Toolkit: Disrupting Energy Corporations for the Liberation of Palestine
Alliances, strategies and tactics grassroots movements can use to target Eni and Dana Petroleum towards a global energy embargo for Palestine
di Disrupt Power, Global Energy Embargo for Palestine, Comitato Nazionale Palestinese per il BDS
Giugno 2025, pp.34
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Traduzione italiana tratta da Say NoGas in Mozambique!
ALLEANZE, STRATEGIE E TATTICHE CHE POSSONO ESSERE ADOTTATE DAI MOVIMENTI DAL BASSO PER SANZIONARE L’ENI E LA DANA PETROLEUM, VERSO UN EMBARGO ENERGETICO MONDIALE PER LA PALESTINA
PREMESSA
Le foto contenute nel report sono state fornite da Adalah, Al Haq, Al Mezan e PCHR (la mappa in Figura 1), Fossil Free London, Andrea Domeniconi, Filistin İçin Bin Genç (Mille Giovani per la Palestina). Gli autori definiscono le espressioni “prendere di mira”, “disturbare”, “intralciare” e “ostacolare, “sanzionare”, contenute in questo documento in relazione alla denuncia delle attività potenzialmente illegali delle aziende, tramite azioni dirette non violente e attivismo azionario.
COME USARE QUESTO TOOLKIT
Gli strumenti contenuti in questo testo sono pensati per fornire un quadro narrativo, ricerche dettagliate e ispirazione tattica ai movimenti dal basso per sanzionare le grandi società energetiche che stanno alimentando e finanziando il colonialismo di insediamento e il genocidio in corso in Palestina.
Il documento si concentra su due imprese: la Dana Petroleum e l’Eni SpA (in breve, Eni).
Nell’ottobre del 2023, le due società hanno ricevuto licenze di esplorazione del gas dallo Stato di Israele, nonostante i giacimenti interessati si trovino in acque marittime palestinesi, riconosciute dal diritto internazionale. Questa potenziale violazione della legge fornisce un elemento strategico su cui gli attivisti possono fare leva per fare pressione sulle imprese in questione e per promuovere una mobilitazione transnazionale per un embargo energetico, con lo scopo di mettere fine al genocidio e di liberare la Palestina.
Questo toolkit è stato sviluppato in collaborazione con organizzazioni palestinesi ed espandono il lavoro (consultabile qui) già svolto da altre organizzazioni palestinesi contro le licenze di esplorazione.
Sezione 1: Parlare di energia e di Palestina
La prima sezione spiega perché l’energia sia un ambito di lotta cruciale per la liberazione della Palestina. Esaminiamo le ragioni per cui le catene di approvvigionamento energetico – e, per estensione, le imprese che le gestiscono – devono essere ostacolate per mettere fine al genocidio e ai sistemi di occupazione e di colonialismo di insediamento. Tracciamo una mappa del mercato energetico israeliano, esploriamo la sua funzione di sostegno al colonialismo di insediamento ed elaboriamo messaggi chiave che possono essere adottati dagli attivisti.
Sezione 2: Perché sanzionare l’Eni e la Dana Petroleum
La seconda sezione colloca l’Eni e la Dana all’interno della rete energetica coloniale, esplorando perché sia così importante sanzionare queste aziende e presentando le motivazioni legali per contestarle.
Sezione 3: Come sanzionare l’Eni e la Dana Petroleum
La terza sezione espone approfondimenti dettagliati sulle due società, rivelando le loro attività internazionali in regioni strategiche e i modi possibili per ostacolarle materialmente. Esploriamo i rapporti dell’Eni con lo Stato italiano, le sue radici coloniali, i suoi principali responsabili aziendali e azionisti, e i suoi legami istituzionali. Attingendo alle esperienze di attivisti locali, proponiamo strategie di intervento in quattro paesi: Nigeria, Stati Uniti, Regno Unito e Mozambico.
Poi passiamo alla Dana, presentando un approfondimento sulla sua presenza in due dei tre paesi in cui opera: il Regno Unito e i Paesi Bassi. Dopodiché, esploriamo i suoi legami con la Corea del Sud attraverso la società madre, la South Korean National Oil Company (KNOC).
Sezione 4: Insegnamenti dal movimento
La quarta sezione parla dei movimenti palestinesi, indigeni e antimperialisti del presente e del passato.
