Il primo posto che ho conosciuto a Gaza è Khuza'a e i suoi terreni
agricoli che si estendono a sud-est della Striscia. Alle spalle, i frutteti, gli uliveti e gli aranceti. Qui, terra ferma e cereali. Proprio di fronte, la recinzione del ghetto che li separa dal paese dei loro padri e delle loro nonne. Accompagnavo i membri della brigata internazionale provenienti dal Paese Valenciano, dalla Catalogna, dall'Andalusia, da Madrid, dalla Francia e dal Venezuela. Venivano a fare gli scudi umani. Quando non c’erano, i cecchini dell'occupazione sparavano ai contadini, che venivano feriti e a volte uccisi. La comunità raccoglieva il cereale. Ragazze e anziani, uomini e donne, neonati e animali. Saggi canti antichi e giovani sorrisi ribelli. Falce, spighe e mani. La terra partoriva, di nuovo. Ecco come l'ho vissuto nella primavera del 2014.
Nell'ottobre 2023, quello stesso muro coloniale viene fatto saltare in aria. Migliaia di nativi armati saccheggiano i loro vecchi villaggi e le loro terre. Dopo tre quarti di secolo, il regime di Tel Aviv annuncia la soluzione definitiva al problema: il genocidio palestinese. La storiografia ci ricorda che, quando la nazione Sioux-Lakota sconfisse e uccise le truppe del generale Custer, Washington non ebbe altra scelta che spazzare via una volta per tutte i dannati indiani e i loro dannati bisonti. Londra fece lo stesso con i suoi maledetti indiani delle risaie del Bengala quando attaccarono i soldati imperiali. Ma, per porre fine ai popoli della terra, dobbiamo prima porre fine alle loro terre. "Senza acqua, non ci sono pesci", hanno detto gli strateghi della controinsurrezione quando hanno pianificato di bruciare le giungle vietnamite e i villaggi Maya.
Il paese dell'ulivo e delle arance tristi
Quando spiego al contadino di Gaza che sono valenciano, mi dice che hanno la varietà di arance di Valencia. È curioso come la cultura, l'agricoltura, sia un dialogo che connette il tempo e lo spazio. Gli arabi portarono ad al-Andalus le prime arance amare dalla Persia e
dall'India. Ma i portoghesi e i valenciani ne portarono di più dolci. "E’ l’anno 1948. Abbiamo lasciato Jaffa per andare ad Acri. Le donne scesero e andarono dal contadino. Raccolsero alcune arance fra i lamenti. Tuo padre allungò la mano per raccogliere un'arancia, la guardò in silenzio e scoppiò in lacrime, come un bambino triste. Tua madre stava ancora guardando in silenzio i campi. E negli occhi di tuo padre si riflettevano tutti gli aranci che erano rimasti agli israeliani, tutti gli alberi che egli aveva piantato con tanta cura uno per uno. Nel pomeriggio eravamo diventati rifugiati". Questo è un estratto dal racconto "Il paese delle arance tristi", di Ghassan Kanafani, uno scrittore rivoluzionario morto in un attacco israeliano a Beirut.
Questa piccola storia è un paradigma di come quasi un milione di arabi palestinesi nativi siano stati cacciati dalla loro patria dai sionisti europei. Così è stato creato Israele, sopra la Palestina: le città sono state svuotate e i villaggi semplicemente demoliti. La colonizzazione degli insediamenti si basa sullo svuotamento e l'occupazione della terra, a differenza del colonialismo sfruttatore, che cerca il controllo militare per saccheggiare la popolazione locale. Nel caso dell'Australia, degli Stati Uniti e di Israele, la popolazione indigena deve semplicemente scomparire fisicamente. Ma soprattutto, le sue spiritualità, le sue visioni del mondo, i suoi ricordi, le sue storie e le sue lingue devono scomparire. La sua agricoltura e il suo modo di relazionarsi con la natura devono scomparire. È ciò che l'accademia chiama epistemicidio, l'annientamento di ogni sistema di autoconoscenza, per sostituirlo con quello dei conquistatori. Israele è un prodotto pensato e progettato nell'Europa urbana coloniale, anche se è stato costruito in Asia occidentale, sulle rovine della Palestina mediterranea.
