La rilevanza dell’Amazzonia, lungi dal diminuire, continua ad aumentare. Questa enorme regione, che si estende per più di sette milioni di chilometri quadrati, in otto paesi e una colonia francese, ospita ambienti di enorme importanza ecologica ma anche economica a causa della domanda di risorse naturali. Vi si sovrappongono problemi sociali e ambientali più volte denunciati, dalla povertà alla deforestazione, dall’invasione delle compagnie minerarie e petrolifere alla violenza.
Questi e altri temi saranno discussi nel prossimo Forum Sociale Panamazzonico, che si svolgerà in Bolivia il prossimo giugno, e anche nell’incontro dei governi nel quadro della Convenzione sulla Diversità Biologica, in Colombia, in ottobre. Pertanto, è opportuno rivedere alcuni aspetti della situazione attuale nella regione dal punto di vista delle alternative allo sviluppo e delle possibili transizioni per raggiungerle. In questo primo articolo l'accento è posto sulle posizioni del governo.
Gli Stati amazzonici: spinte e stalli
I governi dei paesi amazzonici hanno storicamente avuto responsabilità dirette nelle diverse crisi subite in quella regione, cosa che viene denunciata da anni. Ma a differenza di altre volte, attualmente uno di questi governi propone un discorso diverso. Pretende lasciarsi alle spalle gli estrattivismi nel settore degli idrocarburi e del carbone, si propone un approccio più ampio sulla problematica amazzonica (associando fattori ecologici ed economici) ed è aperto all’avvio di transizioni (concentrandosi sui combustibili fossili). È il caso dell'amministrazione di Gustavo Petro in Colombia. Almeno nel recente passato, nessun governo amazzonico ha offerto un discorso di questo tipo, e proprio per questo dovrebbe essere accolto con favore.
Ma come è stato più volte avvertito, da un lato ci sono le intenzioni e le dichiarazioni presidenziali, dall’altro però non sempre c’è chiarezza nelle idee che sostengono queste aspirazioni, nelle azioni necessarie, così come nella capacità degli attori politici e tecnici nel concretizzarle, senza dimenticare che le aspettative dei cittadini sono molto più radicali 1.
Queste aspirazioni colombiane devono confrontarsi con quelle di tutti gli altri paesi amazzonici. Su questo fronte possiamo differenziare, da un lato, la posizione del Brasile, dove ci sono attori che comprendono l’urgenza di transizioni e alternative e, dall’altro, quella degli altri Stati, che si ostinano a minimizzare o trascurare l'Amazzonia.
Nel caso brasiliano, la presidenza di Lula da Silva presenta tendenze diverse, è inquadrata in una coalizione che comprende partiti di centro e anche di centrodestra, ed è anche sotto pressione da parte dei cosiddetti “bolsonaristi”, sia nei governi degli Stati che nel Congresso. In ogni caso, non si può dimenticare che nella sua campagna elettorale Lula ha respinto l’appello lanciato da Petro per un coordinamento post-petrolifero tra Colombia, Brasile e Messico. In più di un’occasione, da candidato e poi da presidente, Lula si è espresso a favore della continuazione dello sfruttamento degli idrocarburi, optando sempre per “sviluppare” l’Amazzonia.
In quel governo va però sottolineata la presenza di Marina Silva, ancora una volta a capo del Ministero dell’Ambiente e del Cambiamento Climatico. Viene dall'Amazzonia, conosce la situazione della regione e la sua esperienza, preparazione e vocazione non si possono negare. Silva non ha tenuto un discorso che propone di abbandonare l’estrattivismo dei combustibili fossili, ma ha messo in chiaro che comprende questa questione. Il suo ministero ha sostenuto, ad esempio, la decisione di impedire nuove esplorazioni petrolifere alla foce del Rio delle Amazzoni a causa dei suoi impatti ambientali, cosa che ha portato ad una controversia con il presidente Lula. Inoltre, il Ministro ha in qualche modo riconosciuto davanti allo stesso Petro, in una tavola rotonda al recente Forum Economico di Davos, che il suo governo discute le implicazioni di una moratoria petrolifera in Amazzonia, ma che ciò comporta questioni che vanno oltre le considerazioni ambientali. Né è minore il ruolo di Sônia Guajajara, la nuova ministra dei Popoli Indigeni, con posizioni che sarebbero utili per esplorare alternative.