Le campagne anti-normalizzazione, le azioni di disturbo degli autoctoni, i sindacati e le organizzazioni del lavoro forniscono spunti tattici attuali, su cui gli attivisti possono costruire.
Sezione 5: Le nostre richieste
Concludiamo con le nostre richieste rivolte al più ampio movimento internazionale per la liberazione della Palestina. Lanciamo un appello ai compagni nei sindacati e nei movimenti antiimperialisti e per la giustizia climatica in tutto il mondo, affinché si attivino per disinvestire e bloccare le società energetiche che traggono profitto dalle risorse palestinesi rubate, che proprio mentre scriviamo stanno alimentando la pulizia etnica, l’apartheid di Israele e la campagna militare genocidaria in Palestina.
N.B. Ognuno dei casi di studio presentati è stato scelto o per la posizione strategica per le azioni di disturbo e per eventuali campagne e/o per mettere in evidenza un partner cruciale nella nostra lotta mondiale per la liberazione della Palestina. Questo toolkit ha lo scopo di schierarsi in solidarietà con, e amplificare, le lotte mondiali contro le multinazionali in esame, e mettere in luce l’eredità mondiale del colonialismo e la resistenza da cui tutti possiamo imparare e su cui possiamo costruire collettivamente.
PRIMA SEZIONE: PARLARE DI ENERGIA E DI PALESTINA
Col contributo di Disrupt Power (per approfondire, vedi il loro ‘Toolkit’).
Perché fermare i flussi di energia verso Israele e al suo interno?
In questo momento decisivo, abbiamo la rara possibilità di fermare i flussi di energia e le catene di approvvigionamento nel cuore della macchina da guerra israeliana. L’energia, in tutte le sue forme – carbone, petrolio greggio e gas naturale – gioca un ruolo attivo nell’alimentazione dell’occupazione militare illegale, dei brutali bombardamenti aerei, del genocidio e dell’ecocidio attualmente in corso in Palestina.
L’apparato militare israeliano – navi da guerra, cisterne, aerei da caccia, elicotteri Apache, bulldozer e fabbriche di armi – non possono funzionare senza una costante fornitura di combustibile estratto o importato.
Interferire con l’accesso all’energia di Israele significa, letteralmente, togliergli i mezzi che gli permettono di commettere il genocidio in corso.
Per decenni, l’energia è stata sistematicamente strumentalizzata per incarcerare i palestinesi e punirli collettivamente. Gli Accordi di Oslo hanno istituzionalizzato e normalizzato il totale, nonché illegale, controllo di Israele sulle infrastrutture energetiche e sulle risorse naturali. Di conseguenza, le esigenze energetiche palestinesi, come ad esempio la fornitura elettrica agli ospedali, sono interamente dipendenti dalla potenza occupante. Qualsiasi infrastruttura alternativa, come la centrale elettrica di Gaza o i pannelli solari in Cisgiordania, viene sistematicamente distrutta dall’esercito israeliano al fine di mantenere la situazione di dipendenza e, attraverso un’intensa militarizzazione dei mari, viene impedito ai palestinesi di accedere alle loro risorse naturali. Dall’inizio dell’ultima escalation del genocidio, abbiamo assistito alla strumentalizzazione di questa dipendenza creata artificialmente da parte di Israele, che blocca, a suo piacimento, l’accesso ai combustibili, all’elettricità, all’acqua e al cibo.
È giunto il momento di riconoscere l’energia come strumento dell’imperialismo, e di integrare il suo intralcio ai mezzi della resistenza antimperialista.
I flussi energetici di Israele
Il fabbisogno energetico di Israele viene soddisfatto per il 12,8% dal carbone, per il 37,8% dal petrolio, per il 43,6% dal gas naturale e per il 5,3% da energie rinnovabili. Il petrolio, importato greggio e poi raffinato, alimenta i carri armati, i jet e le autoblinde. Il carburante per jet alimenta i caccia. Il carbone e il gas forniscono elettricità alle fabbriche di armi e alle strutture di addestramento militare. Queste catene di approvvigionamento non sono neutrali.
Il carbone viene importato principalmente via nave dal Sudafrica, dalla Russia e dalla Colombia (era il maggior fornitore di carbone di Israele fino al 2024, quando il presidente colombiano ne ha bloccato le spedizioni – un modo significativo e tangibile di opporsi al genocidio in Palestina).