[“Soprattutto, le loro spiritualità,
le loro visioni del mondo,
i loro ricordi, le loro storie
e le loro lingue devono scomparire”]
È necessario sapere tutto questo per capire perché i coloni bruciano sistematicamente gli uliveti. Si stima che quasi un milione di ulivi siano stati distrutti dal 1967. O perché le foreste di pini ed eucalipti vengono piantate sopra ai villaggi cancellati dalla mappa. L'obiettivo è quello di europeizzare ad alta velocità un paesaggio così estraneo ai colonizzatori che provenivano dal centro ghiacciato e dall'est dell'Europa. Il risultato della massiccia piantumazione di specie invasive è che gli incendi boschivi e la scomparsa della fauna autoctona sono diventati all'ordine del giorno.
Omar Ghoneym, agricoltore i cui uliveti sono stati invasi dalle ruspe, spiega a Ctxt:
“Combattono contro l'albero, combattono contro la pietra, combattono contro la terra, combattono contro tutto ciò che è una testimonianza della storia palestinese. Vogliono cambiare la faccia della terra perché temono la verità che contiene. Ma noi abbiamo un'arma che loro non possono avere, con la quale resistiamo a tutti i loro tentativi di espellerci: l'amore ancestrale e il dovere di proteggere tutto ciò che cresce sul suolo palestinese. La Palestina è nostra madre e non la abbandoneremo mai”.
Forse è per questo che Salah Abu Ali dedica la sua vita a proteggere l'ulivo più antico del pianeta: Al Badawi. Ha circa cinquemila anni, e a Betlemme la chiamano la madre degli ulivi. Il Ministero dell'Agricoltura dell'Autorità Palestinese (un'entità regionale che Israele ha autorizzato nel 1993) afferma che ci sono 11 milioni di ulivi nel 20% della Palestina storica: Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. Il restante 80% della Palestina storica è quello che ora viene chiamato Israele. Rania Abu Taima, una giovane scrittrice proveniente da una famiglia di contadini, racconta come la raccolta annuale delle olive sia uno dei suoi ricordi d'infanzia più cari. Descrive come tornava da scuola entusiasta di salire sulla scala di legno per poter dire: "Sono più vicina al cielo!" Grazie all'archeologia e alla storiografia, oggi sappiamo che la tecnica per estrarre l'olio d'oliva è nata nella zona del Levante più di sei millenni fa. E dalle terre libanesi e palestinesi, i Cananei, chiamati Fenici dai Greci, l'hanno portata tre millenni fa nella penisola iberica. Accanto al primo alfabeto della storia. Sì, dobbiamo loro il cibo, la lettura e la scrittura.
Kibbutz e agrotossici contro la terra
Le élite che danno impulso ai processi storici coloniali concedono privilegi e libertà ai coloni. Nel caso palestinese il sionismo ha creato un modello innovativo: kibbutz, basi agricole militarizzate, produttive e riproduttive, nel cuore del territorio nativo. Anche l'ideologia era nuova: l'etnosocialismo, un movimento cooperativo solo per persone di religione o cultura ebraica, l'idealismo messianico di riscattare la terra biblica sostituendo i suoi fastidiosi abitanti rurali originari con un esercito di europei urbani. Nel documentario "Jaffa – The Orange’s Clockwork", un colono spiega che i kibbutz erano diversi dagli altri: mentre la maggior parte degli europei voleva sfruttare le popolazioni indigene e imparare dalle loro tecniche agricole, i kibbutz rifiutavano anche la minima collaborazione o relazione con la popolazione nativa. Jaffa è una città palestinese millenaria accanto alla quale è stata costruita la colonia di Tel Aviv nel 1909. Oggi è solo un'appendice della capitale turistica, politica ed economica israeliana. Tuttavia, alla fine del XIX secolo e all'inizio del XX secolo, Jaffa competeva con Valencia nell'esportazione di arance in Europa.
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Nel periodico digitale Público, Alberto Spektorowski, professore all'Università di Tel Aviv, ricorda: "Erano posti di frontiera, in molti casi, e la punta di diamante della colonizzazione della terra. Il suo scopo era sociale, ma, più di ogni altra cosa, aveva uno scopo nazionale". Oggi, la maggior parte dei kibbutz ha chiuso o è stata privatizzata. Lo Stato e l'esercito non li considerano più necessari nell'attuale modello neoliberista. Un caso poco noto è che la dittatura franchista studiò il modello dei kibbutz e quello delle città costruite dal fascismo italiano per l'Istituto Nazionale di Colonizzazione: il progetto di creare trecento "villaggi colonizzatori" nella Spagna rurale che Franco considerava vuoti tra il 1940 e il 1975.
