La natura nel dibattito dell'economia politica
"La stampa, la polvere da sparo e la calamita, applicati all'apprendimento,
alla guerra e alla navigazione, ci aiutano a riflettere sui segreti ancora
custoditi nel grembo della natura. Essi non sono semplicemente,
come lo furono le scoperte antiche, una guida gentile per dirigere
il corso della natura, ma hanno il potere di conquistarla
e sottometterla, di scuoterla fin dalle fondamenta."
(Carolyn Merchant, La morte della natura, 1979)
La mercificazione della natura si verifica nel campo pratico, ma anche, e soprattutto, nel pensiero economico. Ad esempio, ripercorrendo le origini della vecchia economia politica (in particolare del pensiero fisiocratico e classico) è possibile riscontrare che la natura non era la protagonista nelle elaborazioni teoriche e pratiche, caricate di uno spiccato antropocentrismo e con una forte dipendenza dalla nozione di "progresso". E sebbene l’idea di una natura-merce non fosse ancora consolidata, esistevano visioni della natura come creatrice di un ordine sociale.
La natura nel pensiero dei classici
Andiamo per parti. Per François Quesnay – uno dei padri del movimento fisiocratico e con forti legami con l’aristocrazia terriera francese – la ricchezza era un “dono della natura”. Quel “dono” verrebbe dall'agricoltura, l'unica attività autenticamente produttiva e creatrice del “prodotto netto”, che viene speso nel resto delle attività economiche: tutto ciò inserito all’interno di un ordine naturale le cui dinamiche erano delimitate dalla “provvidenza”. Questa visione – raccolta da Quesnay soprattutto nelle sue Tabelle economiche (1758-1767) – si opponeva alla concezione mercantilista, secondo la quale la ricchezza dipendeva esclusivamente dal “corpo politico” della società: per Quesnay, infatti, la ricchezza non cresceva attraverso il commercio: solo la natura poteva farla crescere.
Anche se questa lettura potrebbe portarci a pensare che Quesnay proponesse una visione benevola del legame tra essere umano e natura, la questione è più complessa. Ad esempio, nella loro visione del laissez faire, laissez passer (“lascia andare, lascia passare”), Quesnay e i suoi colleghi fisiocratici avevano in mente una libertà economica limitata al commercio agricolo: quella libertà avrebbe seguito un “ordine naturale” che il governo – gestito da proprietari terrieri aristocratici assolutisti – avrebbe dovuto far rispettare, senza promuovere in alcun modo le libertà individuali. Vale a dire che, secondo i fisiocratici, la “provvidenza” e l'ordine dettato dalla natura mantenevano ancora il forte ruolo legittimante che avevano svolto nei rapporti di produzione feudali.
Se passiamo al pensiero classico, la concezione della natura presenta molteplici sfumature. Così, nella sua Teoria dei sentimenti morali (1759), Adam Smith suggerì che i due grandi scopi della natura sono il sostegno dell'individuo e la propagazione della specie umana e di tutte le altre specie. Allo stesso modo, Smith condivideva con i fisiocratici l’idea che il mondo – compreso il sistema economico – fosse governato da un’armoniosa forza naturale analoga alla “Provvidenza” – e vicina alla “mano invisibile” – che mostrava i suoi disegni attraverso la natura. Ad esempio, nella Teoria dei sentimenti morali, scrisse:
"Ogni parte della natura, se esaminata attentamente, dimostra ugualmente la cura provvidenziale del suo Autore, e possiamo ammirare la saggezza e la bontà di Dio persino nella debolezza e nella follia umana."
Per inciso, è notevole la marcata impronta teologica di questa concezione della natura, molto probabilmente come eredità delle visioni filosofiche sopra citate. Per quanto riguarda La ricchezza delle nazioni (1776), sebbene le menzioni esplicite della natura sono poco chiare, si rilevano alcune rotture rispetto alla fisiocrazia. Smith, ad esempio, abbandona l’idea che l’unico lavoro produttivo sia il lavoro agricolo ed estende tale categoria a tutto il lavoro che crea beni durevoli (beni che, dopo essere stati prodotti, mantengono una propria esistenza fisica che perdura nel tempo). Per quanto riguarda il ruolo della natura nella produzione, Smith indica che questa non partecipa nella produzione, un'attività alla quale contribuisce solo il lavoro umano. Vale a dire, il ruolo della natura nella produzione sarebbe piuttosto passivo.
