per il futuro di quelle comunità intrinsecamente legate alla vita, in particolare le comunità della indigenità, con la loro chiara continuità rispetto al loro passato futuristico. E questo si otterrà promuovendo tutti i dialoghi di saperi e conoscenze possibili e necessari.
Questo ci invita ad affrontare, tra le altre questioni fondamentali, la discussione sul potenziale delle tecnologie, della scienza e della conoscenza, mettendole al servizio della vita e non dell'accumulazione di capitale. Che sia chiaro: non è in gioco alcuna proposta di tipo luddista, ovvero che si opponga ai progressi della conoscenza umana.
Facendo un ulteriore passo avanti, è fondamentale non solo mettere in discussione il significato storico del processo emerso dall'idea di "sviluppo". Gli obiettivi, le politiche e gli strumenti utilizzati – invano – per raggiungere il benessere promesso dallo "sviluppo" devono essere smantellati. È essenziale riconoscere che i concetti, gli strumenti e gli indici disponibili per analizzare lo "sviluppo" sono ormai inutili. Sono strumenti che cercano di convincerci che il modello di civiltà legato allo "sviluppo" e al "progresso" sia naturale e inevitabile. Una grande falsità.
È importante tenere presente che il benessere dei paesi che si considerano "sviluppati" è spiegato dalla logica della "società dell'esternalizzazione". Vale a dire che il benessere di pochi abitanti del pianeta viene raggiunto a costo della povertà di altri paesi e della distruzione della Terra: "avere tutto e volere ancora di più, preservare il proprio benessere a scapito di negarlo ad altri: questa è la massima delle società sviluppate, anche se si cerca di nasconderla nell'ambito pubblico", come afferma il sociologo tedesco Stephan Lessenich [2019].
Il Buen Vivir come opzione per superare la Modernità
In definitiva, ciò che conta è smantellare il concetto stesso di "sviluppo", una fantasia che governa e regola la vita di gran parte dell'Umanità. Non solo. In questo sforzo di "sviluppo", è stata in gran misura sacrificata la possibilità di perseguire percorsi propri, differenti dalla Modernità e dal "progresso", causa di tanti abusi nei confronti della vita.
Pertanto, il Buen Vivir non può essere analizzato con gli strumenti e la logica dell'analisi tradizionale, utilizzati per negarne l'esistenza, poiché non potrebbe essere spiegato o misurato con tale strumentazione. Il che costituisce peraltro una forma di razzismo intellettuale.
Allo stesso modo, sarebbe quantomeno sbagliato che queste riflessioni sul Buen Vivir, per quanto ben intenzionate, fossero considerate ricette indiscutibili o applicabili in qualsiasi momento e luogo. Non ci sono ricette. Non ci sono modelli. Le buone intenzioni non bastano. Il Buen Vivir non può essere copiato e riprodotto meccanicamente in ogni momento e luogo.
È quindi fondamentale discutere di che tipo di indicatori abbisogna il Buen Vivir. Questo compito può essere rischioso, soprattutto inutile e persino dannoso, senza prima chiarire i fondamenti del Buen Vivir. Il volontarismo potrebbe creare nuovi tecnicismi. Altrettanto pericoloso – e inutile – sarebbe parlare di Buen Vivir senza essere in grado di identificare/valutare/misurare progressi o arretramenti. Per essere coerenti, questi possibili indicatori dovrebbero rispondere al mondo del buon convivere, ovverosia dovrebbero essere diversi e molteplici, specifici per ogni realtà. Un compito del genere non è da poco, poiché potrebbe condurci su un terreno instabile, rendendo in definitiva impossibile sfuggire alla trappola concettuale della Modernità.