Il petrolio viene per lo più importato dall’Azerbaigian (passando per il porto turco di Ceyhan), dal Brasile, dalla Nigeria, dal Gabon, dal Kazakistan e dagli Stati Uniti, tramite oleodotti e poi tramite petroliere che attraccano ai moli del carburante di Ashkelon e di Haifa.
Per quanto riguarda il gas naturale, Israele è un produttore netto. Questo significa che produce tutto il gas necessario al proprio consumo domestico oltre a disporre di un surplus da esportare. Questo è possibile grazie a due riserve di gas relativamente grandi – Leviathan e Tamar – scoperte nel 2009-10 nella Zona Economica Esclusiva (Zee) israeliana.
Il 91% del fabbisogno di gas israeliano viene soddisfatto dal giacimento di Tamar, mentre il resto proviene dal giacimento di Karish, scoperto nel 2013. In futuro, Karish verrà sfruttato per le esportazioni assieme a Leviathan, che è il principale giacimento utilizzato per le esportazioni verso l’Egitto, verso la Giordania, e verso l’Unione Europea. Il gas – assieme al carbone – viene usato dalla Israel Electric Corporation (IEC) per produrre elettricità. Israele ha un sistema elettrico completo e unificato; ovvero, un’unica rete rifornisce sia le case israeliane, sia gli insediamenti illegali in tutta la Cisgiordania, sia le fabbriche di armi, sia i campi di addestramento e l’ infrastruttura per l’IA.
In che modo i flussi del gas di Israele “normalizzano” il genocidio?
Gli Stati Uniti e i paesi europei hanno sfruttato il potenziale di esportazione di gas recentemente scoperto in Israele premendo per diversi accordi di normalizzazione in ambito energetico nella regione. Molti di questi accordi sono stati stretti tra Israele, Egitto, Giordania e Unione Europea. Tali accordi non solo legittimano l’occupazione coloniale di insediamento della Palestina, ma creano un incentivo economico e politico al mantenimento del settore energetico israeliano.
Accordi di questo tipo estendono l’apparato di controllo israeliano, conferendogli il potere di interrompere la fornitura di gas agli altri paesi a piacimento. In paesi che, come l’Egitto, già soffrono di frequenti arresti della produzione industriale e di blackout, le conseguenze potrebbero essere disastrose, fornendo a Israele un importante leva sul governo egiziano 1.
Non possiamo separare la filiera del gas dall’ampia complicità e cooperazione militare degli stati vicini nel genocidio in corso.
Il settore energetico israeliano è recentemente stato ampliato con le esportazioni di gas ai porti europei dall’altro lato del Mediterraneo. Nel 2022, Israele ha firmato un accordo con l’Ue e con l’Egitto per fornire significative quantità di gas tramite le infrastrutture egiziane. Il gas viene trasportato tramite Arish-Ashkelon, il gasdotto altamente militarizzato che passa illegalmente attraverso la Zee palestinese, e arriva a due Terminali Gnl (Gas naturale liquefatto) - Idku e Damietta - per poi essere trasportato in Europa.
Dalla firma dell’accordo, l’Europa ha ricevuto forniture irregolari di gas israeliano trasportato da navi metaniere che hanno attraccato nei porti di Milford Haven, Toscana 2, Revithoussa, Marsiglia, Bruges e Rotterdam.
Le forniture sono limitate e non possono offrire un contributo significativo alla domanda di gas europea; pertanto, non fanno altro che dimostrare l’impegno politico dell’Europa nei confronti di Israele.
L’accesso al mercato europeo permette ad Israele di giustificare la sua integrazione economica nella regione e di attirare investimenti per costruire le sue riserve e per generare profitti a vantaggio della sua economia di guerra genocidaria.
Perché sanzionare le società dell’energia per la Palestina?
Le compagnie petrolifere e del gas che gestiscono i giacimenti di Tamar, Leviathan e Karish generano profitti significativi per Israele attraverso l’esplorazione, la produzione e la vendita di gas. In tal senso, svolgono un ruolo fondamentale nella strumentalizzazione e nell’occupazione dei mari e delle risorse naturali palestinesi. Ma come lo fanno?
Il ciclo di vita del processo di upstream del gas e del petrolio si articola in cinque fasi, ognuna delle quali crea guadagno per i governi concessionari: esplorazione -> sviluppo ->produzione -> chiusura.