Su altri argomenti ci sono più coincidenze. Ad esempio, Colombia e Brasile hanno interrotto i piani di militarizzazione della gestione territoriale amazzonica, lanciati sotto le amministrazioni Duque e Bolsonaro. Concordano anche sulla necessità di migliorare la gestione ambientale in Amazzonia e in maniera speciale sul fermare la deforestazione. Ma in ogni caso Brasilia non appoggia i discorsi di transizione che vengono da Bogotà.
Nel frattempo, i governi di Ecuador, Bolivia, Perù, Venezuela, Guyana e Suriname, sebbene non abbiano posizioni identiche, possono essere aggregati in un gruppo che non dispone di piani e di gestioni efficaci per l’Amazzonia, che non riesce a fermare la deforestazione o a controllare gli incendi, tollerano la contaminazione dei suoli e delle acque e consentono la diffusione dell'estrattivismo. Non discutono le alternative allo sviluppo e possono addirittura considerarle pericolose interpretandole come ostacoli al profitto economico.
Da notare alcune differenze in questo gruppo.
In Ecuador, l’attuale amministrazione di Daniel Noboa deve affrontare una situazione che non ha eguali in nessun altro paese, visto che nel 2023 ha avuto successo un referendum cittadino per fermare lo sfruttamento petrolifero nella regione amazzonica di Yasuní. Nonostante lo schiacciante risultato di quasi il 60% dei voti, ci sono segnali che questa amministrazione cercherà di rinviare l'applicazione o di non rispettare affatto la consultazione. È difficile prevedere come andrà avanti questa contraddizione, dal momento che il Paese è sconvolto da un’ondata di scandali di violenza e corruzione che dominano l’attenzione dei cittadini.
Nel caso della Bolivia, nell’ultimo decennio il governo ha mantenuto un energico discorso sulla protezione della Madre Terra, sulla plurinazionalità e sull’indigenità, ma - come è noto - nella sua gestione ha optato per un maggiore estrattivismo, generando molteplici conflitti con le comunità locali e le organizzazioni di base. L’avanzata dell’estrattivismo nel settore degli idrocarburi e dei minerali è stata tollerata e addirittura sostenuta, compresa l’estrazione dell’oro, anche all’interno di aree protette, e si sono verificate gravi crisi come quella degli incendi boschivi del 2019. La persistente crisi politica del paese, ora alimentata da una frattura all’interno del partito governativo Movimento al Socialismo (MAS), fa sì che continui - ad esempio - a portare avanti lo sfruttamento minerario nella sua regione amazzonica, invadendo anche i territori comunitari o non garantendo misure di conservazione all’interno delle aree protette.
La situazione in Perù è in qualche modo simile. Il precedente presidente, Pedro Castillo, replicava a un piano di governo estrattivista e ostile alla partecipazione dei cittadini: l’attuale presidenza di Dina Boluarte è caduta in una fase di maggiore repressione e autoritarismo. La conseguenza è che i problemi dell’Amazzonia continuano e addirittura peggiorano a causa dell’inazione del governo. Come se ciò non bastasse, ci si occupa solamente di piccole controversie politiche, come l'opposizione presidenziale alla designazione di autorità colombiane nell'Organizzazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica (OTCA).
Infine, in Venezuela diversi analisti e leader cittadini hanno denunciato il proliferare di molteplici attività in Amazzonia, proprio come avviene in altri paesi. La particolarità è che l’amministrazione di Nicolás Maduro ha impiegato l’esercito, sia nella repressione e nello sgombero delle persone, sia nel dirigere l’estrattivismo 'formale'. Il suo appetito estrattivista è reso evidente dal conflitto tra questo paese e il suo vicino, la Guyana, con cui si contende le concessioni petrolifere nelle zone marittime antistanti.