C'è da dire che forse la scarsa menzione della natura ne La ricchezza delle nazioni, ci permette anche di vedere che, per Smith, il mondo naturale avrebbe un ruolo secondario nell'economia, tanto più quando non viene proposto un collegamento tra quel mondo e la forma principale che – secondo Smith – le società hanno per ottenere ricchezza: accumulare capitale. Infatti, se si considera che l’unico lavoro produttivo è quello che genera beni durevoli, l’accumulazione implica necessariamente un aumento continuo di tali beni, cosa irrealizzabile in un mondo di risorse limitate (senza tener conto degli sprechi causati da tale dinamica). Inoltre, sebbene per Smith l’agricoltura non fosse l’unica fonte di ricchezza, essa costituirebbe la fase iniziale di un potenziale processo di sviluppo graduale, dopo il quale l’accumulazione capitalistica si estenderebbe ad altre attività e al commercio internazionale. Ancora una volta vengono qui omessi i limiti naturali e le contraddizioni materiali di questo processo, il che implica l’idea fantasmagorica di un progresso materiale ad infinitum. E questo ci ha portato alla ricerca di un fantasma: "lo sviluppo".
Dopo Smith, meritano attenzione le riflessioni di Thomas Malthus sul legame tra natura ed economia. Nel suo Saggio sul principio di popolazione (1798), Malthus postula che l'umanità e la natura vivono in un confronto permanente come riflesso della volontà di Dio: la volontà divina imporrebbe dei limiti alla mente umana attraverso la natura affinché questa superi se stessa in maniera permanente, sebbene la mente non potrebbe mai sovrapporsi pienamente all’ordine naturale. Per difendere la sua visione, Malthus afferma che la natura rappresenta uno stato di letargo difettoso e generalmente negativo che deve essere superato, e allo stesso tempo crea un ordine fisico naturale a cui l’umanità si trova sottomessa. Nei suoi Principi di economia politica (1820), Malthus mantiene un approccio simile a quello dei fisiocratici e di Smith in quanto il “sistema economico” sarebbe governato da un ordine naturale i cui limiti sarebbero determinati dall’agricoltura, che Malthus vedeva – come i fisiocratici e a differenza di Smith – come unica fonte di ricchezza.
Anche David Ricardo – amico e rivale intellettuale di Malthus – ha lasciato alcune intuizioni sul legame tra natura ed economia. Nei suoi Principi di economia politica e tassazione, affermava che i salari e i profitti in termini aggregati erano limitati dalla natura, in particolare dai raccolti annuali. Allo stesso modo, seguendo in una certa misura Jean-Baptiste Say e Adam Smith, postulò che la terra, l'aria e l'acqua fossero “doni della natura”. Tuttavia, a differenza di Smith, egli affermava che la natura giocava un ruolo rilevante nella manifattura fornendo energia, potenza meccanica e altri elementi in modo “generoso” e “gratuito”. Pertanto, anche per Ricardo, la natura svolge un mero ruolo di fornitore passivo di fattori per la produzione. L'approccio di Ricardo riguardo al ruolo della natura, lo portò anche a proporre che il pagamento della rendita fondiaria al proprietario terriero fosse un'istituzione ingiusta, poiché implicava il pagamento a una minoranza per un dono del mondo naturale. Inoltre, l’esistenza della rendita – nota come “rendita ricardiana” – consentirebbe alla scarsità di terra (o di altre risorse naturali) di generare redditi – marginali – crescenti, trasferendo ricchezza nel suo complesso dall’economia ai proprietari terrieri.