Durante la prima fase – quella di esplorazione – le società energetiche fanno un’offerta per una determinata zona marittima e il governo sceglie il vincitore: in molti casi, l’azienda che ha offerto di più. La società (o l’insieme di società: il consorzio) paga il governo per la concessione di “esplorazione”. Ogni licenza costa milioni di dollari.
I governi traggono profitto anche durante la quarta fase – quella di produzione. Durante questa fase, il petrolio, o il gas, viene estratto e trasportato per essere poi usato o venduto, internamente o sui mercati esteri. La fase di produzione può durare da 20 a 50 anni. Quando un’azienda produce gas, lo Stato riceve una percentuale dei profitti, le cosiddette “royalties”.
Nel 2023, Israele ha incassato circa 581 milioni di dollari dalla produzione di gas.
Diverse compagnie energetiche contribuiscono a questo risultato, tra cui due importanti società straniere; Chevron e Energean, che gestiscono i principali giacimenti di gas – Tamar, Leviathan e Karish.
In aggiunta, Chevron è co-proprietaria e gestisce il gasdotto Arish-Ashkelon, che esporta gas verso la Giordania, l’Egitto e l’Unione Europea. 3
La “sicurezza” del gasdotto e della piattaforma Tamar viene usata come pretesto per l’imposizione di un blocco navale illegale che dura da 17 anni su Gaza, e per la sistematica riduzione dello spazio marittimo palestinese da 20 miglia nautiche a 1 miglio. A questo scopo, le navi militari israeliane pattugliano a una distanza che arriva fino a 1 miglio dalla costa palestinese, sparando proiettili veri sui pescatori locali che oltrepassano la barriera invisibile. Questi incontri sono fatali; anche per le famiglie e per i bambini palestinesi che vengono uccisi dai cecchini israeliani mentre si godono la spiaggia in compagnia. Tutto questo viene fatto in nome della“protezione”delle infrastrutture del gas e dei profitti aziendali.
Le risorse energetiche di cui Israele non dispone a livello nazionale vengono estratte, spedite o pompate verso Israele da parte delle società petrolifere e carbonifere. Ad esempio, Glencore e Drummond estraggono carbone in Colombia e in Sudafrica – spesso con conseguenze violente per le popolazioni indigene e marginalizzate – e lo spediscono in Israele. SOCAR e BP spediscono petrolio greggio estratto dal mar Caspio.
Valery Energy raffina tipi specifici di carburanti militari e li spedisce in Israele a bordo della Overseas Santorini.
Le società energetiche traggono continuamente profitto dalla vendita di risorse che alimentano l’espropriazione di terreni, la pulizia etnica e la campagna militare genocidaria in Palestina.
Le multinazionali lavorano su progetti della durata di 20-100 anni in Israele, il che significa che, sostanzialmente, investono sulla continuazione del progetto coloniale di insediamento. In altre parole, le nostre azioni di intralcio devono essere multigenerazionali e di vasta portata per bloccare i contratti energetici di sfruttamento ora e per le prossime generazioni.
SECONDA SEZIONE: PERCHÉ SANZIONARE L’ENI E LA DANA PETROLEUM
Il 29 ottobre 2023, Israele ha assegnato 12 nuovi permessi di esplorazione, sei a un consorzio di tre società energetiche: BP, SOCAR e NewMed, e sei a un altro consorzio di altre tre società: Eni, Dana Petroleum e Ratio Energies. In totale, le aziende hanno pagato più di 15 milioni di dollari per ottenere le licenze.
In altre parole, queste aziende hanno immesso milioni di dollari nell’economia di guerra israeliana durante il suo attacco genocidario contro i palestinesi.
Il presente toolkit si concentra su due società: l’Eni e la Dana Petroleum.
Perché proprio queste due?
Esistono già movimenti dal basso che hanno organizzato campagne contro gli approvvigionamenti di BP e SOCAR a Israele (così come contro Chevron). Mentre contro l’Eni e la Dana – che, secondo i dati del settore, hanno interessi significativi nel consorzio – ancora non ci sono campagne su vasta scala a questo proposito.
Ma soprattutto, più della metà (circa il 62%) dell’area totale coperta dalle sei licenze concesse alle due aziende [Zona G nella figura 1] si trova all’interno della Zee palestinese secondo il diritto internazionale.