In sintesi, tra questi sei governi si possono trovare appelli generici, a volte con un senso di pubblicità o opportunismo, che fanno riferimento all’Amazzonia, alla sua ricchezza ecologica o che ripetono slogan che si riferiscono al “polmone” del pianeta. Ma mancano piani e azioni concrete per fermare problemi di fondo come il deterioramento ambientale, la povertà e la violenza, e le loro azioni per affrontare emergenze come gli incendi boschivi, oppure l’invasione dello sfruttamento aurifero, sono insufficienti. L’Organizzazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica (OTCA), che sarebbe l’organismo chiave per concordare e coordinare le risposte, è trascurata e persino dimenticata dagli stessi paesi. Nessuno di questi governi si allineerà alle richieste di Bogotà per una transizione che lasci alle spalle la dipendenza dai combustibili fossili e - tra l'altro - manterranno anche le distanze da molte posizioni brasiliane (come di cercare davvero di controllare la deforestazione, fino a quando non verranno fuori misure efficaci per realizzare ciò, ad esempio, in Bolivia o Perù). Non solo, ma non sono nemmeno disposti a esplorare le possibilità per una transizione.
L'imposizione di nuovi territori
Esiste una copiosa informazione sulla problematica dell’Amazzonia, dagli avvertimenti sulla perdita di biodiversità, alla disuguaglianza e la povertà, e in particolare quella che colpisce le popolazioni indigene 2. Non è possibile qui affrontare tutte queste questioni nel dettaglio, ma l’analisi della situazione permette di mettere in guardia riguardo a un processo che non sempre appare evidente e nel quale i governi hanno responsabilità dirette.
In Amazzonia, infatti, persistono processi di trasformazioni territoriali radicali e sostanziali, che sotto diversi aspetti si stanno aggravando. Sui vecchi territori, siano essi quelli che corrispondono a popolazioni indigene o comunità contadine, o quelli che si devono a sistemazioni amministrative da parte di municipi o dipartimenti, si impongono nuove territorialità. Questi sono estroversi, nel senso che sono associati e dipendenti da agenti, meccanismi e flussi globali. Gli esempi più drammatici sono la diffusione di enclaves di attività minerarie, petrolifere o agricole.
I territori preesistenti avevano legami diversi con le aree che li circondavano, mentre questi nuovi, proprio perché enclaves, sono disconnessi o debolmente relazionati con gli spazi limitrofi: alcuni di essi sono addirittura recintati e sorvegliati dalle forze di sicurezza. Questi enclaves ricevono fattori produttivi dall’estero e le risorse naturali che estraggono vengono esportate verso altri continenti, spesso mediate da imprese transnazionali, anche se in alcune aree o paesi possono essere di proprietà statale o essere associate ad imprese nazionali.
Questa nuova territorializzazione risponde ad agenti e dinamiche esterne all’Amazzonia, anche al di là delle capacità di regolamentazione degli stessi governi. Sono influenzati dal boom and bust dei prezzi delle materie prime, dalla disponibilità di capitali di investimento, da ostacoli o aperture commerciali e dal livello di consumo di paesi come la Cina o delle nazioni industrializzate. Ad esempio, il record storico dell’aumento del prezzo internazionale di riferimento dell’oro, sopra i duemila dollari l’oncia (28,3 grammi NdT), a cui si è arrivati nel marzo 2024, è un fattore che fatalmente farà aumentare ancor più questo tipo di estrazione in Amazzonia. I governi locali o nazionali non controllano questo tipo di dinamiche.