Naturalmente, il concetto di Buen Vivir non può essere confuso con quello di "vivere meglio", poiché quest'ultimo presuppone un progresso materiale illimitato. Il Buen Vivir non può essere semplicemente associato al "benestare occidentale". Inoltre, "vivere meglio" fomenta una costante competizione con altre persone – con cui si confrontano stili e livelli di vita – per produrre sempre di più, in un processo di infinita accumulazione materiale. Questo "vivere meglio" incentiva la competizione, non l'armonia, né l'equilibrio. Ricordiamoci che, affinché alcuni potessero "vivere meglio", milioni di persone hanno dovuto e continuano a dover "vivere male", mentre la Natura viene sistematicamente distrutta. Il Buen Vivir non implica la ripetizione di questo processo di esponenziale e permanente accumulazione materiale.
Inoltre, come accennato in precedenza, è necessario recuperare altre visioni del mondo, che non possono essere semplicemente copiate e trasformate in nuovi dogmi. Il compito non è facile. Non possiamo ripetere stili di vita socialmente ed ecologicamente insostenibili. Dobbiamo ricercare e praticare opzioni di vita dignitose e sostenibili che non rappresentino la rivisitazione spesso caricaturale dello "modo di vita imperiale", come presentato dai professori tedeschi Ulrich Brand e Markus Wissen [2021]. Modo di vita si sta diffondendo in tutto il mondo a partire dai centri del capitalismo metropolitano e che si riproduce deteriorando continuamente le condizioni di vita della maggioranza della popolazione e ldistruggendo la Natura.
In breve, sono necessarie risposte politiche che consentano un'evoluzione guidata dalla validità della "cultura dello stare in armonia" e non della "civiltà del vivere meglio". Il punto è costruire società solidali e sostenibili, nel quadro di istituzioni che garantiscano una vita dignitosa. Il Buen Vivir mira a un'etica del sufficiente per l'intera comunità, e non solamente per i singoli individui.
Avanzare verso cambiamenti strutturali e profondi
A quest'altura affiora una constatazione sempre più generalizzata sulla necessità di cambiamenti concettuali strutturali in tutte le dimensioni della vita. Per raggiungere questo obiettivo, i processi sociali devono spostarsi verso visioni biocentriche, ecocentriche o socio-biocentriche, sebbene in realtà si tratti di una rete di relazioni armoniose prive di qualsiasi centro. Ciò implica che l'economia, la politica, la cultura, ecc., debbano essere orientate verso e da pratiche comunitarie, non semplicemente individualistiche. Si tratta, quindi, di proposte basate sulla pluralità e sulla diversità, non unidimensionali o monoculturali. Questa transizione deve essere costruita principalmente dal basso verso l'alto – dai quartieri e dalle comunità – come spazio di trasformazione effettiva perché è a partire da lì che non solo si deve fare pressione sugli Stati, ma da quegli spazi comunitari si devono anche trasformare strutturalmente gli Stati tessi.
La complessità di questo impegno è evidente. Dopo le esperienze in Bolivia ed Ecuador, dove la manipolazione del Buen Vivir da parte di governi "progressisti" è stata molto evidente, è assai difficile immaginare una strategia che sia promossa principalmente dall'alto, dallo Stato. Lo Stato – così come si conosce – è incapace di affrontare temi realmente basilari, come ad esempio ripensare il mondo del lavoro dalle sue radici, aprendo la strada alla distribuzione dello stesso nella transizione verso un altro tipo di società, dove il tempo libero creativo è un diritto e non un business [Acosta, 2021]. In realtà, nel mondo del Buen Vivir, lavoro e ozio/tempo libero devono scomparire e fondersi in altre relazioni – anche ricreative – di vita dignitosa. Ricordando i Grundrisse di Karl Marx [2009 / 1857-1861], si può affermare che "una nazione è veramente ricca quando, invece di dodici ore, se ne lavorano sei", poiché non è "il tempo di lavoro la misura della ricchezza, ma il tempo libero".