In altre parole, le licenze concesse al consorzio dell’Eni e della Dana Petroleum sono considerate dalle più importanti organizzazioni per i diritti umani come chiare violazioni del diritto internazionale, che vieta alle potenze occupanti di saccheggiare, vendere o sfruttare le risorse naturali.
Per i movimenti, questo costituisce una leva strategica su cui puntare per spingere al disinvestimento e al ritiro delle aziende dalle acque palestinesi.
È stata esclusa la terza componente del consorzio, Ratio Energies. In quanto azienda israeliana con stretti legami col governo israeliano, quotata alla Borsa di Tel Aviv, includerla non avrebbe avuto senso dal punto di vista strategico. Queste società sono già state contestate legalmente per la questione delle licenze da parte di una coalizione di organizzazioni palestinesi per i diritti umani: Adalah, Al Haq, Al Mezan e PCHR. La presente ricerca mira ad espandere e a sostenere il loro lavoro. Vedi qui.
N.B. Nel caso di queste licenze, la fase di esplorazione avrà una durata iniziale di tre anni, a cui se ne potrebbero aggiungere altri due, durante i quali le aziende saranno tenute a perforare un pozzo esplorativo. Se i partner si impegnano a perforarne altri, le licenze potranno essere estese per altri due anni.

Figura 1: Mostra le aree comprese nella gara. Le linee rosse tracciano l’area che Israele considera de facto come propria area di competenza per il rilascio di concessioni, mentre le linee nere corrispondono ai confini marittimi palestinesi secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. La linea rossa tratteggiata mostra la realtà dell’esperienza palestinese sul campo. La Zona G in figura è l’area per la quale il consorzio composto da Eni, Dana Petroleum e Ratio Energies ha ricevuto la licenza. La Zona I è l’area che interessa le licenze concesse a BP, SOCAR e New Med Energy.
IL CASO
Il 6 febbraio 2024, tre mesi dopo la concessione delle licenze, lo studio legale statunitense Foley Hoag, ha scritto agli amministratori delegati dell’Eni e della Dana Petroleum per delineare il caso legale contro le due aziende. La lettera, scritta per conto di una coalizione palestinese, fa appello alle società di astenersi dalla firma dei documenti relativi alle licenze e dall’intraprendere qualsiasi tipo di attività nelle aree della Zona G che si trovano in acque palestinesi.
I gruppi, Al-Haq, Al Mezan Center for Human Rights, e il Palestinian Centre for Human Rights, hanno dichiarato: utilizzeremo tutti i mezzi legali disponibili, anche presso le Nazioni Unite e i media internazionali, per portare all’attenzione mondiale la complicità dell’azienda nelle azioni illegali di Israele.
In risposta alla coalizione, Israele sostiene che, dato che non riconosce la Palestina come stato sovrano, quest’ultima non avrebbe l’autorità necessaria per dichiarare i suoi confini marittimi. Questa argomentazione contraddice chiaramente i principi consolidati del diritto internazionale.
La sezione seguente esplora i fondamenti giuridici in base ai quali l’Eni e la Dana Petroleum possono essere attaccate.
LICENZE ILLEGALI
Secondo il diritto internazionale, le sei licenze concesse il 29 ottobre 2023 al consorzio guidato dall’Eni, assieme alla Dana Petroleum e alla Ratio Energies, sono illegali.
Israele non ha il diritto di operare nelle acque territoriali palestinesi [evidenziate in viola nella figura 1]. Secondo il diritto internazionale, quell’area marittima non appartiene a Israele. È, invece, lo Stato di Palestina, Stato osservatore secondo la risoluzione adottata nel 2012 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ad avere sovranità e giurisdizione sull’area e sulle risorse naturali in essa contenute.
Diritto Internazionale Umanitario e dei Diritti Umani: L’articolo 43 delle Convenzioni dell’Aia delinea il quadro generale per le azioni di una potenza occupante nel territorio occupato. L’articolo nega alla prima la possibilità di distruggere le risorse naturali del secondo, trasferirne la proprietà ad altri, esaurirle o sfruttarle per le sue esigenze generali. Qualsiasi modifica a lungo termine nei territori occupati deve essere fatta a beneficio della popolazione locale. Inoltre, l’articolo 55 afferma che la potenza occupante non è altro che un «amministratore e usufruttuario» del territorio.