Dal punto di vista delle comunità locali, questi enclaves significano pochissimi benefici economici e lavorativi, e la perdita di pratiche ancestrali come la pesca, la raccolta, la caccia e l’agricoltura, adattata a questi ecosistemi tropicali. È anche una territorializzazione imposta: occupa spazi, ignorando i territori preesistenti e i loro abitanti, e viene bloccata anche la capacità di queste comunità di incidere, di controllare o di rifiutare. Questa imposizione può seguire canali apparentemente legali, come avviene nel caso delle concessioni minerarie o petrolifere decise nelle capitali dei paesi amazzonici. Ma può anche essere illegale, e l’esempio più allarmante si ha con l’espansione dell'attività aurifera alluvionale, che invade i territori di molte comunità e li occupano non senza l'uso della violenza.
In questo modo, la 'riterritorializzazione estroversa' crea quelli che potrebbero essere descritti come 'buchi' negli spazi amazzonici, poiché estraendo o aspirando alle loro risorse, questi enclaves distruggono la continuità dei loro ecosistemi. Si tratta di gap sia sociali che ambientali, poiché possono essere passivi ambientali, come accade con i siti deforestati e contaminati da mercurio, che difficilmente possono essere ripristinati, oppure con comunità sgomberate o con i loro membri dispersi. La sequenza di paesaggi ed ecosistemi rimane interrotta da enclaves, che possono convergere anche su grandi superfici, come accade nel caso dell’arco di deforestazione amazzonico che avanza dal sud.
Sotto questa dinamica è come se l’Amazzonia fosse effettivamente gestita dai centri finanziari e commerciali. I governi nazionali non hanno la capacità di modificare o attenuare questi fattori, poiché prevalgono i mercati internazionali e la globalizzazione. Ma nonostante tutto, i governi e i loro gruppi di sostegno alle imprese favoriscono questo tipo di inserimento internazionale, e quindi gli Stati finiscono per essere funzionali a queste situazioni. Così si condannano le regioni amazzoniche che restano subordinate a queste dinamiche globali.
È vero che diverse comunità locali hanno resistito a queste imposizioni di territori che saccheggiano i loro ambienti e, addirittura, sono scoppiati conflitti sociali di varia intensità. Ma è noto che le risposte predominanti del governo sono state quelle di sostenere la permanenza degli enclaves, e non hanno esitato a reprimere le comunità locali e a vessare le organizzazioni cittadine.
L’importanza di questo tema sta nel fatto che i governi non si accorgono di questa dinamica e, se lo fanno, non la considerano una questione seria. Sebbene generalmente minimizzino i problemi dell’Amazzonia, quando li affrontano si concentrano su problemi specifici o locali, come la deforestazione in un sito, gli incendi che sono andati fuori controllo o una rivolta indigena. Ma non sembrano capire che tutti questi sono sintomi di una malattia più profonda, che risiede in questa subordinazione alla globalizzazione come fornitori di risorse naturali. Si tratta di una condizione che si soffre in ciascun Paese ma che si articola e si rafforza complessivamente a livello dell’intero bacino amazzonico.
Nelle concezioni politiche più semplicistiche, non sono mancati attori politici o imprenditoriali che ritengono che l’Amazzonia sia vuota o quasi vuota, che debba essere “civilizzata” e che per farlo le sue risorse naturali debbano essere sfruttate. Sperano di moltiplicare le esportazioni nella speranza di ottenere denaro per finanziare la spesa statale, coprire i deficit di bilancio e pagare il debito estero. Da questo punto di vista, questa territorializzazione estroversa è benvenuta e non hanno esitato a promuoverla.
Viene così messo a nudo un vuoto drammatico. Questa riterritorializzazione amazzonica è uno dei problemi più gravi e complessi che affligge l’intera regione. Tuttavia, non solo il problema non viene riconosciuto, ma qualsiasi azione al riguardo richiede la definizione di strategie e azioni coordinate tra i governi. Ciò rende essenziale, in un’ottica di transizioni focalizzate sulle alternative allo sviluppo, recuperare autonomia di fronte alla globalizzazione.