Anche molti altri pensatori classici includevano – con sfumature diverse – la natura nelle loro elaborazioni sull’economia politica. Ad esempio, in Un accenno di scienza dell'economia politica (1836), Nassau Senior postulò che, con il progresso della civiltà, il cibo sarebbe cresciuto più della popolazione, contrariamente a Malthus, il quale affermava che la popolazione cresceva molto più velocemente della produzione alimentare e che questa tendenza avrebbe causato gravi crisi.
Inoltre, Senior postulava l’esistenza di agenti naturali quasi allo stesso livello degli agenti economici razionali e suggeriva che la rendita fosse una “ricompensa” per i proprietari di quegli agenti naturali, che “hanno permesso che i doni della natura fossero accettati”. Ciò significa che l'approccio di Senior cercava di giustificare la rendita come ricompensa per un comportamento benevolente, sebbene in realtà “l'ordine naturale” non aveva motivo di essere benevolo o giusto.
Un ultimo pensatore classico che merita attenzione è John Stuart Mill, il quale, nei suoi Principi di economia politica (1848), suggerisce che la natura fornisce tutte le forze necessarie per realizzare la produzione, mentre il lavoro umano è responsabile solo del cambiamento della forma, del come gli oggetti si uniscono. Mill si oppone ad altri approcci classici ritenendo che non sia possibile distinguere in quali attività la natura abbia maggiore o minore influenza, poiché ciò è rilevante per tutte le attività (agricoltura, manifattura, ecc.). Questo approccio porterebbe Mill a proporre che il lavoro umano non è in grado di creare una singola particella di materia, e che ciò che realmente crea è utilità. Pertanto, per Mill, l’economia politica è essenzialmente una “scienza mentale” piuttosto che una “scienza materiale” (questa idea sarebbe diventata rilevante in seguito, con l’emergere dell’economia marginalista e neoclassica).
Paradossalmente, John Stuart Mill scriverà anni dopo, tra il 1852 e il 1853, il suo saggio Sulla natura (pubblicato postumo come uno dei suoi Tre saggi sulla religione), in cui si denota un cambio di approccio. In questo testo ci si oppone apertamente alla prospettiva sia dei fisiocratici che di altri pensatori classici, secondo cui le società devono seguire un “ordine naturale”. Di fatto, per Mill l’idea stessa che l’essere umano “deve seguire” il corso della natura (o la “provvidenza” o la “mano invisibile”) è “irrazionale” perché l’azione umana consiste proprio nel migliorare il corso spontaneo della natura (che sarebbe addirittura “immorale” di per sé). Di più: nel suo saggio costruisce un'elaborata argomentazione per sostenere che l'azione umana è praticamente finalizzata a “modificare” e “conquistare”, non a “obbedire”, alla natura.
Sebbene quest’ultimo elemento richiami alla mente le posizioni di Bacone e Cartesio (che vedevano nel progresso quasi un torturatore della natura), vale anche la pena riconoscere che Mill (1848) fornì alcune prime riflessioni su quella che oggi è conosciuta come un’economia stazionaria, che possono essere considerate antecedenti dell’attuale pensiero della decrescita, che mette fondamentalmente in discussione l’idea di crescita economica come percorso indiscutibile per raggiungere il benessere.
Tuttavia, nonostante questi precedenti, la prospettiva di Mill sulla natura ha accelerato la “snaturalizzazione” dell'economia politica, un processo che è coerente con l'antropocentrismo consolidatosi con l'apice dell'Illuminismo in Occidente. Si potrebbe addirittura pensare che l’opposizione tra azione umana e natura, suggerita da Mill – insieme all’idea che l’economia sia una “scienza mentale” e non una “scienza materiale” –, abbia aperto le porte allo studio dell’economia in una forma totalmente separata dal mondo naturale.
Le profonde intuizioni ecologiche di Karl Marx
Dopo i classici, il pensiero economico ha preso – almeno – due strade principali nella sua interpretazione della natura. Una corrisponde all'Introduzione generale alla critica dell'economia politica preparata da Karl Marx, l’altro, invece, comprende pensatori marginalisti, che costruirebbero le basi per l’emergere dell’economia neoclassica, recuperando – ove opportuno – diversi insegnamenti classici.