Le licenze in questione, inoltre, violano sia l’articolo 47 delle Convenzioni dell’Aia che l’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, che vietano il saccheggio, elencato come crimine di guerra anche nello Statuto di Roma.
Diritto della Navigazione: La Convenzione delle Nazione Unite sul diritto del mare, firmata nel 1982, stabilisce le norme relative ai mari e agli oceani, compresi i confini territoriali e l’accesso alle risorse. Le gare qui analizzate violano i mari territoriali rivendicati, in conformità al Diritto del Mare, dallo Stato di Palestina.
BOICOTTAGGIO, DISINVESTIMENTO E SANZIONI
Il 29 luglio 2024, la Corte internazionale di giustizia (Cig), la principale corte delle Nazioni Unite, ha stabilito che l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza da parte di Israele è illegale secondo il diritto internazionale e deve essere terminata al più presto. Lo ha dichiarato in un’ordinanza storica, che impone a tutti gli stati l’obbligo di aiutare a mettere fine al sistema israeliano di apartheid, di segregazione e di occupazione. Questo implica tagliare tutte le relazioni commerciali e di investimento con Israele nei c.d. Territori Occupati Palestinesi.
In altre parole: l’appello del 2005 al Boicottaggio, al Disinvestimento e alle Sanzioni (BDS) da parte dei gruppi palestinesi non solo è un obbligo morale, ma ora è anche un obbligo legale secondo il diritto internazionale. Questo solleva interrogativi sulla responsabilità degli stati attualmente coinvolti nell’esplorazione e nella produzione di gas nei giacimenti al largo della costa palestinese.
COMPLICITÀ NEL GENOCIDIO
In seguito al caso del 2023-24 sull’Applicazione della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio nella Striscia di Gaza (Sudafrica vs. Israele), la Cig ha deliberato che, poiché esiste un «reale e imminente rischio» di genocidio, è necessario adottare misure urgenti.
Making a Killing, la relazione del 2024 di SOMO, illustra le implicazioni legali dell’ordinanza per gli organi statali e societari che abbiano legami commerciali col genocidio in corso in Palestina.
Nella relazione si legge che: “nonostante non facciano parte della Convenzione sul Genocidio, né di altri strumenti
giuridici internazionali, le multinazionali - e i loro dipendenti - possono essere ritenute responsabili per la loro partecipazione ad atti di genocidio, così come a crimini di guerra e a crimini contro l’umanità. L’articolo VI della Convenzione sul Genocidio specifica che le “persone” possono essere accusate di atti di genocidio, il che, secondo l’interpretazione di importanti studiosi, si applicherebbe anche alle persone giuridiche come le società e, senza dubbio, alle persone nella funzione di dipendenti.
I dirigenti e i dipendenti possono essere perseguiti penalmente per genocidio dalla Corte Penale Internazionale secondo lo Statuto di Roma, e le società possono essere perseguite nelle corti nazionali secondo le leggi che recepiscono i principi della Convenzione sul Genocidio nei sistemi giuridici nazionali.
La complicità delle società in atti di genocidio perpetrati da altri spesso si esprime in un rapporto di favoreggiamento, ovvero nel fornimento di sostegno fisico o materiale alla parte che sta commettendo il crimine. […] Il favoreggiamento richiede che le società siano consapevoli dell’intenzione della controparte a commettere un genocidio e che il sostegno che offrono abbia un effetto significativo sulla perpetrazione del crimine.
Le norme perentorie sugli obblighi delle società in ambito di diritti umani le vincola ad applicare la dovuta diligenza per identificare, prevenire, mitigare e rispondere di come affrontano l’impatto delle loro operazioni sui diritti umani. In situazioni di conflitto armato, le imprese sono esplicitamente chiamate a rispettare le norme del diritto internazionale umanitario […].
(Continua)
Note di Redazione:
1) È dello scorso 8 agosto un accordo da 35 miliardi di $ fra Israele ed Egitto per l’esportazione di gas.
2) Vedi anche il dossier del Gastivists Collective che riporta l’arrivo di due carichi di GNL, presumibilmente di provenienza israeliana, ai rigassificatori di La Spezia e Piombino.
3) Il gasdotto Arish-Ashkelon è anche partecipato da SNAM. Vedi: Adele Siccardo, ReCommon chiede a Snam di uscire dal business del gas in Israele, Altreconomia, 16 maggio 2025.