Il contesto delle alternative
A differenza di quanto accade con i governi, in alcuni settori della società civile esistono molteplici proposte alternative, originate proprio nella regione, e che hanno un potenziale enorme. Anche se un'analisi di congiuntura sulle espressioni della cittadinanza richiederebbe un ulteriore articolo, è comunque opportuno citare alcuni esempi. Tra questi, il riconoscimento dei diritti della Natura approvati in Ecuador, o l’applicazione di moratorie, come quella focalizzata sulla regione di Yasuní, per iniziative che hanno un impatti pesanti, che si considerano inaccettabili o intollerabili e che non hanno una risoluzione tecnologica. La stessa cosa accade con l’esperienza peruviana nell’organizzare una piattaforma cittadina che reclama alternative all’estrattivismo. Queste e altre idee mostrano propositi e orientamenti per le alternative e, una volta chiarito ciò, è possibile progettare strategie di transizione per raggiungere tali scopi.
È importante tenere presente questa condizione poiché attualmente, con il proliferare dell'uso del termine 'transizioni', non è sempre chiaro verso dove si vuole transitare, il che a sua volta è sottoposto a imprecisioni e confusione concettuale 3.
Tenendo presenti queste condizioni è possibile offrire alcune riflessioni sulle alternative. Da una prospettiva regionale, qui si comprende che la riterritorializzazione verso la globalizzazione è la condizione più grave da affrontare. Molti dei problemi identificati come gravi, come la deforestazione o l’estrazione dell’oro, lo sono senza dubbio. Ma quasi in tutti i luoghi sono una conseguenza di quella condizione. Il fatto che prevalgano le reazioni ai sintomi ma senza affrontare le ragioni di fondo, porta a non ricevere la necessaria attenzione, e risulta urgente renderlo evidente. Il fatto è che le alternative, per essere veramente efficaci, devono affrontare i problemi dalle radici, come può essere la condizione subordinata.
Tenendo presente questo, la retorica dell’attuale governo colombiano offre opzioni per discutere alternative da altre posizioni. È vero che le loro azioni sono ancora insufficienti per risolvere i problemi, ma servono come base di appoggio affinché la società civile possa apportare il proprio contributo, con piani più precisi e organizzati, come quelli per garantire i diritti della Natura in tutta l’Amazzonia.
Insomma, deve essere assicurata la più adeguata identificazione dei punti principali e da lì si devono articolare le alternative di cambiamento e le modalità per realizzarle. Per questo è necessario non rimanere incapsulati nei modelli di transizione organizzati in altri continenti, con realtà molto diverse da quelle amazzoniche, e bisogna invece occuparsi seriamente di quanto è stato pensato e sperimentato dall’Amazzonia. Né si può ripetere l'autolimitazione per obbedienza o per simpatie politiche. Le alternative hanno bisogno di aggiungere sia l’indipendenza che il rigore critico.
* Questo testo presenta alcuni dei risultati dell'autore su alternative e transizioni, frutto del lavoro come ricercatore presso il Centro de Información y Documentación de Bolivia (CEDIB), basato s'una versione pubblicata dal quotidiano 'Desde Abajo' (Bogotá), e che è stata successivamente ripubblicata in diversi altri media.
** Originale in spagnolo su El Espectador qui
*** Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network
Note:
1) Transiciones: una necesaria intención de cambio atrapada en una maraña de confusiones, E. Gudynas, Desde Abajo No 299, Bogotá, febrero 2023 – https://www.desdeabajo.info/ediciones/edicion-no299/item/transiciones-una-necesaria-intencion-de-cambio-atrapada-en-una-marana-de-confusiones.html
2) Cfr., ad esempio, i rapporti di RAISG (Rete Amazon di informazioni socio-ambientali georeferenziate), su https://www.raisg.org/es
3) Sulle diverse alternative e sulle loro implicazioni vedi su: Desarrollos alternativos. Alternativas al desarrollo. Una guía ante las opciones de cambio, E. Gudynas, Ediciones desde Abajo, 2023 – https://libreria.desdeabajo.info/index.php?route=product/product&product_id=358