Quanto a Marx –senza negare la sua radicata appartenenza ai cultori del “progresso” - soprattutto nella sua giovinezza e mezza età –, la visione della natura che egli propone nella sua critica alla vecchia economia politica fisiocratico-classica è più complessa. Uno dei primi elementi con cui include la natura nella sua analisi può essere visto nei suoi Quaderni di Parigi, in particolare nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. In essi afferma che l'umanità e la natura costituiscono un'unità che viene interrotta dal processo di alienazione del lavoro, così come la mercificazione della natura. Marx sottolinea che la prima condizione oggettiva del lavoro e il suo presupposto materiale è la natura. E sostiene addirittura che la natura è il “corpo inorganico” del lavoratore (inteso come prolungamento del suo corpo organico), pertanto, quando il lavoro viene alienato e il produttore è separato dalle sue condizioni di produzione, l’unità natura-umanità viene interrotta ed emerge un mondo reificato alieno al controllo umano. Questa disgregazione si verifica nel capitalismo, un modo di produzione che implica la negazione storica della relazione tra uomo e natura.
Ne 'L’ideologia tedesca' (1845-1846), Karl Marx e Friedrich Engels sottolineano che è impossibile concepire una natura totalmente separata dall’essere umano. Natura e umanità costituiscono piuttosto un'unità dialettica e materialista (un'unità in cui non vi è alcun intervento soprannaturale, secondo quanto suggerisce Marx nelle sue Tesi su Feuerbach, del 1845). Allo stesso tempo, sebbene producano per vivere e questa produzione sia inevitabilmente condizionata da diversi fattori naturali e materiali, anche gli esseri umani influiscono sulla natura e possono modificarla. Nella realtà capitalista, questo legame dialettico porta ad un’alterazione dell’unità natura-umanità, che Marx analizza sotto il concetto di “metabolismo”.
Marx utilizzò per la prima volta in modo rilevante il termine “metabolismo” nei Quaderni di Londra (1851), in una sezione intitolata “Riflessione”. Lì critica il potere del denaro e la sua natura di classe, e afferma che, maggiore è il reddito, maggiore è la capacità delle persone di accedere alle “interazioni metaboliche”. Nel caso specifico del capitalismo, la “interazione metabolica” è fortemente limitata poiché solo un certo gruppo ha accesso al massimo di queste interazioni, mentre un altro gruppo è impoverito, soggiogato e alienato dal potere straniero del denaro indipendentemente dai suoi bisogni specifici. Tuttavia Marx utilizzò il termine “metabolismo” in modo più generale e sistematico nei Grundrisse (1857-1858), dove propose tre interpretazioni che applicherà anche nel volume I de Il Capitale (1867): “interazione metabolica tra gli esseri umani e natura”, “metabolismo sociale” e “metabolismo della natura".
Quindi, in termini generali, per Marx il “metabolismo” si riferisce alle incessanti interazioni tra gli esseri umani e la natura (mediate dal lavoro), e anche alle interazioni all’interno dei gruppi umani e all’interno della natura. Questo “metabolismo” non è statico, ma cambia man mano che cambia la forma specifica di produzione da parte degli esseri umani, il che significa che la valorizzazione del capitale sconvolge necessariamente tutta l'interazione. Lo stesso Marx riconosce che, con l’aumento delle forze produttive e il maggior fabbisogno di materie prime e materiali ausiliari promosso dall’accumulazione capitalista, l’intero processo produttivo diventa più instabile e può provocare crisi (a causa della perturbazione del "metabolismo" sociale e/o naturale). In altre parole, la valorizzazione del capitale è necessariamente condizionata dall’aspetto materiale, al punto da diventare addirittura “fisicamente impossibile”.
Tutto ciò, tuttavia, non implica per Marx che il capitalismo crollerà immediatamente, poiché “il potere elastico del capitale” gli consente di reagire – entro certi limiti – a queste perturbazioni “metaboliche”. Questo potere si baserebbe su varie caratteristiche del mondo materiale che possono essere sfruttate sia estensivamente che intensivamente a seconda delle esigenze del capitalismo, ma non all’infinito. In breve, sia nei Grundrisse che ne Il Capitale, Marx postula l'esistenza di una tensione permanente tra natura e capitale.