In sintesi, il Buen Vivir è una proposta civilizzatrice che propone un orizzonte di uscita dal capitalismo, la civilizzazione dominante. Tuttavia, va ribadito che le visioni di indigenità non sintetizzano l'unica ispirazione per la promozione del Buen Vivir. Questa (ri)costruzione di alternative di civilizzazione può essere supportata anche da altri principi filosofici, che potrebbero aggiornarsi purché questi approcci superino le visioni antropocentriche dominanti e accettino, in particolare, che la vita deve essere dignitosa per tutti gli esseri umani e non umani.
Qui, senza entrare nei dettagli, si propone la possibilità di assumere il Buen Vivir come un concetto aperto, riconoscendone le profonde radici indigene, da cui si possono costruire altri mondi, senza precludere un dibattito ampio e arricchente e un dialogo con altri saperi e conoscenze. A questo punto, si possono includere tutti i dibattiti post-sviluppisti, post-estrattivisti e di altro tipo, come quelli sulla decrescita (che mettono giustamente in discussione la crescita economica) [Acosta e Brand, 2017], nella direzione di superamento della Modernità.
Con il Buen Vivir e la sua visione di molteplici armonie ed equilibri non si propone un'opzione millenarista, priva di conflitti. In realtà, si propone una società che ricerca armonia ed equilibrio, che non esacerba i conflitti, come accade con la civiltà del capitale, basata sull'avidità, sull'accumulazione infinita e sulla competizione permanente tra individui che agiscono gli uni contro gli altri.
Pertanto, per uscire dal labirinto della Modernità, sarà necessario costruire o ricostruire tutte le utopie necessarie. La loro possibilità e realizzabilità devono essere raggiungibili, aprendo la strada a processi di transizione coerenti con gli obiettivi proposti. Il compito, in breve, s'inquadra nel postcapitalismo come orizzonte guida: quindi un orizzonte post-neoliberista da solo non è sufficiente. E nel Buen Vivir come opzioni per una vita dignitosa nel contesto di un pluriverso.
I percorsi verso quella che potrebbe essere intesa come una biocivilizzazione sono molteplici. La costruzione del pluriverso è in corso, già visibile nelle visioni del mondo e nelle pratiche radicali di molti gruppi in tutto il mondo. La nozione di pluriverso mette in discussione la presunta universalità della modernità euroamericana. Come hanno saggiamente espresso gli zapatisti del Chiapas, in Messico, il pluriverso costituisce "un mondo in cui possano stare molti mondi", in cui tutti gli esseri umani e non umani possono coesistere e prosperare in reciproca dignità e rispetto. Non più un mondo "sviluppato" che vive a spese degli altri mondi, come accade così spietatamente ai giorni nostri.

→ Questo testo raccoglie diversi contributi dell'autore sull'argomento, riassunti nella seconda edizione ampliata e aggiornata del suo libro “O Bem Viver. Un'opportunità per immaginare altri mondi”, Elefante Publishing House, Brasile, 2025.
* Alberto Acosta è un economista ecuadoriano, compagno nelle lotte dei movimenti sociali, docente universitario e autore di diversi libri. E' stato Ministro dell'Energia e delle Miniere (2007), Presidente dell'Assemblea Costituente (2007-2008) e candidato alla Presidenza della Repubblica dell'Ecuador (2012-2013).
** Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network
Note:
1) Per riflessioni più ampie sul buen vivir, si veda Acosta [2020, 2018, 2013], Gudynas e Acosta [2011a e 2011b]
Riferimenti bibliografici
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- Acosta, Alberto [2013], El Buen Vivir Sumak Kawsay, una oportunidad para imaginar otros mundos, Barcelona, Icaria, a partir de una edición preliminar en Abya-Yala Ecuador (2012). [Este libro ha sido editado en ediciones revisadas y ampliadas continuamente, en francés - Utopia 2014, en alemán – Oekom Verlag 2015, en portugués - Editorial Autonomia Literária y Elefante Editora 2016, en holandés - Uitgeverij Ten Have 2018). Nueva edición ampliada -2025- en Elefante Editora, Brasil y Abya-Yala, Ecuador -en prensa-]
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