In quella primavera di dieci anni fa, stavo fotografando la comunità agricola di Khuza'a durante la raccolta dei cereali. Proprio accanto ai kibbutz israeliani vediamo un piccolo aereo che spruzza pesticidi sulle monocolture tecnificate. Lo scontro tra modelli è al massimo:
da una parte, i contadini palestinesi, che lavorano manualmente e in comune le loro terre sulla base della policoltura tradizionale; sul lato israeliano, giganteschi campi lavorati da immigrati thailandesi e indiani. Il miracolo agricolo sionista non si è compiuto solo con il saccheggio delle terre indigene, ma anche a spese della loro stessa sopravvivenza. L’irrigazione attraverso l'estrazione massiccia di risorse idriche, l'uso intensivo di fertilizzanti ed erbicidi, nonché dei macchinari pesanti. In soli settantasei anni di esistenza dello stato israeliano, il fiume Giordano, il Mar Morto e il lago di Tiberiade si stanno prosciugando a causa di una gestione insostenibile dell'acqua. Senza contare che anche il Golan siriano, un'area montuosa strategica dove nascono molti fiumi, è sotto occupazione e sfruttamento delle sue risorse.
La semina nell'Ora Finale
Il genocidio palestinese attualmente in corso a Gaza è la fase finale di annientamento, in cui l'obiettivo è l’insostenibilità della vita dei nativi. La distruzione di tutte le risorse agricole è la priorità militare. Il 96% della popolazione della Striscia soffre la fame, poiché il 60% dei frutteti e delle piantagioni sono stati distrutti. Ciò che rende unico questo processo è che viene documentato dalle sue vittime, dalle istituzioni internazionali e da quelle per i diritti umani. Il chirurgo Ghassan Abu Sitta ha avvertito l'umanità nel 2018 del fatto che Israele aveva creato la biosfera tossica della guerra, un modello in cui la contaminazione delle falde acquifere, la distruzione dei pozzi e delle fonti naturali di Gaza eliminano ogni possibile futuro. A questo va aggiunto il lancio dell'equivalente di tre bombe atomiche in esplosivi chimici e metalli pesanti. Un territorio più piccolo della maggior parte delle nostre regioni accumula un grado di rovine e materiali inquinanti mai studiato prima. E, ovviamente, questo è un pericolo per l'umanità. In primo luogo, a causa dell'impronta di carbonio del genocidio che ha già superato le emissioni annuali di venti paesi nei primi due mesi. E in secondo luogo, perché è un modello di ecocidio militare che, se riesce a sottomettere la ribellione indigena, può essere attuato contro qualsiasi luogo del mondo. The Lancet, la rivista medica più prestigiosa del mondo, ha pubblicato un articolo in cui si stima che il numero totale di morti a Gaza, sommando tutti i fattori del genocidio (omicidio, fame e malattie) potrebbe raggiungere i 186.000; cioè, una persona su dieci.
[ “La distruzione di tutte le risorse
agricole è la priorità militare”]
Di fronte a questa situazione apocalittica, il popolo palestinese ricorda questa raccomandazione spirituale:
"Se viene la fine del mondo e tu semini, continua a seminare".
Mentre la morte lo circonda in cielo, terra e mare, continua a coltivare la terra, a radunare il bestiame, ad aprire scuole, a celebrare matrimoni e a combattere gli invasori. E, sotto le bombe, le mamme e i papà continuano a cantare canzoni e a raccontare storie ai più piccoli, perché continuino a credere che la vita sia bella e valga la pena. Dipende da noi se il futuro apparterrà alla macchina da guerra o al popolo degli ulivi e delle arance tristi.
* Tratto da Revista Soberania Alimentaria n. 51, autunno 2024. Per l'originale in
clicca su 
** Traduzione di Ecor.Network.
Immagini:
Le immagini digitali qui riprodotte dei magnifici dipinti di Sliman Mansour possono essere utilizzati per fini non commerciali con una libera donazione (vedi qui) alla Maryam Foundation.
1) Sliman Mansour, From the river to the sea (من النهر الى البحر), olio su tela, 2021.
2) Sliman Mansour, Lost Sea II (بحر مفقود ٢), olio su tela, 2015.
3) Sliman Mansour, copertina per la rivista Al-Awda, che raffigura gli attacchi dei coloni sugli oliveti durante la raccolta delle olive, tecnica mista su carta, anni '80
4) Sliman Mansour, Land day (يوم الأرض), olio su tela, 1983.