Il risultato di questa tensione tra il mondo naturale e la valorizzazione del capitale è, per Marx, un’irreparabile “rottura metabolica” tra l’umanità e la natura. Rottura che sarà superata solo con l’emergere di una formazione sociale superiore al capitalismo, dove la proprietà privata di pochi gruppi sulla Terra verrebbe vista come qualcosa di assurdo, dato che si riconoscerebbe che nessuno possiede la Terra e che l’umanità è solo il suo beneficiario.
Ricapitolando, possiamo ricordare che il ruolo che Marx assegnò alla natura nella sua critica alla vecchia economia politica e, soprattutto, l'uso che fece del concetto di “metabolismo”, generò importanti rotture rispetto alle visioni precedenti. In particolare ruppe con l'idea di dominio del mondo naturale suggerita da Bacone e Cartesio, con il carattere mistico della natura e l'ordine naturale-aristocratico di Quesnay e Smith (insieme alla giustificazione del potere fondiario nel primo caso o dell’accumulazione materiale sostenuta – e "a tappe" – del capitale nel secondo), con il confronto permanente tra umano e naturale di Malthus, con la limitazione passiva della natura alle possibilità di distribuzione di Ricardo, con la percezione non benevola della natura di Senior, e con l’idea di “emendamento” e “conquista” umana della natura che Mill postulava.
Sebbene Marx non abbia proposto una visione completa del “metabolismo” sociale, naturale e umano-naturale, rimane chiaro che la sua interpretazione comincia a rivelare non solo che economia e natura sono strettamente intrecciate ma, soprattutto, che l’avanzare dell’accumulazione capitalistica crea rotture “metaboliche” che possono diventare insanabili. Questo elemento critico è cruciale per comprendere che il contributo di Marx è totalmente opposto al mero anelito classico – di Smith, per esempio – di un'accumulazione materiale illimitata.
Da questo confronto tra la vecchia economia politica e la critica di Marx uscirono vittoriose – in termini di pensiero dominante – le idee marginaliste e, soprattutto, neoclassiche che adottarono – secondo la convenienza – gli insegnamenti classici per costruire le basi di una "scienza economica" dove, lì sì, la natura venne mercificata in maniera rapida e massiccia. Pertanto, la natura è diventata mera fornitrice di approvvigionamenti e spazio di stoccaggio per i rifiuti. Infine, il pensiero economico contemporaneo, soprattutto – ma non solo – nel caso ortodosso, è rimasto intrappolato in una visione riduzionista della natura-merce, cosa che forse non sarebbe avvenuta se quel pensiero non avesse seppellito la critica marxista o se si fosse aperto ad altre forme di intendere la vita. Gli approcci eterodossi di politica economica non sono esenti dalla trappola antropocentrica, né dal feticcio del "progresso", né dal suo figliastro, lo sviluppo: senza dubbio sono ancora espressioni della modernità.
Queste letture dovrebbero portarci a discussioni più attuali in cui affrontiamo direttamente uno dei pilastri delle economie dominanti: la crescita economica. Smantellare questo totem delle varie letture e teorie economiche – da quella liberale a quella marxista – è molto complesso. Torneremo su questo argomento più avanti, quando proporremo diverse alternative economiche.
(2. Continua)
* Economista ecuadoriano e giurista ambientalista argentino, coautori del libro "La Naturaleza sì tiene derechos. Aunque algunos no lo crean". Giudici del Tribunal Internacional de los Derechos de la Naturaleza. Membri del Pacto Ecosocial, Intercultural del Sur.
** Traduzione Giorgio Tinelli per Ecor.Network
Tratto da:
La naturaleza sí tiene derechos. Aunque algunos no lo crean
Alberto Acosta, Enrique Viale
Siglo Veintiuno Editores, Argentina, 09/2024 - 208 pp.